Business di famiglia: Workout magazine incontra Fabrizio Pavan, CEO di Cuneo Inox Srl
Ve la ricordate? È stato un tormentone degli anni Ottanta, cantato dalle Sister Sledge, quattro scatenate sorelle che con questa canzone gridavano al mondo la forza e l’importanza di essere famiglia. Mi è tornato alla mente ascoltando Fabrizio Pavan, CEO di Cuneo Inox Srl, raccontare della sua azienda, sede di 25.000 metri quadrati a Castelletto Stura, 60 dipendenti, una cinquantina di milioni di fatturato, business incentrato sull’acciaio inossidabile, anzi «unici in Italia ad affiancare a un’attività di commercializzazione di materiali in acciaio inox, oggi prevalente, la produzione di semilavorati e anche una piccola parte di prodotto finito». Impresa famigliare senza se e senza ma, inossidabile come il metallo di cui si occupano, nella quale, oltre a lui e al fratello Davide, lavorano i suoi tre figli e la nipote, opportunamente ripartiti tra produzione, commerciale e amministrazione: «A ciascuno di loro ho detto loro la stessa cosa che mio padre a suo tempo aveva detto a me: devi scegliere un lavoro che ti piaccia, non un lavoro che ti porti quattrini. Quelli sono importanti e ti arriveranno, ma nel frattempo devi alzarti ogni mattina con la voglia di lavorare, di dedicarti con passione all’attività che hai scelto. Qui da noi potresti fare una prova, non ti costa nulla, se non ti piacerà, valuterai altre strade”. L’esperimento è stato positivo per tutti e quattro, proprio come era accaduto a me e a Davide, e quindi adesso abbiamo la fortuna di avere in azienda la quarta generazione Pavan».
Fabrizio non ha esitazioni: la famiglia è la grande forza della sua impresa. Forse non è una legge universale, ammette, ci possono essere anche dei rischi e forse anche qualche svantaggio, ma per Cuneo Inox non li teme. La chiave di volta di tutto per lui è l’armonia, l’andare d’accordo: «E noi andiamo molto d’accordo, tutte le decisioni che abbiamo preso nella nostra storia ci hanno sempre visti concordi, anche adesso che i nostri figli sono entrati in società». Un profondo affiatamento testimoniato, ma ancora di più, forse cementato, dal piacere reciproco dello stare insieme: «Un tempo era mia nonna l’architrave della famiglia. Tutte le sante domeniche e le feste comandate ci riuniva attorno al tavolo, lei era una grande cuoca, soprattutto di selvaggina, quella che portava a casa mio nonno, cacciatore accanito. Non mancava mai la pasta fresca, c’erano ravioli, gnocchi, capitava che cominciasse a preparare due giorni prima perché talvolta ci siamo ritrovati anche in 20 a mangiare, tra un piatto e l’altro si discuteva di tutto – tranne che di lavoro perché il nonno proibiva di parlarne in casa – a volte si litigava per tifo calcistico e partivano urla. Ma alla fine del pasto eravamo tutti bell’e che riappacificati. Era divertentissimo. Adesso è diverso, però noi ci ritroviamo sempre volentieri approfittando di compleanni, battesimi, anniversari. Abbiamo anche molte passioni extra lavoro in comune. Senza contare che i nostri figli vivono molto vicini e lo stesso io e mio fratello, quindi è facile tenerci tutti insieme».
Dal punto di vista della governance Cuneo Inox non è certo una mosca bianca, anzi. Secondo il recentissimo rapporto strategico Radici nel futuro, presentato alla prima edizione del Family Business Sustainability Summit organizzata da TEHA Group e Chiomenti, le imprese famigliari rappresentano l’81% delle imprese italiane di cui, come evidenziano i dati raccolti invece da AIDAF, circa i due terzi delle più grandi, per arrivare al 78,8% delle piccole, ha una leadership interamente concentrata nelle mani della famiglia stessa. Ma quello che colpisce nelle parole di Fabrizio è soprattutto la genuina soddisfazione per questa scelta, la naturalezza scevra da esitazioni con cui la si è mantenuta generazione dopo generazione. Un atteggiamento che si allarga a comprendere dipendenti, ma anche fornitori e clienti. Una grande famiglia, appunto.
