La location è molto semplice: una ex area industriale con un ampio piazzale e un gigantesco capannone a Stroppiana, nel mezzo della campagna del Vercellese. Ma il visitatore non si inganni: qui si trova una delle più grandi e importanti collezioni private di camion d’epoca in Europa, più di 250 esemplari che raccontano la storia del trasporto su gomma del nostro Paese. Siamo alla Collezione mezzi storici Marazzato, vero e proprio tributo d’amore di Carlo Marazzato, scomparso lo scorso anno, al padre Lucillo, il fondatore dell’azienda: «Mio padre era tutto per me. Un amico. Tutto. Mi ha sempre considerato un uomo. Sin da piccolo ho respirato gomme e motori. Dagli albori in cui consegnavamo con i mezzi le bombole nuove per le cucine a gas. Le nostre radici sono anche queste» così scriveva.
Tipo intraprendente Lucillo Marazzato, di quella schiatta di nostri conterranei che nel Dopoguerra si rimboccarono le maniche e ricchi solo dei loro sogni diedero il via al boom economico. Nato nel 1919 a Trebaseleghe, piccolo paese del Padovano straziato dalla Grande Guerra, quinto di quindici fratelli e a 8 anni già garzone di panettiere, va presto a ingrossare le file di quelli che migrano nel Nord Ovest alla ricerca di migliori opportunità di lavoro. Si ferma in Valle d’Aosta e, dopo un paio di brevi esperienze, approda nuovamente “all’arte bianca”: al Panificio Testa di Aosta fa di tutto, comprese le consegne del pane in sella a un veicolo che ritroveremo più avanti. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Lucillo riesce a farsi assegnare il ruolo di corriere per il ritiro dalla FIAT dei pezzi di ricambio degli autoveicoli militari: questa esperienza gli consentirà di impratichirsi nella meccanica, poco più che un’infarinatura che gli sarà però preziosa nell’attività futura. E difatti, al termine del conflitto, dapprima fonda con due dei fratelli una piccola società di trasporti conto terzi e poi nel 1952 si mette in proprio: la “Lucillo Marazzato» sarà la prima pietra dell’impero del Gruppo che oggi conta 8 sedi sparse tra Piemonte, Lombardia (soprattutto nel Milanese) e Liguria, un parco mezzi di 200 unità e oltre 250 dipendenti. Naturalmente la strada è stata lunga e ha comportato una notevole diversificazione dei servizi: dai trasporti di liquidi come la soda caustica e la nafta da riscaldamento dei primi tempi agli spurghi industriali, al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi sempre industriali e infine alle bonifiche ambientali. Ci sono state anche avventure di breve durata, che però sottolineano la pervicace volontà imprenditoriale di Lucillo e del figlio Carlo che, appena terminati gli studi, lo affianca: l’acquisto, nel 1961, di un’azienda di trasporti padovana in fallimento, la Maritan Tagnin, che però verrà poi abbandonata per le difficoltà di gestione legate alla distanza tra il Veneto e Ivrea dove Lucillo aveva il suo quartier generale; l’investimento nei prodotti petroliferi con la fondazione nel 1969 di Petrolsesia e l’acquisizione nel 1973 di Le Petrol, vittime entrambe degli effetti nefasti della crisi energetica mondiale degli anni Settanta; l’apertura di un nuovo ramo d’azienda, la Inver, nel campo della vetroresina per la realizzazione di bidoni della spazzatura e di campane per la raccolta del vetro, impresa che però non decollò per l’impossibilità di risultare competitivi rispetto a prodotti in materiali più economici. Tutte queste vicende hanno sempre visto protagonisti i membri della famiglia: non solo Lucillo e Carlo, ma anche l’altro figlio di Lucillo, Giorgio, la moglie di Carlo Mara e i loro tre figli Alberto, Luca e Davide. In tutti (ma il pronome comprende anche i dipendenti, i collaboratori e in generale chiunque abbia conosciuto Lucillo) il patron ha lasciato la memoria indelebile di un uomo dalla laboriosità instancabile, dalla visione a 360°del mondo produttivo e dall’immensa generosità: la collezione, iniziata da Carlo nel 2010, è anche un modo per tramandarne il ricordo.
