Tre pezzi iconici: #IL MUSEO DEL CAVALLO GIOCATTOLO

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Tre pezzi iconici: #IL MUSEO DEL CAVALLO GIOCATTOLO

Tutto è cominciato da Tornese. Se non sapete chi era, non sentitevi in imbarazzo. Anch’io ho dovuto affidarmi a Internet per sanare la mia ignoranza e scoprire che era un gran campione, ma su quattro zampe! Perché negli anni Cinquanta è stato il più forte trottatore italiano, una vera leggenda, tant’è che il suo soprannome era “il sauro volante”: 229 corse disputate, 133 vittorie di cui 36 in Gran Premio. E Tornese era nato nel 1952 a Grandate, proprio nell’edificio che oggi ospita il Museo del Cavallo Giocattolo e che allora era una scuderia nota come “Al Portichetto”. Non cominciate a intravedere un nesso?

Il Museo del Cavallo Giocattolo a Grandate. Sulla destra l’imponente sagoma di Roberto.

Ma andiamo con ordine e per farlo dobbiamo portarci al 2000 quando Pietro Catelli, fondatore di Artsana Group – di cui fa parte anche il celeberrimo marchio Chicco (“Chicco, dove c’è un bambino” sarà uno dei claim più famosi degli anni Ottanta) – compie 80 anni. È un momento importante che Pietro decide di voler festeggiare in qualche modo. O forse potremmo dire “a suo modo” visto che è sempre stato un imprenditore di gran cuore, attento agli altri, di una generosità che gli veniva spontanea. Anche nell’occasione di quel compleanno Pietro pensa non a sé, ma alla sua comunità: “Molti anni fa ho acquistato una ex scuderia dove era stato allevato il purosangue Tornese, più volte campione del mondo. Ho contribuito alla trasformazione di questo luogo di culto in area industriale, ma negli anni ho maturato un senso di colpa e oggi ho deciso di riportare dei cavalli nella casa del mitico destriero” così dirà all’inaugurazione del Museo. Un Museo che ospita più di 650 cavalli giocattolo dal Settecento a oggi, provenienti da tutto il mondo, a disposizione delle scuole e delle famiglie, ma soprattutto dei bambini che in questa “scuderia dei sogni” – così la chiamava Catelli – avrebbero potuto sfrenarsi con la fantasia in groppa a giocattoli senza tempo. Giovanni Berera, curatore del Museo, aggiunge un’altra interpretazione: “Pietro Catelli amava particolarmente i cavalli – ricordiamo che uno dei giochi iconici della Chicco è Chicco Rodeo (un cavallo a dondolo con ruote ed effetti sonori, ndr) – forse perché per lui erano simbolo del perenne movimento che deve caratterizzare un imprenditore e che aveva senza dubbio contrassegnato la sua storia”.

