Heritage

Smash vincente

Le grandi storie dell’heritage: Workout magazine incontra Andrea Marcora di Metallurgica Marcora

Acciaio e tennis. Oppure tennis e acciaio. Cambia, a seconda dei membri della famiglia, la posizione degli addendi, ma non la somma, che è un po’ «il nocciolo duro» dei Marcora. Due passioni totalizzanti che ci vengono raccontate da Andrea, il più giovane discendente di una dinastia bustocca dell’acciaio, la cui impresa, Metallurgica Marcora, affonda le sue radici nel 1878. Si comincia dal tennis, ma solo per la nostra curiosità: «È sempre stato importante per noi. Mio nonno era ai limiti della prima categoria, mio padre, che è Presidente dell’azienda, ha sempre giocato a livello agonistico, gioca tuttora a 76 anni, ed è Presidente del Tennis Club di Busto Arsizio, mio fratello maggiore è stato un professionista di ottimo livello fino a poco più di anno fa e io stesso da ragazzo sognavo di intraprendere la carriera sportiva». E l’acciaio? Come si è conciliato nel tempo con il laminatoio di Cuggiono, alle porte di Milano? «C’è da dire che ai tempi del nonno e di mio padre chi giocava a tennis svolgeva in genere anche un lavoro, non esisteva il concetto di professionismo come c’è oggi, con lo sport non si guadagnava, non era raro trovare tennisti che erano magari dottori». E in quanto ai «ragazzi Marcora», entrambi, a un certo punto della loro vita, hanno svoltato in direzione del secondo «addendo», l’acciaio.

L’amore per il metallo anima già il fondatore dell’impresa, anche se questa, quando viene creata nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, non ha finalità produttive, ma è «commercio della ferramenta e affini, acquisto, locazione, esercizio e liquidazione di altre aziende aventi gli stessi scopi e scopi affini, impianto di nuove aziende». Lui si chiama Roberto Marcora ed è nato nel 1853 a Busto Arsizio, in un momento in cui nell’economia locale le fonderie e le industrie meccaniche stavano cominciando ad affiancarsi a quelle tessili che, fin dal Settecento, avevano dato fama e ricchezza alla cittadina. La Manchester d’Italia, così veniva chiamata Busto Arsizio: a metà del XIX secolo qui era concentrata quasi la metà della produzione tessile lombarda, soprattutto cotonifici, e nel 1862 si contavano ben 51 aziende tra filature e tessiture, i cui proprietari si sarebbero fatti presto costruire ville lussuose, che con le loro fattezze Liberty impreziosiscono ancora oggi la cittadina. È facile immaginare che Ferramenta Marcora – così si chiamava l’impresa di Roberto – facesse parte dell’indotto di questo panorama imprenditoriale così prospero. Dei suoi figli, Giuseppe – che è il bisnonno del nostro interlocutore – farà fare il salto di qualità all’attività famigliare. Ha il piglio del vero imprenditore, è deciso, innovatore, lungimirante: nel primo decennio del Novecento compra una vecchia linea di trafilatura della FIAT e dà il via alla produzione a freddo di semilavorati in ferro e in acciaio. Non si fermerà lì: negli anni Trenta installa due forni per la produzione di getti d’acciaio e un laminatoio a passo pellegrino per produrre tubi senza saldatura (nel caso qualcuno si stia chiedendo cosa c’entrano i pellegrini con un impianto per la lavorazione dell’acciaio, ricordiamo che in questo procedimento due cilindri scanalati, tra i quali viene fatto passare il tubo che si vuole allungare, vanno «avanti e indietro» ripetutamente, proprio come i pellegrini che coprono più volte lo stesso percorso, ogni volta con un’andata e un ritorno). Lo affiancano i figli: in realtà la storia dell’azienda nemmeno contempla le due femmine («a quei tempi – dice Andrea – alle donne difficilmente si faceva “mettere il naso” nelle aziende di famiglia, soprattutto in un settore tradizionalmente maschile»), il primogenito è Roberto (nonno di Andrea), poi ci sono Franco e Vittorio. I primi due entreranno presto nella compagine aziendale, Roberto con ruoli amministrativi e Franco curando la parte tecnica, mentre Vittorio, il più piccolo, sarà quello meno presente, ma per una ragione ben precisa: internato in campo di concentramento durante la guerra, tornerà provato nel fisico e nell’anima e proprio per questo motivo l’integrazione nell’impresa gli risulterà più difficile. Del nonno, Andrea ha ricordi molto sbiaditi perché è mancato quando lui era ancora bambino: l’immagine che conserva nella sua memoria è quella di «un uomo d’altri tempi, molto elegante, sensibile alla bellezza delle cose», una caratteristica che ha valicato i decenni e oggi si respira nell’architettura «pulita» della palazzina degli uffici, negli spazi invasi dalla luce, nell’attenzione  per i dettagli d’arredo (bellissima la cassaforte d’antiquariato in sala riunioni), finanche nella presenza delle tante piante che con la loro esuberanza testimoniano una cura assidua e sapiente.