Una collezione che, come ci spiega il suo curatore Riccardo Manachino, comporta un impegno non indifferente. «Il collezionismo dei camion storici è sempre e solo comandato dalla passione, a differenza di quello delle auto o delle motociclette che può rappresentare anche un investimento. Questi mezzi non hanno un vero mercato pur potendosi comprare, vendere e scambiare. Bisogna restaurarli, avere lo spazio per raccoglierli, e, se si vuole usarli di tanto in tanto – uno dei piaceri del possedere un veicolo d’epoca – occorre considerare che consumano molto, «fumano», sono complessi, rumorosi, scomodi. Dal punto di vista percettivo, poi, una collezione di questo tipo si fa spesso fatica a farla inquadrare al pubblico come storica perché molti modelli sono rimasti a lungo sulla strada, sono ancora nel ricordo di chi ha dai quarant’anni in su. In poche parole, qui non c’è speculazione, bisogna voler bene a questi mezzi per collezionarli».
I mezzi raccolti a Stroppiana sono per lo più di produzione italiana, soprattutto FIAT, ma anche OM, Lancia, Alfa Romeo, Isotta Fraschini, con una piccola rappresentanza di Volvo, Spa e Saurer. Quasi tutti sono restaurati dal punto di vista estetico e funzionale; per quanto riguarda il primo aspetto il restauro può essere conservativo o tale da riportare il mezzo a nuovo, una decisione che viene presa dopo un’analisi approfondita del veicolo: così nel tour della collezione ci si può imbattere in mezzi fiammanti come in altri che invece denunciano chiaramente la loro età, ma non per questo sono meno affascinanti. Si nota subito che molti degli esemplari montano cisterne, una precisa scelta di Carlo Marazzato come inevitabile riferimento al lavoro degli inizi, il trasporto di carburanti. Manachino puntualizza poi un altro dettaglio: gli esemplari della collezione non sono, tranne in sparuti casi, quelli originali posseduti dell’azienda («È una domanda che mi fanno spesso» dice sorridendo), questi mezzi sono stati acquistati per collezionismo e quindi i luoghi di provenienza sono i più disparati.
Contravvenendo alla regola aurea degli scrittori di gialli, cominciamo con lo svelare subito i tre pezzi iconici. E per un buon motivo: questi tre mezzi sono particolarmente significativi per la famiglia Marazzato e rappresentano, nel vero senso della parola, il cuore della loro collezione. Cominciamo con un motocarro Moto Ercole Guzzi, identico all’esemplare con cui Lucillo partì dal Veneto per arrivare in Piemonte, una specie di moto agganciata a un cassone ribaltabile a mano per mezzo di un sistema di cremagliere. Con questo mezzo Lucillo effettuava, nel 1939, le consegne di pane alle rivenditorie della valle per conto del Panificio Testa di Aosta e a esso è legato un aneddoto famigliare, uno dei tanti che testimonia la bontà di Lucillo: un giorno, mentre è impegnato nel suo consueto giro di lavoro, gli viene chiesto di portare con urgenza in ospedale una partoriente in difficoltà. Detto fatto. Peccato che il suo Guzzi non sia omologato per il trasporto di persone… Morale: gli viene comminata la prima multa della sua vita, poi amnistiata per la fortunata coincidenza della nascita di un nuovo membro della famiglia reale.
Il secondo mezzo iconico è un FIAT 680 N del 1948. Scriveva Carlo Marazzato «Il FIAT 680 è stato il primo camion dell’azienda Marazzato, fondata il 17 maggio 1952. È il camion che più mi ricorda mio padre. Fu, tra gli autocarri degli anni Quaranta, quello che più gli diede soddisfazione, ne era innamorato». Ed è quello con cui Lucillo trasportò i mattoni che sarebbero serviti per costruire la sua casa come testimonia una foto del 1950. L’esemplare della collezione monta invece una cisterna e mostra alcuni dettagli curiosi come i catarifrangenti che raffigurano … una «i» (stava per «infiammabile»). Il modello è parente stretto del bel FIAT 666 N7, precedente di qualche anno, che si mostra ai visitatori nella sua versione da set, carico di sacchi di riso, perché riproduzione del mezzo utilizzato durante le riprese del film Riso amaro. Va detto che non è l’unico mezzo della collezione affittato dall’azienda per scopi cinematografici: uno dei camion dei vigili del fuoco, che nella collezione sono piuttosto abbondanti perché, ci spiega Manachino, sono facili da reperire in discrete condizioni, è entrato nel recentissimo film Diabolik 2.