Storia che inizia nel 1920 quando Pietro nasce in una modesta famiglia di Monte Olimpino, nei pressi di Como, al confine con la Svizzera. Il padre Enrico è un impiegato delle ferrovie svizzere, la madre, Filomena detta Mina, coltiva nel cortile di casa crisantemi che poi vende all’ingresso del cimitero del paese e poi ci sono le due sorelle maggiori, Jolanda e Angela, che saranno per Pietro un solido e affettuoso punto di riferimento alla scomparsa della madre. Sì perché nel 1927, quando Pietro ha solo 7 anni, Mina si ammala di broncopolmonite (di penicillina allora nemmeno a parlarne) e muore: ci sarà poi una matrigna, ma i tre orfani avranno imparato nel frattempo a bastare a se stessi. Il “moto perpetuo” di Pietro si manifesta molto presto: dopo un inizio, durato non più di un mese, alle Ferrovie svizzere – appena diplomato si era lasciato convincere dal padre, desideroso per lui di un impiego sicuro – si licenzia e nel 1937 trova un nuovo lavoro presso una ditta tedesca, la Diefenbach, che produce termometri, aghi e siringhe. Ma anche qui non resta a lungo, il suo sogno è di mettersi in proprio e dopo la parentesi della guerra, nel 1946, il dado è tratto e Artsana nasce in un piccolo locale in piazza Matteotti a Como. Il catalogo merceologico è quello che Pietro ha imparato a conoscere bene negli anni alla Diefenbach, ma con l’apporto di piccole ma geniali migliorie. Per esempio l’idea di vendere gli aghi in confezioni da dodici e non più singolarmente oppure, uovo di Colombo, la chiusura dei sacchetti di cotone idrofilo con un cordino a doppio anello in modo da poter aprire e chiudere la confezione salvaguardando al massimo l’igiene. Sarà l’inizio di un’avventura imprenditoriale che, proprio come il suo proprietario, non si fermerà più e che seguirà negli anni una linea costante: all’inizio distribuire prodotti realizzati da terzi lavorando sul packaging e la distribuzione per poi passare a produrli in prima persona. Nel 1958 una svolta importante: nasce il figlio Enrico, Chicco per i famigliari, e Pietro nella sua nuovissima esperienza di padre si rende conto di come il mercato sia carente di prodotti destinati alla puericultura, che aiutino le madri nella cura quotidiana dei bambini. Si racconta che la prima spinta verso la decisione di entrare in questo mondo sia stata una notte trascorsa insonne nel tentativo di calmare un piccolissimo e urlante Enrico: mentre va avanti e indietro nella stanza, Pietro comincia a delineare nella mente la sua prossima creatura, la Chicco, che vedrà la luce solo pochi mesi dopo e che rapidamente diventerà il brand di riferimento per le mamme d’Italia con prodotti conosciuti in tutte le famiglie: la casina delle api da appendere sopra la culla dei bebè, le tutine Giocadormi rivoluzionarie nel proporre un unico indumento per il giorno e la notte, i passeggini leggeri e pieghevoli. Sarebbe troppo lungo enumerare tutte le tappe di un inarrestabile successo che vede oggi il Gruppo, che dal 2016 è partecipato al 40% dalla famiglia Catelli e al 60% da Investindustrial, una società di investimento indipendente leader in Europa, essere distribuito in più di 120 Paesi del mondo. L’headquarter è ancora a Grandate, dove si trova anche il Chicco Village che comprende il Villaggio dei Bambini cioè l’asilo nido aziendale (declinazione della vocazione educativa dell’azienda), il Museo del Cavallo Giocattolo (la declinazione culturale), il grande store con annesso parco giochi e il Giardino delle Meraviglie, un ampio spazio verde con panchine, una piazza e un’area per spettacoli.

Custode del Giardino delle Meraviglie, che si estende tra lo store e il museo, è un gigantesco cavallo a dondolo (il più grande d’Europa) alto cinque metri e lungo più di sette, realizzato nel 2002 per il film Pinocchio di Benigni dove dominava il Paese dei balocchi. Si chiama Roberto e introduce a una particolarità dei cavalli conservati nel museo: hanno tutti un nome proprio. È stato così fin dall’inizio (la collezione apparteneva a un privato che la vendette a Catelli) e la tradizione continua per qualunque esemplare ne entri a far parte per acquisizione (ormai un evento raro) oppure regalia. E dietro ogni nome c’è una storia: è il caso di Paolo Natalino, chiamato così perché al donatore (Paolo) era consentito di giocarci solo il giorno di Natale. Passata la festività, il giocattolo, che è in latta serigrafata e forse per i tempi delicato e costoso, veniva riposto in un armadio fino all’anno successivo. O come Zaccheo, regalato da una signora della buona borghesia romana che era venuta a conoscenza del Museo ascoltando una trasmissione radiofonica e che si era ricordata dello scalpitante cavallino con tanto di calesse agganciato con cui giocava da bambina. O ancora come Edoardo (nostro primo pezzo iconico), che nel logo del Museo dondola sul globo terrestre a rimarcare che questo è l’unico museo al mondo dedicato al cavallo giocattolo: è un esemplare antico risalente ai primi del Novecento, in legno massello scolpito e dipinto a mano, che proviene dalla Val Gardena ed è alta espressione di una cultura locale e della sua perizia artigianale. La gualdrappa che lo adorna riproduce un motivo floreale a vivaci colori, un cromatismo acceso che è consuetudine per i giocattoli in legno di questa zona come di tutti i Paesi nordici: per esempio Romeo, Gioia e altri tre loro “colleghi” – molto più recenti perché del XX secolo – di origine svedese, splendono nella vetrina con il loro mantello rosso fuoco a decori in blu, verde e giallo.

