Nuvola. Un nome poetico per un luogo straordinario che ha riscritto la vita di un intero quartiere torinese, Borgo Aurora, non lontano dal centro storico cittadino ma contraddistinto da quelle perturbazioni sociali tipiche delle ex borgate operaie che hanno fatto e fanno fatica a trovare una nuova dimensione una volta dimenticati i “fasti” del boom economico degli anni Sessanta. Trentamila metri quadrati di un’area industriale dismessa, trasformati dal progetto visionario di Cino Zucchi in un “sito attrattivo che interpreti il luogo esistente e nel contempo dia identità a un’azienda che comunica con il mondo”, per usare le parole dell’architetto. L’azienda è Lavazza e Nuvola è uno spazio urbano che abbraccia con le sue forme elegantemente sinuose, quasi fluide, vari “corpi” ognuno con una sua identità: c’è una piazza aperta alla città, con alberi e aiuole, su cui si affacciano da un lato l’headquarter del Gruppo, edificio futuribile all’insegna della tecnologia e della sostenibilità e dall’altro la prima centrale elettrica di Torino ristrutturata nel rispetto delle sue fattezze ottocentesche e oggi prestigioso centro per eventi e incontri; a fianco dell’headquarter e quasi in dialogo con esso, il Museo Lavazza, concept innovativo di museo d’impresa progettato da Ralph Appelbaum, firma celebre dell’exibition design. E per non farsi mancare proprio nulla, una sorta di palpebra vetrata consente di ammirare una vasta area archeologica con i resti di una basilica paleocristiana del IV secolo venuti alla luce durante i lavori di costruzione di Nuvola. Proprio da qui mi piace partire e più precisamente dalle parole di Marco Amato, direttore del museo, che sottolinea la loro valenza quasi filosofica «di indicatori di una presenza che oggi non c’è più, tracce significative di un passaggio», assimilabili concettualmente alle tracce che gli uomini di ogni epoca hanno lasciato e lasciano alla loro posterità. Ecco, la domanda che ci si dovrebbe sempre porre, sia come individui che come collettività, è proprio sul portato di ciò che resta di noi. Le imprese non fanno (o almeno non dovrebbero fare) eccezione: Nuvola ne è la sontuosa risposta, regalo alla comunità che nel tempo continuerà a fruirne, così come il Museo Lavazza – con l’archivio annesso – è e sarà il contenitore della storia dell’azienda, tessitore, a partire dalle “tracce” da essa lasciate nei decenni, di un racconto che tiene insieme la memoria dell’impresa, la storia di Torino e le vicende dell’industrializzazione dell’Italia nel XX secolo.
Il risultato è come un coro ben intonato nel quale ogni voce, cioè ogni elemento, apporta il suo contributo. Siamo ben lontani da quella autoreferenzialità che è il rischio che corrono i musei d’impresa e che finisce fatalmente per impoverirne il valore culturale. Qui si è invece deciso di affidare “la direzione del coro” (per restare nel solco della metafora) alla scuola Holden di scrittura creativa che ha individuato nel mare magnum dei possibili tasselli narrativi quelli più adatti per trasmettere un messaggio che andasse oltre la pura e semplice celebrazione del brand. Non solo, Scuola Holden ha anche scritto i testi utilizzando un linguaggio inclusivo e trasversale che è uno dei tanti pregi di questo museo.
E parlando di questi ultimi non si può non cominciare dalla sua interattività che si esplica già all’ingresso, quando ci viene consegnata una tazzina, replica dell’iconica Lavazza cup di Claudio Caramel, che è strumento per un viaggio esperienziale e personalizzato nel mondo del caffè: dotata di un sensore, se appoggiata in apposite postazioni, permette di approfondire le tematiche attraverso contenuti sonori e visivi aggiuntivi. E per i patiti di Instagram consente perfino di scattare delle fotografie che potranno essere poi inviate al proprio indirizzo mail.
