La carrozzina è lì, sulla scalinata lungo la quale scendono i cosacchi sparando sulla folla. Il tempo sembra dilatarsi mentre guardiamo la madre del neonato esitare atterrita, la bocca spalancata in un urlo silenzioso, vediamo gli stivali dei soldati che avanzano, i fucili che fanno fuoco e le ruote del piccolo veicolo in bilico sul margine del gradino, ogni istante sembra quello in cui oltrepasseranno l’orlo fatale e invece ogni volta recuperano quasi per miracolo il loro assetto fino a quando è il corpo della donna ferita a morte, che si accascia lentamente a terra, a dar loro la spinta definitiva. La carrozzina inizia una corsa inarrestabile lungo la scalinata, tra i corpi degli uccisi, oltrepassando i militari che finiscono i feriti, la cinepresa torna più volte, ossessivamente, sul bambino che sobbalza all’interno fino a quando non si ribalta sul selciato.
I cinefili appassionati avranno riconosciuto una delle scene più angosciose e al contempo memorabili del film La Corazzata Pötemkin di Ejzenštein, considerata anche una delle più belle di tutta la storia del cinema. Lo so, è inevitabile che qualcuno, a questo punto, citi Il secondo tragico Fantozzi nel momento in cui il ragionier Fantozzi, obbligato con i colleghi a vedere per l’ennesima volta il film al cineforum aziendale, se ne esce con la battuta forse più celebre del repertorio di Paolo Villaggio: «Per me, la Corazzata Kotiomkin (parodia del titolo originale della pellicola n.d.r.) è una c****a pazzesca» suscitando l’entusiasmo irrefrenabile degli astanti («92 minuti di applausi»).
Beh, a ben vedere anche questa è una delle tante scene cult della cinematografia (almeno di quella italiana), in buona compagnia con lo straziante monologo del replicante Rutger Hauer in Blade Runner «Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare…»), l’abbattimento a colpi di accetta della porta del bagno da parte dell’ormai folle Torrance (Jack Nicholson) in Shining, l’uccisione sotto la doccia di Marion Crane (Janet Leigh) in Psycho, il travolgente orgasmo simulato da Sally (Meg Ryan) in Harry, ti presento Sally… mi fermo qui ma potrei andare avanti a lungo. Ogni tanto in rete qualcuno cerca di crearne degli elenchi in ordine di gradimento, ma è impresa impossibile perché ciascuno di noi ha le sue preferite, che dipendono da tanti fattori, età in primis.
Tra i boomer uno dei film più amati, per esempio, è Il laureato e a proposito di scene cult, qui è indimenticabile quella in cui Ben (Dustin Hoffman) cerca di raggiungere l’amata Elaine in tempo per impedirle di sposarsi, in una folle corsa in auto accompagnato dalle note travolgenti della canzone Mrs Robinson di Simon & Garfunkel. Non è il caso di ripercorrere la trama della pellicola, ma chi la conosce sa che l’automobile che Ben guida, regalo del padre per il prestigioso traguardo della sua laurea, è un po’ un fil rouge che si snoda lungo tutta la storia a partire proprio dall’inizio, quando nel corso della festa data in suo onore, un amico dei genitori gli dice ammiccando che «con quella non avrai problemi a raccattare le bambocce, insomma le marmocchie, le mocciose!». Stiamo parlando di un’Alfa Romeo 1600 Spider, più nota con il soprannome di Duetto. Sarà per almeno un decennio l’oggetto del desiderio dei ragazzi di quella generazione (siamo negli anni Sessanta-Settanta), simbolo di libertà anche sessuale, e delle infinite possibilità della «meglio gioventù» di allora. E diventerà essa stessa una vera star del cinema comparendo in più di 300 tra film e serie televisive. Icona tra le icone Alfa Romeo, si gode la sua celebrità – impossibile resistere alla tentazione anche solo di sfiorarla – all’interno del Museo Fratelli Cozzi, bel museo d’impresa alle porte di Legnano dedicato a questo marchio automobilistico, non lontano da un altro museo Alfa Romeo, quello Storico allestito nell’area un tempo occupata dallo stabilimento produttivo.
