Che la scrittura qui domini incontrastata lo si capisce subito, a partire dal gigantesco pennino dorato che dai cancelli di ingresso si impone allo sguardo di chi arriva: con un po’ di immaginazione lo si potrebbe veder tracciare gli elegantissimi svolazzi calligrafici che si ritrovano ovunque, come una cifra distintiva del luogo, andando perfino a sostituire i cartelli di indicazione per i visitatori.
Né potrebbe essere diversamente: siamo alla Manifattura Aurora, la celebre azienda di penne stilografiche (ma non solo), che quest’anno festeggia il suo 104° compleanno, essendo stata fondata nel 1919. 104 anni, benissimo portati, che hanno visto una fetta importante della storia italiana, dal decollo dello sviluppo industriale agli inizi del Novecento alle distruzioni della Seconda guerra mondiale, dal boom economico degli anni Sessanta alle crisi successive fino ad arrivare alle nuove sfide portate oggi al mondo manifatturiero.
Orgoglio e resilienza, queste le parole che vengono in mente ascoltando Cesare Verona, presidente e AD dell’azienda, parlare della sua “creatura”. Orgoglio, innanzitutto perché Aurora è l’unico marchio interamente italiano del settore, non solo nella proprietà, ma anche nella produzione: tutte le penne, in ogni loro parte pennino incluso, escono dalla “manica lunga”, l’ex- filanda a fianco della duecentesca abbadia di San Giacomo di Stura, sede aziendale dal 1944 dopo che i bombardamenti inglesi avevano ridotto a un cumulo di macerie la fabbrica in centro a Torino. Nessuna tentazione a spostare lavorazioni all’estero, «all’Unione Industriali c’era gente che mi prendeva in giro dicendo che avrei dovuto delocalizzare in Polonia o in Cina e io rispondevo che non avevano capito proprio nulla, che se fossimo andati a fare la guerra sul costo, dopo la Cina ci sarebbe stata la Birmania, poi magari l’Indonesia e poi l’Africa e poi la Luna e poi avremmo finito i pianeti» ricorda con ruvido senso dell’umorismo. Venti, trent’anni fa erano posizioni controcorrente, ma lungimiranti su quello che sarebbe stato in futuro il valore del 100% made in Italy.
E poi orgoglio perché da loro il “fare” aziendale vede una perfetta integrazione tra tecnologia e artigianalità, nella quale la lavorazione a mano non è dettaglio, ma sostanza: come dice Verona «siamo un ossimoro, usiamo la tecnologia per fare le penne a mano». È questo il valore aggiunto di una stilografica Aurora, il suo “tratto” distintivo potremmo dire, per restare in ambito scrittura.
La resilienza. Come tante aziende italiane Aurora ha conosciuto alti e bassi, ma c’è un momento cruciale per Cesare Verona che emerge da un frammento di vita aziendale e famigliare insieme: «Nel 2008 papà, che era arrivato alla tenera età di 80.5 anni – dico così perché era ingegnere -, aveva deciso che l’azienda o si chiudeva o si vendeva perché non c’era più speranza di alcun tipo… di poter continuare a vendere penne stilografiche! Io ero in assoluto disaccordo, papà proviene da quella straordinaria covata di imprenditori che hanno fatto grande l’Italia negli anni Sessanta ma che vedeva il mercato come luogo dove si producevano tante cose che si riuscivano a vendere facilmente come potessero essere le 500, le 600 e i frigoriferi. Io nasco in un’epoca diversa, sono più attratto dalla nicchia e vedevo che l’oggetto stava cambiando significato. Per cui la penna, che a mio vedere è un manufatto culturale, di design, di estetica, di meccanica, di tante cose perché ha componenti intriganti, dal pennino all’inchiostro, poteva essere declinata in un modo diverso». La storia prosegue con la decisione di Verona di comprare tutte le quote dell’azienda per l’impossibilità di far coincidere due punti di vista «paralleli come rotaie»: da quel momento comincia una nuova fase del marchio con una lenta ma inarrestabile crescita che continua ancora oggi.