Il logo del Museo con Edoardo dondolante sul globo terrestre.

Edoardo non è certo l’unico esemplare antico della collezione, anzi. Di secoli sulle spalle ne ha più di due Andrew (nostro secondo pezzo iconico), cavallo a dondolo americano del 1790, consunto – ha perso, chissà quando, criniera e orecchie – ma dall’espressione quanto mai realistica e vivace, e un secolo e mezzo ci separano da quando un bambino trainava Aureliano, dal corpo in legno e cartapesta rivestito di tela dipinta, che con i suoi occhi in vetro guarda il mondo con solenne gravità. Senza dimenticare Fortunato (nostro terzo pezzo iconico) il cui nome richiama il futurista Depero operante negli stessi anni, gli inizi del Novecento: stilizzato, con un’espressione per nulla mansueta, rappresenta bene i nervosi dettami artistici di quel momento storico, mentre la quasi coeva (anni Venti) Marina sembra invece richiamare nelle sue forme sinuose le lezioni del Liberty. Né potremmo dimenticarci di Napoleone III, francese di metà Ottocento, con corpo in legno (ornato di un’elegante passamaneria) e testa in metallo, ma con la straordinaria particolarità di essere montato su un vero triciclo con tanto di pedali e catena di bicicletta.

Andrew, cavallo a dondolo americano della fine del Settecento.
Fortunato, cavallo futurista.

Già dalle prime sale si capisce che il mondo dei cavalli giocattolo è estremamente variegato e comprende tante tipologie, tutte presenti nel museo con esemplari anche di grande pregio. Ci sono i cavalli a dondolo, ma anche quelli a traino, muniti cioè di rotelle che permettono di trascinarli con una cordicella. Abbiamo già citato Aureliano, ma fa bella mostra di sé anche il più recente Tirvo, dalla sciccosissima sella in pelle di serpente, dono personale di Guido Berlucchi (fondatore dell’omonima azienda vinicola) che nella lettera di accompagnamento scrisse: “mia nonna mi fece costruire questo cavallo nero quando avevo 5 anni e lo aveva voluto uguale al cavallo che trainava la sua carrozza”. Alcuni dei cavalli a rotelle si potevano anche cavalcare: è il caso di Orio, realizzato in Italia tra gli anni Venti e Trenta, con la sua seduta in legno a misura di bambino che avrebbe potuto avanzare spingendosi con le gambe. Particolare curioso: il corpo è stato dipinto con un effetto spugnato che riproduce in modo sorprendentemente realistico il pelo riccio di alcune razze equine come i bashkir americani.

Orio, dal manto ricciuto.