Sono due realtà molto diverse – a prescindere dalle dimensioni – ciascuna delle quali rappresenta una prospettiva peculiare del mitico brand. Il Museo Fratelli Cozzi non ha la pretesa di ripercorrerne l’intera storia, ma al contrario si concentra sulla sua produzione, quella andata veramente in vendita, tra il 1950 e il 2015. «Qui non ci sono i prototipi e nemmeno le auto da corsa – ci spiega Elisabetta Cozzi, figlia del fondatore e direttrice nonché vera, appassionata, anima di questa realtà – ci sono invece le auto su cui siamo stati, le macchine dei nostri nonni, dei nostri padri, magari la nostra prima auto. È un museo che riesce a emozionare e coinvolgere tutti perché interseca la vita di tutti». Ogni auto della collezione, ce ne sono più di 60, ha il potere di far riemergere dalla memoria un aneddoto, un ricordo, una testimonianza affettiva dei singoli così come della collettività: «Dico sempre che questo museo non contiene degli oggetti, ma contiene delle storie, che non sono nemmeno le storie degli oggetti, ma quelle delle persone. Al taglio tecnico del contenuto abbiamo preferito quello evocativo» continua Elisabetta che sa di poter offrire qualcosa che fa battere forte il cuore. Non solo, ma attraversando sessantacinque anni del nostro Paese, ne diventa preziosa testimonianza dell’evoluzione dell’industria e del design, oltre che del costume, dei consumi e, non ultima, della comunicazione.
Il secondo motivo del fascino di questo museo è il fatto di essere nato da una collezione privata, quindi da una passione del tutto personale che, come tutte le vere passioni, fu totalizzante e bulimica: la collezione di Pietro Cozzi. È lui, giovanissimo, a fondare a Legnano nel 1955, insieme ai fratelli, quella che ancora non si poteva definire una concessionaria: più che altro era un luogo dove si vendevano e si riparavano le Alfa Romeo. Intuizione di marketing o segno già di un amore incondizionato? Entrambe. Il periodo storico è quello del «miracolo italiano», un momento irripetibile nella storia del nostro Paese, contrassegnato da una vitalità, un’intraprendenza e un ottimismo che non si sarebbero più ripetuti con la stessa intensità: in quegli anni l’auto si sta approssimando a lunghi passi a un confine importante, quello che divide il bene di lusso, destinato a pochi, e l’oggetto di consumo. Pietro intuisce che presto l’automobile sarà alla portata, se non di tutti, di molti e che quindi occorre fornire al mercato nascente dei luoghi dove la mera funzione a cui l’automobile è destinata si fonda con il sogno. Nell’Italia di allora c’è solo un marchio con quelle caratteristiche: l’Alfa Romeo. Chi non la conosceva? I giornali traboccavano dei resoconti dei successi sportivi che la Casa del Biscione mieteva a man bassa: Enzo Ferrari, Antonio Ascari, Achille Varzi, Manuel Fangio, Tazio Nuvolari erano leggende incarnate che riverberavano la loro aura sulle Alfa che avevano condotto alla vittoria in mitiche corse. Pietro conosce l’emozione che si prova a salire su un’automobile che profuma di leggenda. Lo sa perché la prova lui stesso, più tardi dirà di essersi innamorato dell’Alfa Romeo prima che di sua moglie e questo brand è stato così centrale per lui e la sua famiglia che Elisabetta per tutta l’infanzia resterà convinta di chiamarsi Elisabetta Cozzi Alfa Romeo.