La prima area che si incontra dopo aver varcato la soglia “presidiata” da due furgoncini FIAT degli anni Cinquanta (i modelli sono quelli impiegati ai tempi per le consegne del prodotto), è CASA LAVAZZA, lo spazio più intimo ed emozionale, dove un lungo milestone wall racconta i quasi 130 anni dell’impresa – saranno festeggiati nel 2025 – a partire da quella cambiale di 50 lire firmata da Luigi Lavazza che è stata l’inizio di tutto. Siamo nel 1885, a Murisengo, manciata di case nelle campagne dell’Alessandrino, i cui abitanti conducono una vita grama legata al lavoro dei campi, sempre sotto le grinfie degli incerti atmosferici. Anche la famiglia di Luigi è contadina e il suo futuro non si sarebbe discostato di molto da quelle terre, se non fosse che proprio quell’anno una serie di gelate distrugge i raccolti e lo spinge a trasferirsi a Torino in cerca di migliori opportunità. Il prestito chiesto alla Società Operaia di Murisengo a quello serve, a svincolarsi dalla precarietà di un’esistenza nella quale tutte le mattine devi farti il segno della croce perché non grandini o viceversa imperversi la siccità. Nella città sabauda Luigi lavora, nelle tante attività occasionali proposte a chi come lui sa leggere, scrivere e far di conto ma non molto di più, e alla sera studia: si iscrive infatti prima alla Scuola di Commercio e poi alla Scuola Municipale di Chimica Cavour, una scelta che in futuro gli frutterà l’intuizione delle infinite possibilità commerciali offerte dal caffè: in origine le tipologie importate erano infatti solo tre – naturale dal Brasile, moka dalla penisola arabica e portorico appunto dal Portorico – ma Luigi Lavazza capisce presto che i gusti personali richiedono nuovi sapori e aromi che si traducono nelle miscele (oggi si chiamano blend). Le stesse miscele la cui composizione è annotata meticolosamente su un quadernetto, il primo compilato da Luigi, che fa capolino da un cassetto nella ricostruzione ideale della torrefazione aperta nel 1910. Già, perché nel giro di un paio di lustri dal suo arrivo a Torino, nel 1894, Luigi rileva una bottega di coloniali in via San Tommaso 7 che poi, sull’onda di una crescente notorietà, sposta qualche metro più avanti sulla stessa strada per avere più spazio. Nel contempo il caffè è diventato il suo core business (così si direbbe al giorno d’oggi), anche grazie all’invenzione delle “ricette” a cui accennavamo prima. La modernità di Luigi Lavazza è proprio nell’aver in qualche modo percepito, in netto anticipo rispetto ai tempi, che il caffè non è un alimento, è un fenomeno antropologico e sociologico insieme, tant’è che ancora oggi le differenze geografiche nel suo consumo ci dicono tanto sulla varianza del life style: per esempio i più grandi consumatori pro capite di caffè sono i paesi del Nord Europa dove però l’espresso non viene apprezzato ed è rimpiazzato da un caffè dalle note più morbide, che si potrebbe definire “da meditazione”: come non pensare alle lunghe notti boreali confortate nel calore domestico da una bella tazza di bevanda bollente? Il caffè è manifesto anche delle connessioni sociali, difficile pensare che l’abitudine tutta napoletana del “caffè sospeso” possa prendere piede per esempio in Finlandia. In questo variegato panorama di gusti e consuetudini il blend è lo strumento per rispondere alle esigenze dei consumatori.
Ma torniamo al milestone wall e scopriamo altre date importanti nella storia di Lavazza. 1927: viene fondata la Luigi Lavazza Spa che include anche la moglie di Luigi e i figli, compresa l’unica femmina, Maria. Precisazione importante per un fatto ai tempi più unico che raro, perché vi ritroviamo quel concetto di equality gender che è positivo contrassegno, ancora oggi, dell’azienda e che la vede impegnata su diversi fronti sia interni che nei luoghi della produzione. 1934: Luigi si reca in Brasile, su invito del governo di quel Paese, e lui, che mai aveva visto con i suoi occhi una piantagione, resta allibito e scandalizzato dall’abitudine di bruciare le eccedenze di raccolto per non determinare oscillazioni importanti dei prezzi sul mercato mondiale. Annoterà sul suo taccuino di viaggio: “Dove si brucia il caffè, distruggendolo, mi ripugna”: nella durezza di queste parole risuona già l’attenzione verso la sostenibilità del prodotto che è insita nel DNA aziendale. 1957: viene aperto lo stabilimento di Corso Novara che è il momento in cui Luigi abbandona tutti gli altri prodotti coloniali per concentrarsi esclusivamente sul caffè. Lo stabilimento rappresenterà a lungo un’eccellenza (primo in Italia a integrazione verticale) e sarà anche il centro direzionale dell’azienda fino alla realizzazione di Nuvola nel 2018. E poi via via, nel succedersi anche delle generazioni (oggi siamo alla quarta), la continua espansione, a livello produttivo e commerciale, che ha portato Lavazza a essere oggi presente in 140 mercati, con un fatturato di 2,3 miliardi e più di 30 miliardi di tazzine di caffè prodotte all’anno. Una crescita che si accompagna a un rigore etico encomiabile: l’azienda è costantemente impegnata, con progetti diversi, nel raggiungimento di quelli che sono gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite come l’adozione di misure per combattere i cambiamenti climatici, la promozione di un lavoro dignitoso per tutti, l’impegno per un’inclusione che veda nella pluralità dei modi di essere un motore di sviluppo e rafforzamento del Gruppo. Il tutto con una tensione verso il give back già presente nel fondatore, che donò al suo paese natio una scuola d’infanzia pubblica. Ed è per rimpinguare le casse di quest’ultima che Luigi ebbe, nel 1940, l’idea di aprire nel paese una bocciofila, capofila di una lunga serie di iniziative a sostegno dello sport.