Il ritrovato successo si è accompagnato alla volontà di un give back, di un concreto impegno nei confronti della comunità. Così nel 2004 nasce la Fondazione Aurea Signa con lo scopo di diffondere la cultura della scrittura attraverso iniziative sul territorio: il suo progetto più ambizioso, e, potremmo dire, il suo fiore all’occhiello è Officina della Scrittura, che ha visto la luce nel 2016 ed è il primo museo dedicato al segno dell’uomo, in tutte le sue declinazioni e forme, dalle origini ai tempi odierni, un appassionante e appassionato racconto della comunicazione scritta a 360°, che si avvale dei più vari registri narrativi, visivi, digitali, interattivi e perfino olfattivi per raggiungere ogni tipo di pubblico, come ci spiega Tamara Garino, coordinatrice delle attività museali. L’intento sotteso è quello di stimolare alla scrittura o comunque a fare Segno, non per far tornare indietro le lancette del tempo, ma per spingere a riscoprire e valorizzare quel gesto così tipicamente umano.
Il percorso all’interno del museo inizia con una sala che non ci aspetteremmo perché ospita una serie di macchine da scrivere… Remington. Già, Cesare Verona, bisnonno dell’attuale Cesare, fin dal 1889, quando ancora Aurora neppure esisteva nella mente del suo fondatore Isaia Levi, è stato il primo importatore in Italia di questo strumento e in particolare dei modelli del celebre marchio americano, di cui era venuto a conoscenza nella sua attività di “scrittore in bella copia” di lettere commerciali presso una ditta torinese! L’ampia collezione del museo, che si espande a tratteggiare l’importanza anche sociale di questo strumento con l’istituzione della figura professionale della dattilografa, comprende la celeberrima Remington n. 2 del 1878, il primo pezzo iconico e prima macchina da scrivere pensata per una produzione industriale. Realizzata in grandi numeri e quindi destinata a una larga diffusione, la n. 2 presentava, rispetto alla n. 1 che era poco più che un prototipo, due innovazioni che arriveranno fino ai moderni computer: il tasto shift, che consente di scrivere sia in maiuscolo che in minuscolo, e la tastiera QWERTY, ideata per distanziare i martelletti di lettere molto frequenti evitando così che si incastrassero tra loro rallentando la scrittura. Aneddoto letterario: con una Remington n. 2 per la prima volta venne scritto a macchina un libro. L’autore? Mark Twain con il romanzo Life on the Mississippi del 1883.
Dalle macchine da scrivere alla scrittura a mano: nel percorso museale è il passaggio successivo che si articola in più aree. Innanzitutto il tunnel della cronologia della scrittura con un’esposizione degli strumenti usati nel corso dei secoli, poi la rassegna delle “13 regine” cioè i modelli, di marchi diversi, che hanno fatto la storia della stilografica (qui troviamo il secondo pezzo iconico, la Hastil di Marco Zanuso) e la parte dedicata più specificamente alla produzione, questa sì, di Aurora, con una serie di autentiche chicche come Asterope (il terzo pezzo iconico) del 1934, la quasi contemporanea Etiopia, in celluloide bianca con l’aquila imperiale incisa sul cappuccio, a celebrazione dei successi coloniali italiani, la Topolino del 1937, con la sagoma del celebre character sul serbatoio della penna, testimonianza di una delle prime collaborazioni di Disney con l’Italia, la mitica Auretta degli anni Sessanta, la “stilografica dei bambini”, relativamente economica, in plastica, a doppia cartuccia (e quindi a prova di “macchia”) lanciata, prima volta nella storia della manifattura, con un campagna pubblicitaria televisiva («C’è il momento dei giochi… e quello dei compiti: il momento di Auretta»).