Ricordate la Numero 1 di Paperon de Paperoni, il mitico decino, primo guadagno del giovanissimo Paperone quando faceva il lustrascarpe a Glasgow? È l’inizio di tutte le sue fortune, una monetina amuleto, coccolata (dal proprietario), bramata (dalla Banda Bassotti), invidiata (da Amelia, la fattucchiera che ammalia). La Numero 1 della collezione di Pietro, quella da cui tutto è iniziato si potrebbe dire, è una Giulietta TI (il nostro primo pezzo iconico) color giallo Cina. Elisabetta racconta che apparteneva a un cliente della concessionaria che aveva appena comprato un altro e più nuovo modello: teoricamente sarebbe destinata, come tutte le altre, alla rottamazione, ma il suo splendore è tale da suscitare un’esitazione nel venditore che va da Pietro a chiedere cosa deve farne, «Caspita, è ancora bellissima – dice Pietro – fai, una cosa, mettila lì». Ecco, da allora quell’espressione è diventata l’hashtag del Museo: #mettilalì è l’espressione dell’heritage che gli sta dietro e nello stesso tempo è imperituro ricordo di un uomo che sapeva riconoscere la bellezza. E bella la Giulietta TI lo era veramente con la sua linea elegante e i suoi colori pastello, un modello amatissimo e talmente desiderato che era soprannominata «la fidanzata d’Italia». Nello stesso tempo rappresenta una svolta epocale nella storia della casa automobilistica perché con lei si apre la stagione della motorizzazione di massa: le Officine del Portello passeranno da una produzione quasi artigianale di 20 veicoli al giorno all’impressionante (per allora) numero di 200: saranno questi volumi a renderla più abbordabile tanto che alla fine ne saranno venduti quasi 132.000 esemplari.
Quel “Mettila lì” non rimarrà un invito isolato, Pietro lo ripeterà più volte fino all’ultimo anno in cui la F.lli Cozzi sarà concessionaria Alfa Romeo, cioè fino al 2015. Quell’anno Pietro compie 80 anni e la sua concessionaria 60, due traguardi anagrafici importanti che meritano una sottolineatura: il regalo che Pietro vuole fare al territorio sarà un museo, aperto al pubblico, che accoglierà la sua collezione. Per costruirlo vengono chiamati Gabriele e Oscar Buratti, due nomi importanti del mondo dell’architettura e del design, che progetteranno un edificio, e un’esposizione, che sono quasi un viaggio iniziatico nel mondo Alfa Romeo. A guidare il visitatore è il colore, a partire dal bianco del guscio esterno, impreziosito – come non ricordare il motto less is more di Mies van der Rohe – dalla sua essenzialità, per continuare nel rosso accecante dell’area di accoglienza per poi arrivare al nero del sancta sanctorum: si scende una scala, l’ingresso è in un buio silenzioso che disorienta il visitatore, e poi improvvisamente fiat lux, si accendono mille luci, che si riflettono, moltiplicandosi, nelle cromature e negli specchietti delle auto in una scenografia sontuosa resa ancora più emozionante dalla musica a tutto volume che sembra squarciare lo spazio. Siamo davvero nel cuore vivo della collezione, quando la musica si abbassa ti sembra di sentirne i battiti. Anche la disposizione delle auto è stata pensata nei minimi dettagli, vuole riprodurre una strada: asfalto sul pavimento a simulare una strada con tanto di strisce bianche tratteggiate di mezzeria. Qui, su due corsie, «sfilano» anche se sono immobili (ma l’illusione è perfetta) le spider, mentre lateralmente, in due navate separate dalla «strada» centrale da due teorie di pilastri, sono «parcheggiate» le berline da una parte e le coupé dall’altra. Il colpo d’occhio è mozzafiato, siamo in una cattedrale laica dove si sta celebrando un brand che esiste ancora, purtroppo non più smagliante come un tempo.