L’anima più squisitamente didattica del museo si esplica nella seconda sezione, FABBRICA, che conduce il visitatore lungo tutta la filiera del caffè, dalla pianta al packaging e alla distribuzione. Nel lungo corridoio allestito con tavoli interattivi si affollano studenti di ogni età e di ogni indirizzo scolastico: parliamo di almeno 6-7 classi al giorno che qui trovano innumerevoli spunti di riflessione su temi diversi, dalla sostenibilità alla comunicazione alla storia della grande stagione industriale di Torino che poi si identifica con quella dell’Italia del Dopoguerra. Ecco, l’attenzione verso la scuola è sicuramente uno degli ingredienti della vitalità del museo: gli insegnanti vengono supportati da un team preposto con la delineazione di percorsi formativi tagliati “tailor made” sulle esigenze delle singole classi. Il coinvolgimento e la curiosità dei ragazzi è la risposta, oltre che all’interesse suscitato dai contenuti, anche alla bontà della relazione diretta con i singoli docenti, un rapporto che non di rado si prolunga nel tempo facendo così della scuola un potente ambassador del marchio.
Usciti dalla Fabbrica ci si trova nella PIAZZA. È in questo terzo ambiente, dove aleggia lo spirito di convivialità insito nella bevanda, che si celebra il rito del caffè attraverso un racconto che parla dell’evoluzione tecnologica delle macchine per espresso, ma anche di alcuni “cult object” che, oltre a essere parte integrante dell’immagine Lavazza, sono entrati a buon diritto nella storia del design italiano. Ed è inevitabilmente qui che incontreremo i nostri tre pezzi iconici.
Ma andiamo con ordine. Cominciando da una domanda: dove nasce l’espresso? No, non a Napoli, contrariamente a quanto tutti pensano, ma proprio a… Torino! Più precisamente nel 1884, anno in cui Angelo Moriondo, imprenditore della ristorazione e proprietario del Grand Hotel Ligure e dell’American Bar nel centro cittadino, presenta all’Esposizione Generale Italiana nel parco del Valentino la sua “caffettiera” (così la definiva un cronista dell’epoca), un gigante di un metro di altezza in rame e bronzo che sfruttava ingegnosamente il vapore per produrre “in pochi minuti 10 tazze di caffè in una volta” (sempre secondo le parole del suddetto cronista). Macchina brevettata, ma mai sfruttata commercialmente. A farlo sarà il milanese Desiderio Pavoni la cui macchina del 1910, capolavoro déco con fregi e foglie d’acanto, è affiancata nel museo da una Gaggia degli anni Trenta, dall’inquietante soprannome di “spaccamascelle”: si trattava della prima macchina con sistema di estrazione del caffè a pressione, il che comportava la necessità di azionare con forza una leva che nelle mani di un barman disattento avrebbe potuto costituire un micidiale attentato alle proprie arcate dentarie! È con questo tipo di apparecchiatura che fa la sua prima comparsa nelle tazzine l’espresso con quel delizioso strato di crema in superficie che è ancora oggi uno dei piaceri del caffè. Va fatto notare che tutte le prime macchine espresso erano a sviluppo verticale, destinate a essere collocate sul bancone, sorta di diaframma metallico tra l’atto dell’erogazione e quello della degustazione con “l’officiante” del rito del caffè, cioè il barman, semicelato alla vista (e d’altronde ogni rito ha i suoi segreti!). Il passo successivo sarà quello di spostare alle sue spalle la macchina – che nel frattempo si è allungata diventando orizzontale – consentendo così al cliente di partecipare, almeno visivamente, alla preparazione della bevanda. Tra i modelli orizzontali uno dei più celebri è la Faema E61: progettata negli anni Sessanta (a questo fa riferimento la cifra della sigla, la E invece rimanda all’eclissi di sole avvenuta proprio quell’anno), è pietra miliare nella storia del caffè espresso per l’introduzione della pompa elettrica, al posto del sistema meccanico leva/pistone, per fornire la pressione necessaria all’estrazione della bevanda. Ad attivarla una semplice levetta, con gran sollievo per le braccia dei barman. Nel 1983 un’altra rivoluzione: l’espresso esce dal bar per entrare negli uffici dove da quel momento rappresenterà un momento importante della quotidianità lavorativa, la cosiddetta “pausa caffè”. Un vero e proprio fenomeno sociologico (quanti amori tra colleghi sono nati davanti alla “macchinetta del caffè”? Quante informazioni, gossip aziendali, perfino accordi commerciali e intese strategiche si impregnano degli aromi sprigionati da quel bicchierino?) reso possibile dall’invenzione del caffè in capsule. La 1X esposta, prodotta dall’omonima Unoper di Gattinara, è il primo modello realizzato per la preparazione, diciamo, domestica del caffè ed è spiazzante confrontarne l’essenzialità strutturale con le coeve macchine da bar, oggetti sofisticati esteticamente, oltre che con gli analoghi dispositivi odierni, di forme elegantissime e prestazioni di gran livello.