«Per farle comprendere come siamo vissuti dalle nostre persone, le racconto un aneddoto. Eravamo nel nostro sessantesimo anniversario quando una sera, già ben oltre l’orario di chiusura, ho visto arrivare a casa mia (ma poi ho scoperto che la stessa cosa era accaduta a mio fratello e a mio padre) alcuni nostri dipendenti. Sono stato caricato su un’auto che ha cominciato a fare dei giri complicati tanto che alla fine avevo perso l’orientamento e non sapevo nemmeno più dove fossi. Quando ci siamo alla fine fermati ero davanti ai cancelli sbarrati dell’azienda e lì c’erano anche i miei famigliari, come me un po’ attoniti. Ed è a quel punto che le porte si sono spalancate e abbiamo visto all’interno un grande tavolo con al centro una torta con la scritta: 1953-2013. C’erano tutte le nostre persone con le loro famiglie e ci avevano perfino preparato la cena. Abbiamo mangiato là tutti insieme». Fabrizio dice di essersi emozionato in quel momento, lo stesso sentimento che per un istante gli incrina quasi impercettibilmente la voce. «D’altra parte – continua – tra i nostri dipendenti abbiamo avuto persone che hanno cominciato a 16 anni con mio padre e sono andate in pensione che ancora erano con noi, questo vorrà dire qualcosa, no? Altri nostri pensionati passano a trovarci regolarmente anche se magari hanno smesso da anni di lavorare. Questo per sottolineare che tra noi c’è un affetto che va oltre la vicinanza che il lavoro comporta, d’altra parte se non ci fossero state le nostre persone ad affiancarci, a sposare, diciamo così, i nostri progetti, non saremmo arrivati dove siamo oggi».
E come in tutte le famiglie – almeno in quelle felici, si potrebbe dire, prendendo in prestito il celebre incipit di Tolstoj – ci si diverte insieme: Fabrizio mi racconta con entusiasmo delle grigliate estive, della tradizionale cena di Natale, come momenti di reale condivisione, non dettati da motivi di paternalismo imprenditoriale, «e visto che a tutti noi piace qualche volta fare festa, abbiamo costruito da poco su un terreno qua accanto una foresteria attrezzata, a disposizione gratuita di tutti i dipendenti anche per le loro ricorrenze private. E poi c’è un campo da padel, un campo da bocce, un parco giochi per i più piccoli, sempre a uso libero. Infine, visto che sponsorizziamo una squadra di pallavolo, distribuiamo biglietti gratuiti per andare alle partite domenicali».
Anche nei confronti di clienti e fornitori, dice Fabrizio, prevale un approccio più «affettivo» che utilitaristico: «Non ci interessano i rapporti occasionali, ovvio che se ci arrivano degli ordini diciamo “fini a se stessi” li accettiamo e li portiamo a termine nel migliore dei modi, ma quello che noi davvero vogliamo è creare relazioni continuative e importanti che abbiano la fiducia reciproca alla base, insieme al piacere di ritrovarci ogni volta a lavorare fianco a fianco. Oggi possiamo contare su circa 5000 clienti e posso dire con orgoglio che non mi è mai capitato di essere rifiutato da qualcuno che in precedenza ci aveva scelti».
Qual è l’altra faccia della medaglia di questo approccio famigliare all’organizzazione? Che chi entra in Cuneo Inox sa già che la sua crescita a un certo punto si fermerà, che non potrà mai ambire a posizioni da top manager, «ma in compenso entrerà in un ambiente sano dove verrà comunque gratificato economicamente, dove troverà la mia porta sempre aperta per qualsiasi necessità, dove incontrerà attenzione per le esigenze della sua famiglia grazie per esempio all’orario flessibile perché tutti, e non solo le donne, abbiamo bisogno di distribuire il nostro tempo tra il lavoro, la cura dei figli e degli anziani e noi stessi».