A costo di deludere i lettori amanti della suspense sveliamo subito gli altri due pezzi iconici della collezione, unici al mondo: l’Alfa 155 Q4 2000 che nel 1992 raggiunse il record di velocità sul lago salato di Bonneville in Utah e una Giulia 1600 TI Super di un inaspettato colore… grigio. La prima venne allestita su pressione dell’allora direttore di Gente motori, Gianni Marin – gigante del giornalismo sportivo – che convinse Alfa Romeo a partecipare alla competizione per la categoria G/PS (dove G sta per due litri, P per produzione e S per sovralimentata, cioè in buona sostanza, automobili di normale produzione con elaborazione del motore): impresa coronata da successo perché vennero sfiorati i 300 km orari, record ancora oggi imbattuto. La seconda è protagonista di un aneddoto curioso: tra gli anni Cinquanta e Sessanta sul mercato cominciarono a comparire auto da competizione derivate da berline di serie. La risposta dell’Alfa Romeo a questo trend fu proprio la Giulia TI Super: vennero ovviamente apportate modifiche alla meccanica e alla carrozzeria della Giulia, il modello di partenza, e poi si dovette procedere alla scelta del colore: rossa, bianca o grigio «fumo di Londra»? L’indecisione era grande sicché si decise di sottoporre le tre scocche al giudizio dei piloti che quell’anno correvano per Alfa Romeo: il rosso venne scartato in quanto troppo consueto, così anche il grigio perché era troppo elegante e faceva, nel racconto di Elisabetta, «più prima della Scala che gara su pista», rimaneva solo il bianco e di questo colore vennero prodotti gli altri 499 esemplari che avrebbero consentito l’omologazione del modello (il numero minimo era 500). L’esemplare grigio, di cui non esiste un altro uguale, è restato al Museo Cozzi a esibire la sua sciccheria, mentre quello rosso si trova al Museo Fangio di Buenos Aires.
Nonostante la loro unicità, questi due modelli non sono i più preziosi in assoluto del Museo: il primato spetta a una 2500 6C Super Sport Freccia d’Oro in versione cabrio, un’auto prodotta in 150 esemplari di cui ne sono sopravvissuti pochissimi. E pensare che il proprietario aveva chiesto a Pietro, quasi come favore personale, di portarsi via «quel rottame che mi occupa solo spazio»! Se avesse potuto prevedere le quotazioni che raggiunge quando compare in qualche asta prestigiosa di auto d’epoca… A fianco la versione coupé, modello che ha conosciuto un bel successo cinematografico: è comparsa nel film Il padrino, nella scena clou in cui esplode uccidendo la moglie di Michael Corleone, ma anche in Don Camillo Monsignore… ma non troppo e in Mussolini, ultimo atto di Lizzani, nel quale ha una targa “truccata” perché quella vera sarebbe stata di un bel po’ successiva all’epoca dei fatti raccontati. Dettaglio curioso: è soprannominata “Gobbone” per via della sua parte posteriore dalla prominenza piuttosto pronunciata.
La 2500 6c Super Sport Freccia d’Oro nelle versioni cabrio (a sinistra) e coupé (a destra).
E a proposito di forme, la storia del design automobilistico senza alcun dubbio parla italiano, con un ristretto numero di autentiche star, quelli che un tempo venivano chiamati più banalmente «carrozzieri», che sono ben rappresentate sia in Alfa Romeo sia nella collezione di Pietro Cozzi: partendo del fondo dell’ordine alfabetico – per citare tre “amori” di Elisabetta – Zagato con la sua RZ, modello dalle linee inconsuete esaltate da uno straordinario colore giallo. Realizzata in Modar, un innovativo materiale termoplastico, nella sua versione coupé, la SZ, venne soprannominata The Monster per la potenza del suo motore di 3000 di cilindrata con 6 cilindri a V, ma nonostante i tanti pregi, oggi molto apprezzati dai collezionisti, non fu un successo commerciale forse anche a causa del costo molto elevato oltre che della sua estetica, troppo particolare per i tempi.
Due Zagato: la RZ e la SZ che ne è la versione coupé.