Il terzo pezzo iconico è quello che ha dato il via alla collezione ed è un vero gioiello: un’Isotta Fraschini D80 del 1936. Anche chi è totalmente digiuno di motori, sa che questo marchio era sinonimo di automobili di gran lusso e per l’epoca di tecnologia ricercata. Pochi invece sanno che, per una manciata di anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale e nell’immediato Dopoguerra, l’azienda produsse anche veicoli industriali dato che aveva acquisito dalla tedesca MAN la licenza di produzione dei motori diesel. In particolare i primi D80 sono degli anni Trenta, seguiti da altre due serie, la più potente Seconda Serie utilizzata anche dal Regio Esercito e la Terza Serie entrata in produzione nel Dopoguerra per il mercato civile. Camion sì, ma che eleganza! Una linea sofisticata, impensabile negli altri camion dell’epoca, che ha il suo punto di forza nella cabina, arretrata per consentire l’alloggiamento del motore davanti a essa, decorata da cinque strisce cromate che partono dallo stemma e abbracciano l’intero cofano e con un interno decisamente “stiloso”. L’esemplare della collezione appartiene alla Terza Serie, lo stesso modello acquistato da Lucillo Marazzato negli anni Quaranta. Ma non solo: questo è proprio il mezzo che Carlo Marazzato comprò nel 1968 per ottenere la licenza di autotrasporto conto terzi dopo che aveva fondato una sua impresa di trasporti. Da allora è sempre rimasto nel parco veicoli dell’azienda, trasformato a seconda delle funzioni a cui veniva adibito fino al “pensionamento” negli anni Novanta, seguito dalla decisione di Carlo nel 2003 di restaurarlo perfettamente; oggi sfoggia un’inusuale carrozzeria blu pervinca che però è un omaggio al colore distintivo del Gruppo. Una chicca: in alcune particolari occasioni viene fatta provare ai visitatori l’esperienza virtuale della sua guida muniti di oculus, assisi comodamente in cabina e affiancati da un autista. Come se si fosse per strada una settantina di anni fa!
Dissipata la suspense, possiamo tornare al nostro tour che offre più di uno spunto interessante. Va detto che la collezione nasce senza un’idea portante se non quella dell’affetto nei confronti di un padre appassionato di camion, ma ciò non toglie che al suo interno si possono seguire dei fil rouge, per esempio il design e la confortevolezza della cabina che da una parte derivano dall’evoluzione della concezione del lavoro e del modo di vivere il mezzo dall’altra riflettono l’estetica delle auto delle varie epoche e dei brand a cui appartenevano. L’OM Super Orione che incontriamo subito all’inizio è per esempio una dimostrazione di quanto il lavoro del camionista negli anni Sessanta potesse essere rude, faticoso e scomodo, ma Manachino ci fa notare una prima concessione al comfort della cabina rispetto ai mezzi più datati, la panchetta in mezzo ai due sedili che consentiva di far sedere dei passeggeri: «non che prima non avvenisse, ma nel caso venivano fatti accomodare direttamente sul cofano motore!». Il camion, uno dei primi in Europa ad avere il motore 8 cilindri a V, presenta la guida a destra che però non è peculiare solo di questo modello perché, al contrario, è visibile nel 95% della collezione: fino alla metà degli anni Settanta era un obbligo di legge per i mezzi pesanti. La ragione era di assoluto buon senso: questi camion non erano concepiti per i sorpassi sia per i loro limiti intrinsechi di velocità sia perché la rete autostradale italiana era ancora quasi inesistente (le statali e le strade regionali non offrivano grandi possibilità di sorpassare), era quindi più vantaggioso avere la visione diretta del ciglio della strada.
Al contrario dell’OM, i camion Lancia e Alfa hanno la stessa «gentilezza e grazia» – Manachino quasi accarezza con le parole i «suoi camion» – delle vetture degli stessi brand, erano più curati, più costosi, ma anche più delicati. Nella collezione Marazzato ce ne sono parecchi: dall’Alfa Romeo Mille, camion di nicchia prodotto dal 1958 al 1965, confortevole, ben rifinito sia esteticamente che da un punto di vista meccanico (dettaglio tecnico: era equipaggiato con un riduttore elettropneumatico che consentiva di sostituire la leva lunga mezzo metro parallela al freno a mano, tipica dei FIAT coevi, con un semplice interruttore) al Lancia Jolly, sofisticato furgone adatto al trasporto leggero che non conobbe una larga diffusione, al Lancia esatau B che, e qui torniamo alla cabina, era considerato la quintessenza della comodità: alle spalle dei due sedili erano alloggiate ben due brandine, in più una serie di dettagli come il portaoggetti a “balconata” rivelano la mano di un vero designer nella concezione dell’insieme e difatti la leggenda dice se ne fosse occupato il celebre Raymond Loewy. E a proposito della presunta delicatezza dei mezzi Lancia e Alfa, Manachino ci fa osservare, un po’ sornione, che alla fin fine si tratta di un fraintendimento: gli autocarri FIAT erano costruiti «dando per scontato che non sarebbero mai stati rispettati i limiti di carico e quindi sopportavano di tutto» mentre i Lancia e gli Alfa Romeo «erano fatti per trasportare banalmente quello che avrebbero dovuto trasportare». E difatti non sono pochi gli Alfa Romeo 1000 a cui venivano, nel tempo, “trapiantati” motori FIAT, meno raffinati ma più robusti.