Solo che trovare manodopera, e trattenerla, è sempre più difficile: «Una volta, ai tempi di mio padre, chi entrava in azienda ci restava, ma non solo, cercava di crescere insieme a essa. E se qualcuno a un certo punto decideva di andarsene, in genere lo faceva per mettersi in proprio e sostituirlo era un dispiacere, ma non un problema, come diceva mio padre “è sufficiente che ti guardi attorno, c’è sempre gente che cerca un’assunzione”. Oggi il mondo è cambiato, i giovani entrano, ma dopo tre-quattro anni cercano nuove esperienze. Forse è giusto così, anche se talvolta i lavori a cui vanno incontro sono già in partenza in contesti più brutti. Certo che per noi significa ricominciare tutto da capo perché impieghiamo giusto quel tempo per portare un neoassunto ai livelli qualitativi a cui aspiriamo». Anche la modalità di ricerca del personale è diversa: Fabrizio confessa che i canali social, oggi largamente usati nel recruiting, non sono nelle sue corde, ma che fortunatamente i suoi figli vi si muovono scioltamente e quindi se ne occupano loro. Lui ha invece sperimentato di recente gli incontri nella scuola e ne è rimasto entusiasta: «Sono sincero, non avevo mai preso in considerazione questo tramite, ma l’anno scorso ho voluto provare in un istituto tecnico, non lontano da qui, da cui escono periti, mi dicevano, molto preparati: le aziende sono invitate a presentare la propria realtà e in un secondo tempo vengono organizzati colloqui singoli con i ragazzi dell’ultimo anno, quelli che a luglio si devono diplomare». Il primo approccio è positivo e scioccante al tempo stesso: Fabrizio si ritrova nell’aula magna dell’istituto con 120 diplomandi e… 330 altre aziende affamate di personale – «questo già vi dice che bisogno di manodopera ci sia» – però i pregiudizi che aveva su chi si sarebbe trovato davanti cadono alle prime interviste, tutti i giovani sono seri e consapevoli, hanno le idee chiare, dimostrano preparazione e concretezza, insomma gli piacciono. C’è un «ma», che è la concorrenza spietata da parte delle tante altre imprese e allora decide una piccola astuzia: «Dei 120 ragazzi dell’ultimo anno, un terzo circa era venuto ai colloqui solo per capirne le dinamiche perché tanto avevano già deciso di iscriversi all’Università. Degli altri ero riuscito a parlare con una decina mal contata visto l’affollamento delle due giornate di incontro e a loro ho inviato una mail di invito per una visita in azienda. Bene, dei 5-6 che hanno risposto positivamente sono riuscito ad assumerne uno, che da un paio di mesi lavora nel nostro ufficio tecnico ed è contentissimo, come lo siamo noi di lui». Fabrizio è più pessimista sulle assunzioni in officina che è un ambiente lavorativo spesso rifiutato: «È un peccato perché, lo dico sempre ai miei figli, tra una manciata di anni chi avrà una professionalità artigianale, che sia un idraulico, un meccanico, un saldatore, sarà pagato tanto oro quanto pesa. Tutti i lavori manuali oggi vedono una montagna di offerta da parte delle aziende senza una risposta sufficiente. Anche per questo motivo poi le aziende delocalizzano in altri Paesi».
Problemi che non esistevano in Italia all’inizio della storia di Cuneo Inox, una delle tante di cui è costellata la nostra imprenditoria. È il 1935, una manciata di anni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, quando un ragazzo ventunenne con la sua valigia di cartone d’ordinanza parte dalle campagne padovane alla volta di Verzuolo, nel lontano Piemonte: è stato assunto alle Cartiere Burgo, che già dal 1918 è il maggior produttore di carta nel nostro Paese, ha superato senza scossoni la crisi del ’29 e nella sua espansione continua cerca personale specializzato, in particolare saldatori autogeni su tubi di rame. Elio Pavan, questo il nome del giovane, lo è. Anzi, ha addirittura un diploma che lo attesta, ma soprattutto ha nelle mani la finezza dell’arte fabrile, è andato a bottega presto e si è appassionato alla lavorazione del ferro battuto e della saldatura nelle quali è abilissimo. A Cuneo non perde tempo: si fa inviare dalla madre la sua attrezzatura da fabbro e dopo il lavoro in fabbrica si dà da fare con i contadini della zona che hanno sempre qualche attrezzo da riparare. Mette anche su famiglia: conosce Domenica, la sposa e nel 1938 già nasce il primo figlio, Pier Ottavio, padre di Fabrizio.