Continuiamo con Giugiaro, la cui Brera è stata la prima macchina a vincere, nel 2004, il prestigioso Compasso d’oro con una motivazione che ancora oggi emoziona: “raramente la complessa combinazione di volumi che costituisce il corpo di un’automobile è stata espressa con linee così nette, essenziali e armoniose: il risultato è una delle automobili più belle ed affascinanti che siano state mai realizzate“, per poi arrivare a Bertone e alla Giulia 1600 SS («Bertone qui ha fatto un capolavoro – dice Elisabetta – questa è una vera scultura su quattro ruote»), con la chicca del mini parabrezza aggiuntivo: protezione del tergicristallo dalla spinta del vento? La risposta di Elisabetta è più maliziosa: «Mi hanno raccontato che Bertone amasse a tal punto la bellezza della sua creazione da montare questo plexiglass per evitare che i moscerini sporcassero il parabrezza!».
La collezione attraversa anche momenti particolari del nostro Paese il che, come già detto, la rende un prezioso documento storico e sociologico. Un esempio? La “dolce vita”, quel magico e spensierato periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta che ebbe Roma, e soprattutto la sua via Veneto, come epicentro di mondanità, scandali e stravaganze e che a livello automobilistico si incarnò in due modelli strepitosi: la Giulietta e la Giulietta Sprint. Non c’era star del cinema, da Sofia Loren a Vittorio Gassman, che in quel periodo non si facesse fotografare alla loro guida, a fare da madrina ai festeggiamenti per il traguardo, nel 1961, dei 100.001 esemplari di Giulietta venduti, venne chiamata l’omonima attrice, la Masina, allora all’apice del suo successo, i grandi campioni dello sport come Fausto Coppi si facevano immortalare nell’atto di salirci. Più agitato e fosco per la casa automobilistica il periodo che vide la nascita dell’Alfasud, presente nel Museo con ben tre modelli, Alfasud TI, Alfasud Sprint, Alfasud Giardinetta. Per comprenderne appieno i contorni, occorre una premessa storica.
Nel 1933 Alfa Romeo, che ai tempi era di proprietà di alcune banche, era in condizioni economiche molto critiche nonostante i successi sportivi che continuava a mietere. Le ragioni erano molteplici, ma volendo sintetizzare al massimo, inefficienze produttive e logistiche si erano innestate sulla crisi economica mondiale iniziata nel 1929 con il crollo di Wall Street portando a un forte indebitamento dell’azienda. Fu in questa situazione che il governo italiano decise di rilevarne, attraverso l’IRI, le quote facendola diventare a tutti gli effetti un’impresa statale. La ragione di tanto interesse era la passione che Mussolini nutriva per le Alfa Romeo, una passione talmente forte da spingerlo a mettersi di traverso rispetto all’opinione del proprio ministero che era invece dell’avviso di far chiudere la casa automobilistica. Non era un sentimento dettato solo da gusti personali, Mussolini era convinto che Alfa Romeo, continuando a vincere gare su gare come comunque stava facendo, accrescesse il lustro dell’industria italiana e quindi del suo regime. L’azienda venne affidata a un ingegnere veneto, in precedenza direttore dello stabilimento FIAT del Lingotto, Ugo Gobbato, che riuscì nel salvataggio con una gestione sapiente e oculata che affiancava alle auto prodotte in serie e alle corse, anche i veicoli commerciali – gli autocarri Alfa Romeo erano impiegati soprattutto nelle colonie –, i mezzi pubblici e in ultimo anche i motori aeronautici. Fu soprattutto per la produzione di questi ultimi che nel 1938 si decise di costruire un nuovo stabilimento a Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli. Fabbrica dalla vita travagliata: distrutta dai bombardamenti alleati, poi ricostruita e riconvertita a impianto automobilistico tra i più avanzati d’Europa per volontà dell’allora presidente dell’azienda, Giuseppe Luraghi. È proprio qui che alla fine degli anni Sessanta prese corpo uno dei progetti più ambiziosi della Casa del Biscione: esordire sul mercato con una compatta alla portata delle tasche di una piccola borghesia sempre più vogliosa di un’auto di prestigio come un’Alfa Romeo, ma priva dei mezzi economici che le avrebbero consentito l’accesso alle berline del segmento superiore. La