Infine l’apoteosi: il 3 maggio 2015 l’astronauta Samantha Cristoforetti beve il primo espresso preparato nello spazio, cioè nelle condizioni estreme della microgravità. Un traguardo reso possibile dalla realizzazione di una macchina straordinaria, la ISS – il pezzo del museo è l’originale il che accresce la sua eccezionalità – che è il nostro primo pezzo iconico: un tecnologico cubo in alluminio aerospaziale di colore bianco (per evitare l’assorbimento della luce), frutto di una partnership tra Argotech, Lavazza e Agenzia Spaziale Italiana. Una progettazione durata diciotto mesi per il piacere tutto italiano di bere il caffè ovunque e comunque. Intendiamoci, vero espresso con tanto di crema, peccato solo per la tazzina sostituita da un sacchetto con cannuccia… ma non si può avere tutto!
E restando sui nostri pezzi iconici, gli altri due li troviamo poco oltre: la caffettiera Carmencita di Marco Zanuso del 1979 e la tazzina Segno di Claudio Caramel del 1997. Entrambe ancora in produzione, a testimoniare che il vero design sa essere evergreen, entrambe declinazioni, o meglio derivazioni, della celebre A centrale del logo aziendale: in Carmencita il corpo conico ne replica l’inclinazione, così come la forma della tazzina “nasce” da una sua rotazione a 360 gradi. Ma Carmencita si rifà, anche nel nome, al celebre character che fu regina dei Caroselli tra gli anni Sessanta e Settanta pubblicizzando il caffè Paulista. Chi non ricorda, almeno tra i meno giovani, quello che diventò rapidamente un meme (oggi cadrebbe giustamente sotto la scure del politically correct), “Carmencita sei già mia, chiudi il gas e vieni via” proferito dal Caballero misterioso invaghito della bellissima ragazza messicana dalle lunghe trecce “vista sul giornale”? E la di lei iniziale ritrosia, “Pazzo! L’uomo che amo è un uomo molto in vista, è forte, bruno e ha il baffo che conquista”, dissolta rapidamente alla trasformazione del cowboy un po’ bolso che ha davanti in un virilissimo Paulista.
Con questi due personaggi si entra di gran passo nella sezione dedicata alla storia della comunicazione Lavazza, l’ATELIER, ambientata come un set cinematografico, che ripercorre sessant’anni di proficua collaborazione con Armando Testa e di una pubblicità pop e intelligente, sorridente, marcata da claim che sono entrati nel linguaggio comune: “Il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?”, “Lavazza, più lo mandi giù più ti tira su” affidati alla faccia bonaria di Nino Manfredi, “solo quando il caffè è buono va in Paradiso” o “La vita senza Lavazza… è un inferno, no?” nei siparietti surreali di Solenghi e Garrone della serie “In Paradiso”, poi sostituiti da Bonolis e Laurenti, per arrivare alla comicità un po’ spaesata di Brignano e all’ironia di Crozza (Yessa…). Sketch che hanno lasciato il segno nell’advertising televisivo per la loro originalità e che hanno battuto tutti i record di durata: più di vent’anni per la serie “In Paradiso”. La voce di Lavazza si fa più rarefatta e sofisticata nei calendari, né potrebbe essere diversamente visto il calibro dei nomi chiamati a collaborare. Helmut Newton sarà il primo negli anni ’93 e ’94, poi nel 1995 verrà il turno di Ellen von Hunwerth, che firmerà una delle immagini probabilmente più belle di Carla Bruni, immersa fino al collo in una piscina, sfrontata e seduttiva con la sigaretta in bocca e la tazzina di caffè davanti, e, all’alba del nuovo millennio, di Elliot Erwitt con le sue immagini di famiglie alle prese con una quotidianità quasi intima, scandita dal caffè. In mezzo, tanti altri nomi celebri della fotografia, ognuno dei quali ha saputo interpretare una sfaccettatura del mondo Lavazza. Tutto rigorosamente in bianco e nero fino al 2002 quando con La Chapelle irrompe il colore (e che colore!) e con esso anche un cambio di paradigma: il calendario adesso, anziché guardare “all’interno” del brand, guarda al mondo esterno che cambia e se ne fa voce narrante di volta in volta trasgressiva, glamour o di una sensualità patinata. Nel 