La Seconda guerra mondiale non porta grandi sconvolgimenti alla sua vita: adesso lavora alla CELDIT di Cuneo, sempre con la sua mansione di saldatore ma come prima, nel poco tempo che gli resta della giornata lavorativa, continua nei suoi lavori privati: nella cascina dove vive con la famiglia ha attrezzato uno sgabuzzino che è il suo laboratorio. All’inizio degli anni Cinquanta la svolta: Elio viene a sapere di un piccolo locale («parliamo di 20 metri quadrati a dir tanto») in centro a Cuneo, è arrivato il momento di fare un salto di qualità tanto più che c’è un adolescente Pier Ottavio che non ama particolarmente la scuola ed è invece intenzionato a entrare, sia pure giovanissimo com’è, nel mondo del lavoro, perché non approfittare di questa occasione? Il Primo maggio 1953 Elio e Pier Ottavio traslocano l’attrezzatura dalla cascina a una vera bottega: è nata PAVAN ELIO SALDATURE.
Gli inizi sono in sordina, Elio continua a lavorare alla CELDIT perché c’è bisogno di un lavoro sicuro intanto che ci si fa un nome (e bisogna onorare i debiti contratti), Pier Ottavio non è che sappia fare molto, riceve durante il giorno i clienti e consegna i pezzi riparati il giorno dopo, col tempo impara la preparazione alla saldatura in modo da far risparmiare un po’ di tempo al padre quando questi arriva in Lambretta la sera. Ma buon sangue non mente e nel giro di un paio d’anni, complice anche il buon insegnamento paterno, l’arte della saldatura del ferro non ha più segreti per lui. L’arrivo in bottega di Aldo, fratello allora quindicenne di Pier Ottavio, vede già un cambio di rotta: ora l’azienda si chiama SALDERIA PAVAN, il laboratorio viene ampliato e con l’acquisto di alcuni macchinari iniziano le costruzioni di carpenteria leggera, molti anni dopo Pier Ottavio scriverà: «erano lavori che mi piacevano moltissimo perché bisognava saper leggere il disegno, saper disegnare e soprattutto saper tracciare» e si capisce già da queste parole che il figlio sta «staccando» il padre sulla strada del lavoro. Intanto molto si muove anche sul fronte dell’edilizia: c’è da ricostruire il Paese (siamo alle soglie degli anni Sessanta) e le nuove case hanno bisogno di ringhiere di balconi e scale, di cisterne per le caldaie a nafta appena introdotte, i Pavan sono molto richiesti, ma queste sono commesse che invece a Pier Ottavio fanno storcere un po’ il naso: lui, racconterà, era attratto dalle costruzioni più tecniche e impegnative. Tuttavia quel settore gli cambierà la vita perché una delle imprese edili clienti è di proprietà di chi diventerà suo suocero: ne sposerà la figlia Claudia nel 1961, ma prima le avrà costruito, romantico pegno d’amore, un letto matrimoniale in ottone lucidato, un tripudio barocco di volute e fregi a cui Pier Ottavio si dedicherà per tre anni, in ogni istante lasciato libero dagli impegni in ditta.
Negli anni immediatamente successivi l’azienda si espande, cambia due volte sede, amplia il parco clienti con aziende grandi e importanti, assume apprendisti e operai, allarga anche il campo delle sue attività su lavori di carpenteria più impegnativa arrivando a quelli medio-pesanti senza dimenticare le saldature da cui la sua avventura era partita non molti anni prima, a Fabrizio ne è rimasta una impressa nella sua memoria di bambino: la saldatura della campana della chiesa di un paese vicino, lavoro delicato perché un tempo le campane erano fuse in bronzo con una piccola percentuale di argento e si sa che basta poco perché il suono risulti irrimediabilmente compromesso. Elio, Pier Ottavio e Aldo si mettono, con qualche brivido, all’opera che verrà portata a termine con successo: «Ho assistito a tutta l’operazione, ammirato, anzi direi sbalordito dalla loro bravura» rievoca Fabrizio.