Sempre restando sulle cabine, ci viene spiegato che i camion si suddividono in «musoni» e «musi piatti». I primi hanno la cabina arretrata e il motore ospitato frontalmente, mentre nei secondi il motore si trova sotto la cabina che quindi è squadrata, con il frontale sviluppato in altezza. Negli Stati Uniti i musoni sono ancora oggi preponderanti, mentre in Italia rappresentano mezzi “storici”, antecedenti agli anni Quaranta. Con l’eccezione di due FIAT: C40 e C50, che hanno un’estetica molto “americana” per un motivo ben preciso. Negli anni Cinquanta la FIAT concorse a una gara per la fornitura di circa 5.000 veicoli destinati alle truppe NATO e quindi i veicoli progettati dovettero rispettare alcune caratteristiche previste dal bando, in primis la cabina arretrata. I primi prototipi vennero presentati nel 1957 e giudicati idonei, ma a sorpresa la NATO non confermò l’ordine. A questo punto i vertici aziendali, convinti della bontà dei due mezzi, decisero comunque di commercializzarli, una scelta che si rivelò purtroppo erronea: il mercato italiano ormai non gradiva più il “muso” allungato (anche perché questo dettaglio rende meno agevole la manovrabilità del mezzo) e la produzione si arrestò presto.
Tra i “musi piatti” la collezione annovera un buon numero di modelli caratterizzati dal cosiddetto “ovale con il baffo”, cioè dalla calandra attraversata da una sbarra trasversale, che diventerà un leit motiv su molti altri mezzi pesanti FIAT: il più significativo, e quello che i meno giovani ricordano benissimo, è il 682 che circolerà sulle strade italiane, con le sue successive evoluzioni migliorate e potenziate, fino agli anni Ottanta.
Tra i “pezzi forti” della collezione ci sono alcuni veicoli militari. I più antichi sono due camion FIAT dei primi del Novecento: il 18P e il 18BL. Sono veri e propri cimeli storici che rimandano alla Grande Guerra quando questi modelli furono i protagonisti assoluti della motorizzazione dell’esercito italiano. Il che desta qualche meraviglia alla luce delle loro caratteristiche che definire primitive è un eufemismo: largo impiego di legno e stoffa nella costruzione (la lamiera di rivestimento serviva solo come protezione), avviamento a mano, fari a carburo (non c’era impianto elettrico), gomme piene con trazione a catena… come le biciclette! Un altro mezzo militare che attira l’attenzione è un’ambulanza di servizio presso l’esercito inglese durante la Seconda guerra mondiale: al termine del conflitto venne acquistata da un ambulante che se ne serviva per fare i mercati e che per darle un aspetto più consono alle nuove funzioni la dipinse di verde a pennello e rovesciò al contrario il telone che riportava la croce rossa… et voilà, come nuova!
Di uso civile è invece la corriera del 1927, un diciotto posti derivato dalla produzione automobilistica FIAT 507 con l’alloggiamento dei bagagli sul tetto, a cui si accede con una scaletta, e un paio di dettagli curiosi, innanzitutto la cinghia in cuoio per abbassare i finestrini, mutuata dalle antiche carrozze, e poi le frecce posteriori… a forma di freccia, scelta spiazzante nella sua semplicità!
La varietà della collezione è molto apprezzata sia dalle scuole – «è incredibile come i ragazzini notino particolari a cui gli adulti non prestano attenzione» dice Manachino – sia dal pubblico adulto che affolla le “porte aperte” organizzate periodicamente e che vedono la partecipazione crescente di non addetti ai lavori. È un segno evidente di come la fascinazione per questi veicoli travalichi età, formazione, estrazione sociale. Sarà certo per tutto quello che rappresentano, il ricordo del passato, il lavoro, la vita quotidiana, ma forse la motivazione più vera, ce la suggerisce ancora una volta Manachino, è più semplice: «assomigliano a enormi giocattoli» e in fin dei conti dentro di noi il fanciullo si affaccia sempre, a dispetto di tutto.
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