Anche dei cavalli triciclo abbiamo fatto già conoscenza, ma non si può tralasciare di menzionare Medea che era uno dei pezzi preferiti di Catelli: datata tra il 1920 e il 1930, in legno dipinto (il musetto è graziosissimo con occhioni che sembrano bistrati), a metà strada tra un triciclo e una biga, consentiva al bambino di stare bello comodo spostandosi grazie a un sistema ingegnoso a pedali.
Sulla possibilità di movimento si concentrarono molti dei produttori di cavalli giocattolo, in Italia, ma soprattutto in Inghilterra (celeberrima la serie Mobo della ditta D. SEBEL & CO. il cui successo stratosferico le consentì di restare in produzione dagli anni Quaranta fino al 1971) e in Germania, e le loro creazioni costituiscono un’altra tipologia importante: i cavalli a pressione. Senza addentrarsi troppo nel tecnico, possiamo dire che simulavano il trotto di un cavallo grazie a un sistema di molle collegato alla sella su cui il “cavaliere” esercitava una pressione con il suo peso. Nel museo ci sono alcuni bei pezzi, il cui “capostipite” è Rotilio, degli anni Venti, dalla linea slanciata e quasi aerodinamica cui fa da contraltare Max che invece del cavallo ha solo il profilo, in un processo di sottrazione di dettagli che alla fine lo trasforma in un’idea di cavallo straordinariamente contemporanea. Questo esemplare americano degli anni Quaranta presentava un movimento molto originale perché la pressione esercitata dal “cavaliere” sulla sella si trasmetteva alle ruote attraverso balestre da camion, una modalità che ai tempi dovette risultare davvero insolita visto che di questo giocattolo si arrivò perfino a scrivere su una rivista di divulgazione scientifica dell’epoca.

Max, originale cavallo a pressione degli anni Quaranta.
Medea, uno dei pezzi preferiti di Pietro Catelli.

Ma le chicche del Museo sono, almeno ai nostri occhi sempre in cerca di curiosità, le sedie a cavallo e i cavalli da giostra. Le prime sono sostanzialmente delle sedute, spesso a dondolo, con testa di cavallo destinate ai piccolissimi. È questo il caso di Carlino da Lodi che con le sue orecchie appuntite ben avvolte da uno strato di gommapiuma testimonia l’attenzione dei genitori per la piccola di casa, forse timorosi che potesse ferirsi urtandole accidentalmente, e le due sedie da parrucchiere Salvatore e Amato che avranno confortato più di un bambino durante l’odioso rituale del taglio dei capelli. Anzi, secondo uno dei tanti aneddoti del museo, una signora con due bambini sarebbe un giorno venuta al museo appositamente per “reincontrare” proprio Salvatore che si trovava nel negozio dove lavorava il padre. Né vogliamo ignorare i Gemelli Jackson, due sagome piatte a forma di cavallo unite da una seduta che poteva essere sollevata per poi ripiegare ingegnosamente i due cavalli, certamente per poter trasportare più agevolmente il giocattolo. Dal canto loro, i cavalli da giostra sono ben rappresentati con parecchi esemplari alcuni dei quali davvero capolavori nel loro genere. È il caso di Tatzuo, cavallo cinese di una giostra ambulante della prima metà del Novecento e l’ottocentesco Valdo, opera dello scultore Frederich Hien il cui laboratorio era celebre in tutta la Germania per la bellezza dei pezzi lì realizzati. Certamente meno blasonati, ma di grande impatto visivo sono due cavalli (beh, in realtà uno è un unicorno…) usciti dalla scenografia di un allestimento di Così fan tutte a opera del Teatro Sociale di Como, vera istituzione culturale della città che affianca il Museo in tante iniziative destinate ai bambini e ai loro genitori.

I Gemelli Jackson, ripiegabili.

Come abbiamo già visto, sono moltissimi i Paesi di origine dei pezzi esposti. “Il fatto è – sottolinea Berera – che il cavallo giocattolo è un fenomeno mondiale che dal Giappone alla Russia, dall’Africa alla Svezia, accompagna l’infanzia, anzi si può dire che ogni cultura individui nel cavallo un compagno di giochi dei bambini”. In effetti dalle vetrine ci osservano alcuni cavalli, splendidamente bardati, dall’India, il giapponese Mikao del 1910 che con i suoi preziosi finimenti riproduce i cavalli dell’imperatore del Sol Levante, una marionetta birmana dai decori scintillanti, due cavallini in cuoio utilizzati negli anni Cinquanta in Cina nel teatro delle ombre e altri esemplari più o meno esotici. E alla domanda se questa affermazione continui a valere anche nell’oggi supertecnologico, Berera risponde portandoci a una vetrina dove spicca un pezzo scolpito con pochi tratti essenziali che delineano più che un cavallo una forma cavalcabile. Si chiama Giulia, è stato disegnato da Paolo Pininfarina e realizzato in legno di cedro da Riva 1920, celebre firma dell’arredamento in legno. Accanto un H-horse di Nendo per Kartell in metacrilato trasparente è ulteriore testimonianza del fatto che i toy designer non si stancano di rivisitare questo oggetto senza tempo.