nuova macchina – per disegnarla venne chiamato Giugiaro – sarebbe stata costruita a Pomigliano: era la contropartita del sostegno economico da parte dello Stato Italiano, un modo ingenuo ma grossolano, col senno di poi, per tentare di far uscire dall’arretratezza economica un Meridione che cercava disperatamente lavoro al Nord. Quello che accadde poi è passato negli annali delle tragedie annunciate: vengono assunti giovani che fino a non molto prima facevano i contadini, «moltissimi erano analfabeti, parlavano in dialetto stretto e non capivano l’italiano, si presentavano al lavoro a piedi nudi, ma soprattutto quando veniva il tempo dei raccolti di patate e pomodori, tornavano ai campi svuotando la fabbrica e interrompendo così i processi di produzione. Questo comportamento era così diffuso che venivano chiamati metalmezzadri. Su questo terreno, già problematico di suo, si inserirono le tensioni dell’autunno caldo con scioperi e boicottaggi che portavano al mercato esemplari volutamente difettati, di scarsissima qualità» racconta Elisabetta che aggiunge: «mio padre era furente, per lui era un colpo terribile al suo orgoglio personale perché aveva sempre venduto l’eccellenza». Da lì inizia la decadenza dell’immagine del brand, che non è mai più riuscito a recuperare i fasti del passato. E certamente, nonostante il fatto che alla fine questo sfortunato modello abbia avuto un successo di vendita non indifferente, le è rimasta appiccicata addosso l’etichetta della macchina dello “sfigato”, come il Pasquale Amitrano del film Bianco, Rosso e Verdone di ritorno dalla Germania verso la natia Matera su una chiassosa Alfasud rossa che lungo la strada praticamente si sgretola di pari passo allo sbriciolamento progressivo della fierezza italica del protagonista, derubato e picchiato durante il viaggio.
Il Museo espone pezzi di pura e assoluta bellezza, ma coraggiosamente non arretra di fronte ai «brutti anatroccoli» che Alfa Romeo ha prodotto negli anni. Uno per tutti: l’Arna. Figlia di un accordo tra Nissan e Alfa, è stata impietosamente e più volte giudicata “l’auto più brutta di sempre”, con il triste destino dei modelli infelici che non riuscendo a essere venduti, alla fine vengono ceduti agli enti pubblici. Per Pietro Cozzi un’auto inaccettabile. «Mio padre è stato per molti anni presidente dei concessionari italiani e vicepresidente di quelli europei e quindi aveva il privilegio di poter visionare in anteprima i nuovi modelli. Quando gli venne chiesto, dall’allora direttore generale della Casa, un parere sull’Arna, lui rispose che la macchina avrebbe anche potuto essere accettabile, ma che sarebbe stato necessario modificare qualcosa: togliere il marchio Alfa Romeo», una provocazione che certamente non sarà risultata gradita al top management dell’azienda. L’auto fu un flop commerciale: poco più di 50.000 esemplari venduti, alla faccia del claim con cui veniva pubblicizzata, “Arna. E sei subito Alfista”.
Negli anni Pietro Cozzi non ha “messo lì” solo automobili. Della sua collezione fa anche parte la ricchissima documentazione tecnica dei vari modelli che include libretti delle istruzioni d’uso e di manutenzione, brochure pubblicitarie, cartelle stampa, manuali di vendita che Elisabetta ha rinvenuto sparsa un po’ ovunque e ne ha affidato la catalogazione a un archivista professionista che ha lavorato per quasi due anni rendendo oggi possibile l’accesso a tutti i materiali presenti attraverso un software. Una parte, poster e fotografie, è stata anche digitalizzata. Un archivio di grande interesse storico, dice Elisabetta: «questi materiali rappresentano il punto di vista di chi le macchine le ha vendute, dalla comunicazione sul punto vendita al merchandising, ai listini prezzi ai manuali di vendita». Un archivio sterminato che include, come detto, i manifesti pubblicitari, interessanti perché delineano la storia della comunicazione in campo automobilistico, e le fotografie. Queste ultime arrivavano ogni mese alla concessionaria e venivano appese alle pareti con le puntine da disegno: raffiguravano le celebrities dell’epoca riprese accanto alle macchine, «in pratica erano come gli influencer odierni e le foto erano dei post di Instagram di sessant’anni fa!».