2015 un nuovo cambio di pelle, è la sostenibilità che adesso filtra attraverso le pagine e i nuovi protagonisti sono gli Earth Defenders, donne e uomini che vivono, faticano e lottano in una terra che è più matrigna che madre ma che è la loro. Tre anni, tre continenti, Africa, America latina, Asia per tre vere e proprie star dell’immagine: Steve Mc Curry, Joey L. e Denis Rouvre. Arriviamo così al 2021, il momento più emotivo nella storia del calendario perché legato al drammatico momento della pandemia e alla speranza di una rigenerazione etica e spirituale dell’uomo dopo quell’esperienza che ha, nella tragedia delle tante vittime, accumunato la Terra intera: New Humanity è il titolo che lega tredici fotografi e la loro visione dei valori fondanti dell’esistenza, forse oggi riemersi dopo decenni di apnee materialistiche.
Ed è con questa immagine consolante che ci si inoltre nell’ultima sezione del museo, l’UNIVERSO, esperienza immersiva che porta il visitatore all’interno di quattro mondi diversi (a scelta dell’utente) di cui il caffè è il comun denominatore. In questa sala dove a dominare è un’atmosfera quasi onirica, tutto contribuisce all’illusione di essere altrove: suoni, profumi, immagini, colori, in un mix che sollecita i sensi. E subito dopo, quasi a sottolineare che con la visita si è compiuto un vero e proprio viaggio iniziatico nella cultura del caffè, l’atto finale della degustazione nello spazio della Coffee Experience ritempra e ristora.
La ricchezza e la complessità del museo Lavazza portano inevitabilmente a due considerazioni che condividiamo con Amato: la prima è che questo progetto si deve essere appoggiato a un lavoro preliminare immenso perché vagliare le innumerevoli testimonianze di più di un secolo di storia è impresa da far tremare i polsi e la seconda che si debba profondere altrettanto sforzo per mantenerlo vitale. In effetti, Amato ci conferma, la realizzazione del museo è stata preceduta da un lungo lavoro di catalogazione della grande massa dei materiali cartacei dell’azienda e della famiglia, per dar loro un ordine in base anche alla rilevanza. Contemporaneamente ne è stata effettuata la digitalizzazione, che ha avuto anche un effetto secondario importante, andando a costituire i contenuti di una piattaforma a disposizione sia dell’azienda stessa (per esempio degli uffici legali) che di ricercatori e docenti.
Per quanto concerne il secondo punto, la risposta di Amato è decisamente affascinante: il museo Lavazza è ormai un “ecosistema” che vive quasi autonomamente in ogni sua parte, non solo quella espositiva, offrendo esso stesso continui suggerimenti per la sua fruizione. Un esempio? Il bookshop: “prima, nei giorni di chiusura del museo facevamo lo stesso con il bookshop, finché non ci siamo accorti che aveva una sua propria esistenza, era un punto di riferimento per i dipendenti dell’azienda e anche per gli abitanti del quartiere e quindi abbiamo deciso di mantenerlo sempre aperto”. Un’altra interessante scoperta è stata che, grazie alla tessera Abbonamenti musei, i visitatori tendevano a tornare, il che ha comportato la necessità di offrire loro sempre qualcosa di nuovo: sono così nati i “Giovedì sera” con eventi che hanno al centro l’approfondimento della cultura e dell’esperienza dell’espresso. Altri orari, altro pubblico: parliamo del ristorante dal nome evocativo di CONDIVIDERE, visione prima ancora che locale, che ha riunito un rivoluzionario della cucina come Ferran Adrià, uno scenografo di fama internazionale, Dante Ferretti, e uno chef di intrigante creatività, Federico Zanasi. Trio d’eccezione per offrire a Torino una gastronomia “alta” distaccata dall’austerità della tradizione piemontese mantenendone però la stessa generosità. Così come la CENTRALE, oggi sempre più scelta come location di tutto ciò che di importante accade in città. In fondo, dice Amato “si tratta solo di mettersi in ascolto” per intercettare bisogni e desideri della gente. Semplice, no?
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