Mikao, cavallino giapponese degli inizi del Novecento.

Proprio quando sembrerebbe che la visita sia terminata, una sorpresa: una collezione nella collezione. Nel 2006, infatti, Pietro Catelli decide di fare un altro prezioso regalo al “suo” museo: 41 giocattoli di latta prodotti tra il 1880 e il 1940, dalla storica Lehmann, una delle più famose fabbriche europee di giocattoli (ancor oggi esistente, ma operante negli USA e concentrata esclusivamente sul mondo dei trenini elettrici). I personaggi riproducono il mondo degli adulti con mestieri e scorci di realtà quotidiani spesso interpretati con una vena di umorismo: bellissima è la scenetta con il fornaio sporco di farina e lo spazzacamino coperto di fuliggine che se le danno di santa ragione. Ma dal punto di vista sociologico sono una testimonianza interessante delle manie, delle mode, dei sogni esotici (spesso anche imperialistici) dell’epoca: un inverosimile carretto della posta con conducente nero e traino… a struzzo, Coco bambino indigeno con tanto di turbante in procinto di arrampicarsi su una palma da cocco, un rickshaw (risciò in italiano) dove una geisha compostamente assisa sembra ignorare il mondo che le sfila accanto, ma anche Miss Blondin (versione femminile del celebre funambolo Charles Blondin che attraversò per primo le cascate del Niagara camminando per oltre 300 metri su una corda tesa) in grado di avanzare su un filo sospeso, Skirolf che testimonia l’interesse per lo sci come sport agli inizi del Novecento, il cowboy che con il suo cavallo riproduce esattamente l’esibizione di Buffalo Bill in occasione della tournée in Europa del suo circo. Tutti sono in grado di muoversi grazie a meccanismi a molla, perfettamente funzionanti anche oggi pur confinati come sono, per la loro rarità e delicatezza, in due grandi vetrine, lontani dalle manine “rapaci” dei bambini.

Una delle miniature della collezione Lehmann, parte integrante del Museo (© Zanta).

“Guardare e non toccare” sembrerebbe la parola d’ordine in questo museo, ma nella realtà non è proprio così. Perché se è vero che i pezzi da collezione sono rigorosamente off-limits, c’è però la possibilità per i più piccoli di scatenarsi nei laboratori annessi al museo dove ogni sabato pomeriggio i bambini dai 3 agli 8 anni vengono ingaggiati nella realizzazione di cavalli giocattolo nei materiali più vari, dal polistirolo al cartone alla stoffa, attività che vengono riproposte anche per le scuole. La vitalità del museo viene alimentata da ulteriori iniziative, spesso in affiancamento con realtà locali come il Conservatorio Giuseppe Verdi, il già citato Teatro Sociale di Como, la Fondazione Ratti. L’attenzione per la cultura è un aspetto che Berera ama rimarcare: “il museo del cavallo giocattolo è spesso il primo museo che i bambini visitano, si potrebbe dire che è la prima porta che varcano verso il mondo della cultura”. Segno di un ascolto diligente dell’universo dell’infanzia “che è il cuore valoriale dell’azienda, il suo DNA, e nello stesso tempo è incarnazione della sua capacità propositiva e poi costruttiva nei confronti del territorio”. Anche per questo motivo l’ingresso è gratuito.

Da questo luogo magico si esce con un solo rimpianto: quello di non riuscire più a vivere con pienezza innocente l’incantamento, lo stupore che tutti i bambini provano quando si trovano qui. L’età adulta ha i suoi prezzi e uno è la preclusione dal Paese dei balocchi. Salutiamo Roberto con deferenza: non è il custode di un luogo, adesso lo capiamo, ma di un sogno.

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