Roberto e Giuseppe Marcora.

Ma torniamo alla storia: in quegli anni – siamo intorno al 1950 – l’azienda si arricchisce di un laminatoio a caldo, l’acciaieria verrà dismessa una ventina di anni dopo, quando il nuovo piano regolatore di Busto Arsizio la «espellerà» dalla cittadina nel cui centro alla fine era venuta a trovarsi non per una follia progettuale, ma semplicemente perché Busto nel tempo aveva continuato a espandersi inglobando ogni volta ciò che prima era periferia. Ben presto Roberto e Franco si dividono le due “anime” dell’impresa. Infatti, alla produzione metallurgica (Metallurgica Marcora) era sempre rimasta affiancata la Ferramenta Marcora il cui core business (come si dice adesso) era il commercio di minuterie e tubi: Roberto si prenderà la prima mentre Franco la seconda creando cosi due rami imprenditoriali, distinti tra loro, che passeranno ai rispettivi discendenti.
In particolare Roberto ha due figli: una femmina (a quanto pare non interessata alla siderurgia) e il padre di Andrea, Giuseppe che è l’attuale Presidente. È sotto la sua direzione che viene deciso il trasferimento dal vecchio sito in Busto Arsizio a Cuggiono: «Nel 1995 qui non c’era niente, solo campi – racconta Andrea – era considerata una zona depressa e proprio per questo motivo il sindaco di Cuggiono aveva promesso incentivi a quegli industriali che avessero deciso di impiantarvi le loro realtà produttive». Il padre di Andrea raccoglie l’invito, e la sfida, visto che in quel momento storico la tentazione era casomai quella di spostarsi verso le grandi città, Milano in primis. La costruzione della nuova sede sarà anche l’occasione per un rinnovo totale degli impianti che saranno destinati, negli anni che seguono, esclusivamente ai prodotti lunghi laminati a caldo, una scelta che ha gettato le basi di una leadership che nel giro di una ventina di anni e poco più si è rafforzata in Italia e all’estero con un fatturato che oggi sfiora i 45 milioni di euro e una produzione che si aggira sulle 45.000 tonnellate, destinate al 75% all’estero, per lo più nel settore automotive, e un 25% all’Italia. Il loro è un mercato che Andrea definisce «di nicchia» dove si deve assicurare l’assoluta qualità del prodotto senza mai perdere in flessibilità: «È così che riusciamo a essere competitivi nei confronti di aziende molto più grandi di noi. Flessibilità che poi significa nella pratica essere in grado di gestire le richieste del cliente in tempi molto stretti, addirittura da una settimana con l’altra».

Metallurgica Marcora in una cartolina pubblicitaria degli anni Cinquanta quando l’azienda si trovava ancora a Busto Arsizio.

Andrea si sta muovendo bene sul campo da gioco imprenditoriale, con un’energia, una chiarezza di visione e una decisione che ai suoi coetanei spesso difettano. Il suo colpo vincente è l’innovazione: «Da sei anni a questa parte (da quando cioè ha cominciato a lavorare nell’azienda famigliare, n.d.r.) tutti i nostri investimenti inerenti al 4.0, tutti gli ammodernamenti degli impianti sono stati spinti da me e dal nostro direttore tecnico. L‘ultimo grosso intervento risale a due anni fa: abbiamo cambiato l’intera area di taglio e impacchettamento delle barre d’acciaio. Un investimento che ha rivoluzionato la modalità di produzione: operazioni che prima erano manuali oggi sono automatizzate e tracciate con un miglioramento nella produttività e nella sicurezza, e senza che questo abbia comportato l’eliminazione di ruoli operativi. Le persone che svolgevano quel tipo di movimentazioni, lo fanno ancora ma in maniera diversa». Certo, come sempre accade quando vengono introdotte delle novità, la prima reazione è stata di resistenza sospettosa: «Dicevano che il nuovo impianto non funzionava bene, che prima era meglio, ma “parlava” l’abitudine a lavorare in un certo modo. Bisogna poi considerare che molti dei nostri operai non sono più giovanissimi e si aggiungeva quindi anche la “scocciatura” di dover imparare a utilizzare macchine di complessità maggiore. Comunque sono ormai passati due anni e il cambiamento è stato metabolizzato». Andrea guarda con attenzione anche all’AI, il cui utilizzo è in fase di studio da parte delle grandi aziende di automazione e dei produttori di grossi impianti, ma «ancora non vedo applicazioni in impianti siderurgici come il nostro».