Asterope segna un momento particolare nella storia di Aurora, quello della quiete appena prima della tempesta delle leggi razziali fasciste. Siamo nel 1934 e Isaia Levi (ricordate? Era il proprietario di Aurora) pensa di poter tirare un sospiro di sollievo: avendo fin dall’inizio appoggiato Mussolini nella sua ascesa, è appena stato nominato senatore, segno certo del favore del regime; dal punto di vista economico, dopo la grande depressione del ’29 che ha investito anche l’Italia, le cose vanno decisamente bene e ogni modello lanciato sul mercato viene accolto con favore. È in questo clima di ottimismo che nascono alcune delle penne più interessanti di Aurora e certamente Asterope è la più originale. Innanzitutto è senza cappuccio: un pulitissimo cilindro di celluloide dal quale il pennino protrude semplicemente facendo scorrere un pulsante posto sul corpo della penna. Così la stilografica può essere aperta e chiusa con una mano, strumento ideale dell’uomo d’affari moderno, dall’agire veloce, che non può e non vuole permettersi di indugiare nemmeno un secondo per svitare un cappuccio, lo stesso però che con aria meditabonda campeggia su una pubblicità dell’epoca: «la riflessione costituisce la base di ogni acquisto intelligente», velocità sì, ma non precipitazione! Asterope venne prodotta in pochi pezzi forse anche perché, se l’utilizzo era molto semplice e immediato, non così il caricamento, molto più laborioso rispetto agli altri modelli.
Completamente diversa è la situazione negli anni Settanta quando viene concepita Hastil. Tanta acqua è passata sotto i ponti della storia: al termine della guerra, Isaia Levi, tradito dal regime che pensava di aver ammansito e costretto a rifugiarsi in Vaticano per evitare la deportazione, si è rimesso al timone di Aurora. Ormai però è un uomo provato, desidera darsi un successore e lo trova in un nipote, Giovanni Enriques, poco prima di morire. Lato Verona e la rappresentanza della Remington in Italia, tutto quello che Cesare era riuscito a costruire in quarant’anni di lavoro, è andato in frantumi: con le norme autarchiche che vietano di importare prodotti dall’estero, l’azienda si è sfaldata e, dopo uno sfortunato tentativo di rialzare la testa nel Dopoguerra, chiude negli anni Cinquanta; chi resta della famiglia, Giorgio e Luciano (due dei tre figli di Cesare), è da tempo emigrato in Argentina alla ricerca di contesti economici più favorevoli. Ma nel 1958 avviene un evento che cambierà le sorti di tutti i protagonisti di questa saga: Franco Verona (figlio di Giorgio e padre dell’attuale Cesare), tornato temporaneamente in Italia, incontra Giovanni Enriques e questi, intuite le potenzialità del giovanotto, gli offre di lavorare in Aurora. Sarà l’inizio di un sodalizio che in tre anni porterà Franco Verona non solo ad acquisire il controllo dell’azienda, ma anche a rilanciarla, una sfida vinta per capacità e anche un pizzico di fortuna: vengono risanati i conti, si torna in utile, e poi Aurora si getta nella creazione di nuovi modelli che entreranno nella storia degli strumenti di scrittura. Arriviamo così alla fine degli anni Sessanta. È un momento di grande fermento in tutti i campi, “cambiamento” è la parola d’ordine e anche in Aurora si sente questa esigenza, occorre una penna che sia rivoluzionaria, non ultimo per risollevare le vendite che stanno rallentando. Franco Verona ha già in mente un designer, Marco Zanuso: dalla sua creatività nascerà la Hastil, oggi esposta al MOMA di New York come esempio di design italiano. È un modello minimalista, ma molto complicato che ha posto diverse sfide costruttive, prima fra tutte il rapporto tra un serbatoio e un cappuccio che si volevano dello stesso diametro e il pennino centrato rispetto al corpo della penna. Il risultato è un elegantissimo cilindro in acciaio, leggero e maneggevole, un vero e proprio gioiello rimasto in produzione per decenni.