Quanti imprenditori sono capaci di cambiare completamente strada quando le cose vanno bene? I Pavan ne hanno avuto il coraggio. Siamo sul finire degli anni Settanta quando il proprietario di un caseificio dei dintorni propone loro di costruirgli alcuni tavoli in acciaio inossidabile da utilizzare nel processo produttivo delle robiole. Per i Pavan sarebbe un’assoluta novità, ma si fanno convincere e la qualità del risultato è talmente alta che il cliente gli consiglia di orientarsi su quel mercato, allora in espansione e con pochi competitor. Elio e i due figli si guardano negli occhi: cosa fare? È una sorta di salto nel buio, esperienza praticamente zero, contatti anche, ma, per quanto Salderia Pavan sia in perfetta salute, bisogna pensare al futuro e poi le lavorazioni in ferro non è che siano pagate così bene, «Dalla sera alla mattina abbiamo girato completamente pagina, buttato via le macchine per la lavorazione del ferro che sarebbero state inadatte, investito nei nuovi macchinari per l’inox, comprandoli un po’ in tutta Italia, perché non è che quel campo fosse così affollato, e indebitandoci fino al collo, è stato un passo pazzesco». Temerari? Sì. Fortunati? Probabilmente. Ma anche bravi tant’è che in poco tempo diventano il punto di riferimento non solo dei caseifici, ma anche di altre industrie del food oltrepassando i confini della provincia cuneese per allargarsi in tutto il Piemonte e la Liguria. E poi arrivarono le mozzarelle.
La vicenda è ormai diventata l’epica della famiglia Pavan: il titolare della CMT, un’azienda specializzata nella fabbricazione di macchine per la lavorazione della mozzarella, li contatta. Ha un’idea per un macchinario inedito che migliorerebbe in modo sostanziale uno step produttivo di quel latticino, ma non riesce a tradurlo in termini tecnici, ha bisogno di qualcuno che coniughi la capacità pratica da carpentiere con una «testa» da inventore e Pier Ottavio, che lui già conosce e frequenta, gli sembra la persona adatta. Scelta quanto mai azzeccata: la macchina vede la luce non molti mesi dopo ed è subito un successo, «L’hanno esportata in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Australia, dall’India al Giappone. Passavano da una fiera all’all’altra» racconta Fabrizio. Da lì alla decisione di costituire una nuova azienda interamente dedicata alla lavorazione dell’acciaio inox il passo è breve: nel 1980 a Salderia Pavan viene affiancata PAVAN INOX, con soci paritetici Pier Ottavio e Aldo, che nei primi anni impiega una buona metà della propria forza lavoro nelle forniture per la CMT e la restante parte alla fabbricazione di manufatti in acciaio per piccole aziende. Alla domanda se il “patriarca” Elio avesse approvato questo passo, Fabrizio si prende una pausa – che fa immaginare qualche discussione allora in famiglia – prima di rispondere: «Forse non del tutto, ma ormai erano i due figli che avevano saldamente in mano le redini dell’azienda e gli eventi successivi hanno dato loro ragione».
Solo un anno dopo, uno sfortunato incidente occorso proprio a Fabrizio, allora diciottenne, è un’ulteriore testimonianza della genialità tecnica del padre. Ce lo racconta Fabrizio stesso: «All’epoca studiavo ancora, anzi quell’anno avrei dovuto diplomarmi, e intanto giocavo a calcio, a un livello anche piuttosto importante. L’incidente stradale – ero sull’auto del nonno – mi ha procurato una frattura esposta del femore sinistro, per un’atleta una iattura non da poco. I medici avevano optato per un fissatore esterno perché un’operazione avrebbe potuto provocare un’infezione con il rischio di dover poi amputare la gamba. Mio papà aveva dei dubbi: aveva riprodotto in officina il dispositivo e studiandone il funzionamento aveva dedotto che non avrebbe consentito la calcificazione dell’osso, cosa che in effetti venne riscontrata un paio di settimane dopo, per di più con un inizio, appunto, di infezione. A questo punto non restava che ingessare, il che nel mio caso avrebbe compromesso completamente il tono muscolare e quello che pensavo avrebbe potuto essere il mio futuro agonistico. Mio padre era furibondo ed è stata la sua reazione così, diciamo, vivace che ha fatto sì che il medico che si occupava del mio caso estraesse da un cassetto un foglio nerastro, una brutta fotocopia di una pessima fotografia proveniente da un convegno medico a Cernobbio: vi era rappresentato un marchingegno metallico ideato da un ortopedico russo, Gavriil Ilizarov, per allungare gli arti delle persone affette da nanismo. Quell’oggetto forse avrebbe potuto risolvere la mia situazione, solo che non ne esistevano in Europa, l’URSS era ancora un Paese isolato, c’era solo quell’immagine, per di più praticamente illeggibile. Ma mio padre si buttò anima e corpo nell’impresa di riprodurlo. Si chiuse, nel vero senso della parola, in officina per una settimana, mia mamma gli lasciava i pasti fuori dalla porta insieme ai femori delle mucche comprati in macelleria per poter sperimentare e lui provava e riprovava, ma non riusciva a fabbricare uno strumento che gli sembrava potesse risultare efficace. Aveva già deciso, sconsolato, di gettare la spugna e stava venendo in ospedale per comunicarmelo quando una lampadina gli si accese, improvvisamente aveva trovato la soluzione e ricordo come se fosse ieri quando mi disse: “Fabri, ho capito tutto, sono sicuro di farcela”. Così è stato, è perfino entrato in sala operatoria per seguire la procedura di fissaggio che non era semplice e già la sera stessa dell’operazione ero in grado di alzarmi sulle mie gambe. Così sono perfino riuscito a diplomarmi in tempo». In seguito Pier Ottavio ha brevettato il dispositivo e ne ha realizzato altri esemplari, uguali a quello che aveva salvato la gamba del figlio, è stato invitato a molti convegni medici, ha perfino presentato la sua invenzione in televisione, ma poi ha smesso di occuparsene – non era quello l’obiettivo della sua vita – cedendo brevetto e disegni a quel medico ortopedico dell’ospedale di Cuneo per una cifra poco più che simbolica.