Si potrebbe attribuire la sua sicurezza a una naturale dimestichezza con il business di famiglia e in parte è così. Tuttavia la passione di Andrea, tennis a parte, non erano «le barre e i rotoli di ferro», ma il design e difatti, quando si è trattato di scegliere l’università a cui iscriversi dopo il liceo, la scelta non è caduta sul Politecnico con Ingegneria, ma sullo IED di Milano con Design del prodotto e dopo la laurea il primo posto di lavoro è stato il Gruppo Poltrona Frau: «Ho lavorato per un anno e mezzo con Giulio Cappellini, il figlio del fondatore e art director del marchio ed è stata un’esperienza positiva e molto interessante che mi ha anche consentito di conoscere tante archistar, ma che chiaramente non mi ha preparato al mondo in cui adesso lavoro. Noi vendiamo il nostro acciaio all’automotive, all’edilizia, all’oleodinamica, si tratta di un prodotto dove il meraviglioso lato estetico del design proprio non c’è, siamo un mondo b2b spinto». Con il tempo l’idea di affiancare il padre alla guida dell’azienda si è fatta strada e oggi Andrea è contento della sua scelta così come del percorso di studi intrapreso perché «i laureati in ingegneria o economia nel mondo dell’acciaio non mancano di sicuro, mentre di designer non ce ne sono così tanti» quasi a sottolineare che alla fine questo eclettismo rappresenti una marcia in più.

Tuttavia il passaggio generazionale è ancora lontano dall’essere compiuto, al contrario, afferma Andrea, è un percorso in atto, lungo e non facile, nel quale si stanno facendo supportare anche dall’esterno: «Diciamo che fino a non molto tempo fa l’organigramma interno era, come lo definisco io, “a stella”, nel senso che mio padre era al centro di tutte le funzioni che, dall’approvvigionamento di materia prima ai nuovi investimenti, facevano capo a lui. D’altronde ai tempi era stato inevitabile perché, dopo la separazione dai cugini, si era trovato da solo a dover gestire l’impresa. Oggi questa modalità va scardinata perché in caso contrario io e mio fratello non riusciremo a ritagliarci un nostro ruolo. Ovvio che sia un’operazione gravosa anche dal punto di vista psicologico perché alla fine è una sorta di tradimento di un metodo che sarà vecchio però ha funzionato e sta continuando a funzionare, un tradimento anche dei collaboratori che negli anni si sono adoperati per portare avanti le cose, ma lo si fa per essere sempre più performanti e adeguati ai tempi». Come non ricordare la celebre frase del cibernetico inglese Stafford Beer «absolutum, obsoletum» traducibile come «se funziona, è obsoleto»…

Una foto di Metallurgica Marcora nei primi decenni del Novecento.

E certo Andrea non si affacciato all’azienda con presunzione: i primi due anni se li è fatti in produzione, «tuta blu e caschetto», guardato a vista dal responsabile della produzione e dal direttore tecnico di stabilimento, dopodiché ha girato per tutti gli uffici e i reparti, dall’amministrazione alla qualità, dall’approvvigionamento alla logistica e adesso lavora nel commerciale con l’obiettivo di trovare, insieme al team, nuovi sbocchi di mercato. Il suo stile di management è, per usare le sue parole, pacato, ma io aggiungerei modesto: «parlo con tutti e con tutti ho un buon rapporto anche perché so di avere un’esperienza minore rispetto a chi mi circonda e sono consapevole di dover ancora imparare molto. Anche per questo motivo non prendo mai di petto nessuno, preferisco il dialogo che tra l’altro alla lunga porta a risultati migliori. E poi, stando in Confindustria, ne ho visti parecchi uscire alla fine dall’azienda di famiglia per via degli screzi che avevano contribuito a creare».

Innovazione significa anche essere proattivi nell’inserire in azienda nuove figure adeguate alle svolte che sempre più si richiedono alle imprese, prima fra tutte quella legata alla sostenibilità: «Da quando sono entrato mi occupo anche di questo aspetto. Nel breve assumeremo un HSE manager – finora ci siamo sempre affidati a consulenti – e così potremo arrivare a redigere il bilancio di sostenibilità che a breve sarà obbligatorio, ma che noi vorremmo anticipare. Anche riguardo alla carbon footprint vogliamo adottare un approccio differente: la misuriamo, ma la nostra intenzione non è solo quella di presentare dei numeri, ma impegnarci concretamente per migliorarla anno dopo anno. Per questo motivo stiamo investendo in fonti di energia alternative come i pannelli fotovoltaici». C’è ovviamente la consapevolezza di essere un settore energivoro: «per essere chiari, anche se coprissimo tutto il tetto dello stabilimento di pannelli, ricaveremmo solo il 15% dell’energia che consumiamo. Tuttavia per noi è importante anche uno “zero virgola” in più, che tra l’altro aiuta a connotarci nel modo che vorremmo, come un’azienda innovativa e sostenibile, attenta all’ambiente e alla comunità».