È ora di tornare al museo e di passare all’area degli ex uffici, allestiti come un continuum temporale di “vita aziendale” dagli anni Venti agli anni Settanta con tante postazioni di lavoro dai pezzi e strumenti originali, e da lì al corridoio dell’inchiostro dove in un ambiente immersivo ed emozionale che riproduce l’interno di una penna si vive l’esperienza “sei una goccia d’inchiostro”: il visitatore passando attraverso il tunnel ripercorre il tragitto appunto dell’inchiostro dal serbatoio al pennino. Chiude il percorso la Sala dei mestieri, omaggio alla cultura del fare manuale che impronta l’azienda, e qui si trova, tra vecchie attrezzature dismesse, un pezzo straordinario degli anni Cinquanta che sembra uscito da un film neorealista, la bicicletta del riparatore di penne: superaccessoriata, con tutti gli attrezzi necessari per effettuare le riparazioni delle penne “sulla strada” e la cassettina degli inchiostri, non manca neppure l’ombrello, alla bisogna parasole o parapioggia, e la “schiscetta” per il pranzo.
Nel portarsi verso l’uscita, attraversando vari spazi dove si tengono corsi di calligrafia (ancora l’amore per la scrittura!) e di grafologia per bambini e adulti e mostre di arte contemporanea (e qui c’è invece la riflessione sul segno), non può non nascere una domanda: ma nel nostro mondo dominato dalle tastiere dei computer e dagli smartphone c’è ancora spazio per tutto questo splendore? La risposta ce la dà Cesare Verona: «Continuiamo a crescere e a produrre sempre più penne stilografiche esportando quasi l’80% della nostra produzione, quella che dieci anni fa era una sfida e un interrogativo oggi è una certezza, sono un imprenditore sereno e ambizioso e sono tranquillissimo sul nostro business. La cultura del segno non morirà, il mondo ha delle fiammate, ma poi ritorna alla consapevolezza, ai valori veri». La penna dunque ci accompagnerà ancora, anche come «complemento di stile e di personalità»: «La penna stilografica è ancora un segno distintivo come una bella scarpa, un bell’orologio, una bella cravatta ed è associata alla capacità di creare pensiero, non ha solo una funzione estetica, è un’estensione del tuo “io”, del tuo pensiero, il poter pensare, scrivere a mano e correggere dà una visione completamente diversa rispetto a battere su una tastiera, si attivano perfino aree cerebrali diverse come mostrano anche studi scientifici. E quello che è interessante è che mentre quando sono arrivato in azienda l’età media dei consumatori era intorno ai 65 anni, oggi ci sono quarantenni che usano l’Ipad, il Moleskine, ma anche la penna stilografica, c’è un ritorno delle new generation ad approcciare il prodotto». E a proposito dei giovani, l’attenzione che Cesare Verona ha nei loro confronti l’ha portato ad aderire al progetto “Adotta una scuola”, un’iniziativa della Fondazione Altagamma per promuovere i mestieri tecnici e professionali alla base dell’eccellenza italiana. Come altre aziende nei loro territori, anche Aurora ha così aperto le porte della manifattura agli allievi di un ITS di Torino con lezioni sia teoriche sia di laboratorio nell’intento di cominciare a formare i futuri “talenti del fare”. Un primo tassello della sua Academy che trova la sua espressione compiuta – «ho azzerato la mia wishlist – dice Verona sorridendo – è tempo di iniziarne una nuova!» – nel futuro “progetto Abbazia”: 15.000 metri quadrati a fianco dell’azienda da ristrutturare per creare un centro focalizzato sulla manifattura, sul racconto del saper fare «con testa e mani», non in modo romantico ma contemporaneo. «Non tutti dobbiamo essere architetti e avvocati, dobbiamo comunicare quanto è bello fare l’imprenditore o l’artigiano, creare oggetti dove dentro ci siano abilità, bellezza, cultura, e in ultima analisi Italia. Proviamo a valorizzare questi oggetti». Un’altra sfida i cui risultati ci auguriamo di vedere presto.
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