Fabrizio entrerà in azienda nel 1982, anno in cui era venuto a mancare, ancora giovane, il nonno Elio. Di lui Fabrizio conserva tanti ricordi: «Ha cominciato a insegnarmi a saldare quando ero ancora un ragazzino di 13-14 anni, mi portava in officina con lui. E poi a volte lo accompagnavo la sera in osteria: era un appassionato giocatore di carte e la sua partita con gli amici dopo il lavoro non gliela toglieva nessuno». Negli anni successivi si consoliderà il filone commerciale dell’azienda, congruente tra l’altro con gli interessi di Fabrizio, meno portato del padre alla parte tecnica: «Avevamo già un magazzino consistente per le nostre necessità e a un certo punto ci siamo resi conto che stavamo diventando il punto di riferimento per l’acquisto di materiali inox da parte di artigiani e piccole imprese che trovavano più comodo venire da noi piuttosto che andare a Torino. Sicché, fatti due conti, abbiamo deciso nel 1990 di costituire una nuova società esclusivamente dedicata alla vendita, la CUNEO INOX». Chi la guiderà sarà Fabrizio, affiancato da una vecchia e fidata conoscenza dei Pavan, Luciano Beata che gli farà da mentore oltre ad avere un portafogli clienti (era stato per lunghi anni un rappresentante di elettrodi) molto ricco e variegato: «Siamo partiti io e lui in un angolo dell’officina, poi abbiamo costruito un piccolo capannone e a poco a poco siamo cresciuti». In un primo momento le due aziende procedono affiancate poi nel 2002 Pavan Inox viene incorporata in Cuneo Inox di cui Presidente è l’ottantaseienne Pier Ottavio, ancora attivo anche se la sua presenza in azienda si è per forza di cose diradata.
«In questi anni ci siamo molto evoluti, sia nella parte commerciale che nei semilavorati. Nel periodo della pandemia abbiamo addirittura fatto degli investimenti molto importanti a livello di know how tecnologico andando ad acquisire molte macchine e oggi abbiamo tutta una serie di taglio laser piano, di taglio laser tubo, piegatrici, calandre, con le quali siamo in grado di far fronte a qualsiasi tipo di richiesta. Il nostro mercato è essenzialmente italiano, ma da un paio di anni abbiamo cominciato ad affacciarci anche all’estero, in Francia per la precisione, perché il nostro territorio, il Nord Italia, è ormai saturo mentre oltralpe vediamo degli spazi interessanti per crescere».
Ma… e le mozzarelle? Fabrizio sorride: «Dopo aver venduto migliaia di pezzi della macchina che avevamo ideato insieme, la CMT è stata acquistata da una multinazionale tedesca che continua a lavorare nel mercato caseario ma su dimensioni molto più grandi. Noi abbiamo in pratica abbandonato il settore, ma un occhio ogni tanto lo buttiamo! Non solo» – e qui Fabrizio squaderna un numero recentissimo della rivista Inossidabile – eccoci, la carpenteria per questa macchina che produce in modo totalmente automatizzato la burrata – la progettazione è di Prima Srl – l’abbiamo realizzata noi».
Evidentemente certi amori non finiscono (ma questa frase non era in un’altra canzone?).
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