In Metallurgica Marcora il turnover è basso, ma, dice Andrea, «siamo sempre alla ricerca di giovani da far crescere internamente», impresa difficile perché i diplomati degli Istituti Tecnici o Professionali sembrano non essere attratti da questo lavoro: «preferiscono Milano oppure la fabbrica “pulita” quando non addirittura l’ufficio. Il laminatoio a caldo è ancora un luogo dove ci sono olio, grasso, acqua e scaglia, nonostante noi si tenga il nostro come un gioiellino. Credo che questa immagine di “ambiente sporco” incida nella mancanza di interesse da parte dei giovani. Proprio per farci conoscere meglio aderiamo costantemente alle iniziative rivolte al mondo della scuola della Confindustria, di cui sono Vicepresidente del Gruppo Giovani per la Provincia di Varese tra l’altro con delega all’education, come per esempio il Talent Day, un incontro annuale con i ragazzi delle superiori o gli appuntamenti con gli universitari della LIUC di Castellanza».

Di quest’ultima la famiglia Marcora è stata fondatrice insieme ad altri imprenditori locali su iniziativa dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese. L’università, celebre progetto di Aldo Rossi,  sorge negli spazi dell’ex Cotonificio Cantoni, sede dislocata dell’headquarter storico di Legnano, costruita nel 1845, ampliata agli inizi del Novecento e ancora negli anni Trenta per poi essere dismessa negli anni Ottanta quando fallì il tentativo di risanamento dell’azienda da parte della Inghirami che l’aveva acquisita: ne occupa la metà circa e per quanto concerne la parte restante c’è il progetto di installarvi, dopo il recupero già approvato dal consiglio comunale, il nuovo quartier generale di Confindustria. Il progetto però è più ambizioso: l’integrazione tra le due realtà, la LIUC e la Confindustria varesina, andrà a costituire un vero e proprio hub del «sapere e del saper fare» con spazi per l’incubazione di startup e di imprenditorialità giovane, strutture per i corsi ITS di recentissima istituzione e centri servizi per le imprese sul modello di ComoNext e di H-Farm di Venezia. «Varese non brilla per presenza di startup, il fermento imprenditoriale è basso – racconta Andrea – anche perché soffriamo della vicinanza di Milano che dà ai giovani l’impressione di maggiori opportunità. Questo nuovo progetto intende proprio rilanciare quella cultura produttiva del territorio che affonda le sue radici nell’Ottocento e che rappresenta una parte importante della storia economica del nostro Paese. L’idea che lo guida è di offrire ai giovani la possibilità di essere aiutati nei loro progetti imprenditoriali, anche a livello finanziario, e di metterli in contatto con aziende di vari settori, dal tessile all’aerospace. A mio parere, rispetto a una realtà milanese sempre molto affollata qui ci saranno più chance di essere notati, di “spiccare il volo”».

Dai suoi incontri con ragazzi che hanno giusto una manciata di anni in meno rispetto a lui, Andrea riporta la sensazione di un grande spaesamento: «D’altra parte quando sei all’università è difficile che tu abbia le idee chiare su cosa vuoi fare. E in ogni caso è cambiato anche il modo di rapportarsi al lavoro, oggi è più fluido, fai una cosa, ma domani magari ne farai un’altra, oggi sei a Milano e domani a Hong Kong. Non c’è più l’attaccamento al lavoro, e al posto di lavoro, che c’erano una volta, vengono privilegiate quelle scelte che consentono di muoversi nel mondo rispetto a posizioni magari più remunerative, ma più sedentarie. E in ogni caso il lavoro che appaga ma che “risucchia” la vita privata non lo vuole più nessuno».

Difficile capire quanto di questa mentalità sia condivisa da Andrea: è molto giovane, ma proiettato decisamente in un’altra dimensione rispetto ai suoi coetanei. Perfino la sua immagine è controcorrente, cosa di cui lui sorride: «mi dicono: sei un ragazzo che si veste come un signore di settant’anni, ma io sono così, mi piace anche la tradizione, vivo sempre anche un po’ del passato». Inevitabile che la più che centenaria storia di Metallurgica Marcora rappresenti per lui un punto di orgoglio. Ma non si tratta solo di questo: «Avere radici così profonde ti dà dei punti di riferimento, dei termini di confronto. Anche solo entrare nella stanza in cui ci troviamo e vedere alle pareti le foto dei nonni o quella dell’azienda ai primi del Novecento quando era arrivata a impiegare 300-400 persone, è una spinta quotidiana a fare e a voler fare di più».

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