Particolarmente preziosa è la vetrina con i Trofei Alfa Romeo. Siamo nel ventennio Sessanta-Settanta e Luraghi, presidente dell’azienda, ma anche editore e scrittore nonché raffinato intellettuale, decide di chiamare gli artisti italiani più rappresentativi dell’epoca a disegnare i riconoscimenti destinati ai piloti della Casa: si cimenteranno in questa iniziativa nomi prestigiosi del calibro di Minguzzi, Munari, Fontana (straordinaria la sua opera: un disco di freni “bucato”, in piena coerenza con la sua visione artistica), Giò Pomodoro («L’insegna alchemico-tecnologica del quadrifoglio» definirà l’artista la sua creazione, descrivendo quella sorta di ruota con al centro il simbolo della buona fortuna che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere conservato come «amuleto per le future vittorie»), Agenore Fabbri. «Fu un momento magico e meraviglioso per Alfa Romeo – Elisabetta sospira – quando l’impresa e la cultura andavano a braccetto».
Far quadrare i conti di una realtà come questa non è semplice: “Quando nel 2018 mio padre mi ha comunicato la sua decisione di lasciare a me il Museo e a mio fratello la concessionaria, l’ho abbracciato e gli ho detto che ero super felice, ma che mi aveva donato un debito notevole! La mia sfida è stata proprio quella di gestirlo con lo stesso spirito di un’imprenditrice che vuole e riesce a far funzionare le cose”. Non le mancano le idee: dall’adozione, da parte di imprese e banche, di uno dei pezzi – il che significa farsi carico di tutti i costi di manutenzione per un anno in cambio della possibilità di esporre in bella vista sulla carrozzeria il proprio logo – all’affitto dell’intero spazio espositivo per eventi privati. Ma l’entusiasmo di Elisabetta si è spinto oltre: è animatrice di un progetto di enpowerment femminile che si batte contro tutti gli stereotipi di genere sulle donne al volante e l’utilizzo del corpo delle donne come strumento di pubblicità delle auto e che si concretizza ogni anno in una mostra fotografica dal caustico titolo “Donne e motori? Gioie e basta”. Le belle immagini mostrano una faccia diversa del connubio donne-motori che spesso è giocata sull’allusione sessuale nemmeno tanta velata, qui le protagoniste appartengono alla realtà politica, economica, sociale del nostro Paese e sono riprese a bordo delle auto del Museo Fratelli Cozzi. Ritratti rispettosi, eleganti, dai quali balza evidente il messaggio di assoluta padronanza di un ambito che un certo luogo comune trito e ritrito considera di appannaggio esclusivo, o quasi, del mondo maschile.
“Ma qual era l’auto preferita di suo padre?” È l’ultima domanda quando ormai siamo in procinto di congedarci. “Me lo chiedono tutti – Elisabetta sorride – ma in realtà lui non l’aveva, perché amava tutte le Alfa indistintamente, erano le sue bambine. Vi racconto un aneddoto per farvi capire quanto mio padre “fosse” Alfa Romeo: a un certo punto la concessionaria ha dovuto associare un altro brand, banalmente perché la produzione Alfa non era più sufficiente per sostenere le vendite, ed è stata scelta la BMW. Il problema era come comunicarlo dopo tanti anni di gestione monomarca, nessuna iniziativa ci sembrava efficace per cui abbiamo optato per una modalità inconsueta: far andare in giro per Legnano mio padre su una BMW. Passato qualche giorno, Pietro incontra per caso un amico che gli dice: Senti, ma sai che in città circola un tipo che ti somiglia tantissimo e che guida una BMW? Era per tutti inconcepibile che Pietro Cozzi guidasse un’auto diversa da un’Alfa!”. Lo sguardo di Elisabetta si intenerisce: «Il suo cuore è sempre rimasto lì, nonostante tutto».
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