Heritage al femminile: Workout magazine incontra Gianfranca Bellicini di Ferriere Bellicini Srl
C’è una divertente filastrocca di Gianni Rodari che si intitola Gli odori dei mestieri nella quale l’autore accosta ogni lavoro a un aroma particolare, la noce moscata per i droghieri, l’olio da macchina per i meccanici, “sanno di terra i contadini/di vernice gli imbianchini/sul camice bianco del dottore/di medicine c’è un buon odore”. Mi è ritornata alla mente sentendo Gianfranca (ma tutti la chiamano Kikka, e badate bene alle tre kappa barricadere) Bellicini, CEO delle ferriere omonime di Berzo Inferiore (BS), raccontare di suo padre che quando stava male si faceva portare in auto nel reparto produttivo, «non riusciva neppure a scendere, ma abbassava i finestrini e respirava l’odore del metallo incandescente. È qualcosa che non si può capire se non l’hai mai sperimentato, è una scarica di adrenalina pazzesca».
Anche Kikka, come suo padre, è innamorata dell’acciaio. Più che materia prima della sua attività, è un compagno di vita, quasi una controparte, ora da blandire ora da domare, ma con la quale relazionarsi, si potrebbe dire, da pari a pari: «L’acciaio è come le persone, solo se le scaldi le riesci a plasmare. Il freddo invece blocca, raggela». E di calore lei non manca: la sua franchezza – che pure c’è – non è mai rude, le sue affermazioni non suonano mai arroganti, anche se non sono per niente anemiche, anzi.
È la terza generazione di una famiglia della Valle dei Magli, quell’area della Valcamonica che la ricchezza di ferro e di acqua rese, fin dal Medioevo, collocazione ideale per le fucine dalle quali uscivano pacifici utensili per l’agricoltura così come le armature per le guerre: si stima che nel 1600 qui ci fossero più di un centinaio di magli attivi.
Terra di fabbri, proprio come probabilmente era il bisnonno di Kikka e certamente suo nonno Andrea che però nei primi anni Cinquanta fa il salto di qualità comprando una prima gabbia di laminazione: inizia così l’attività di barre per cemento armato. Uomo di altri tempi, padre di una famiglia numerosa – nove figli – della quale solo i maschi potevano ambire a seguirlo nella professione perché le femmine erano relegate ad altri compiti, quelli considerati muliebri per eccellenza. E in effetti tutti i figli maschi di Andrea Bellicini, tranne uno che sceglie la medicina, entreranno nell’attività, che decolla: al primo laminatoio ne seguono molti altri, in un’ascesa alla quale il padre di Kikka, Valentino, dà un contributo fondamentale. Ma purtroppo le storie di famiglia raramente sono prive di ombre: sorgono dei dissidi e Valentino decide di staccarsi dai fratelli e mettersi in proprio. Kikka è sobria nel narrare un capitolo che deve essere stato doloroso per il padre: si limita a sottolineare che quel homo homini lupus, che si potrebbe pensare essere vero tra imprenditori competitor, lui l’aveva sperimentato tra i famigliari stretti. Nella divisione dei beni a Valentino toccano un paio di laminatoi e da lì riparte «in solitaria». Le vicende successive, quasi un risarcimento da parte del destino, gli consentiranno di tornare a quella che è ancora oggi la sede di Ferriere Bellicini («qui dove mio padre aveva lasciato il suo cuore» dice Kikka): i fratelli di Valentino infatti a un certo punto falliscono e lui non ha esitazioni nel ricomprare la palazzina degli uffici e una parte dei capannoni di Berzo chiudendo un cerchio che si era spezzato molti anni prima. In quel momento Kikka, unica figlia, è già al suo fianco.
Vocazione? No, per nulla. Lei da piccola voleva fare il veterinario per poi cambiare idea, alle soglie della maturità classica, e spostarsi su giurisprudenza: la magistratura, più che il metallo, sembrava essere a quei tempi il suo obiettivo. Anche se, fin dall’adolescenza, le giornate delle vacanze estive erano sempre trascorse in azienda: «Papà mi metteva al centralino, così, diceva, avrei cominciato a memorizzare i nomi dei fornitori e dei clienti e a conoscere i dipendenti, “tanto la scuola è finita e non hai niente da fare”. Una volta mi ha fatto lavorare per tre mesi anche nell’ufficio fatturazione». Ma Kikka non è attratta da quel mondo. Giocano un ruolo negativo forse anche i rapporti tesi con il genitore – «mia madre, poveretta, era sempre in mezzo alle nostre discussioni e alle nostre liti» sorride –, e in ogni caso per lui, con la visione tipica di un’altra generazione, la figlia non può essere l’erede: è femmina e le femmine non lavorano in una ferriera, punto. Non aveva fatto i conti con le casualità della vita…
Kikka ha ventun anni, vive a Milano, studia in Statale («Papà avrebbe voluto la Cattolica, ma io non avevo nessuna intenzione di presentare un certificato di battesimo per fare l’Università») e ormai torna a casa solo saltuariamente. Un giorno riceve una telefonata della madre: Valentino è ricoverato in ospedale con tre emboli in circolo, è grave e si teme per la sua vita. Nelle ore successive le condizioni miglioreranno, ma si parla di una degenza molto lunga, almeno due mesi. L’azienda non può essere lasciata senza una guida e c’è solo lei a poterla assumere: «Ricordo che sono entrata nel suo ufficio, ho avvicinato una sedia alla scrivania e mi sono detta: e adesso? Non potevo far altro che rimboccarmi le maniche». Kikka riconosce la fortuna di aver avuto a fianco, in quei durissimi momenti, dei collaboratori fidati e competenti così come di essersi potuta appoggiare alla rete di altri industriali della siderurgia che più che competitor erano per suo padre degli amici. Anche perché lui «era molto benvoluto, assolutamente amato da tutti».
È un battesimo di fuoco che però le schiude un mondo: «Facevo quello che mi sembrava meglio e vedevo che ci riuscivo, anche se con un’impronta completamente diversa da quella di papà. E capivo anche che quel lavoro, soprattutto la parte commerciale, mi piaceva davvero». Quando il padre, una volta ristabilito, torna in azienda resta sorpreso: le cose sono andate avanti, nessun disastro. Una bella soddisfazione per Kikka che intanto, pur avendo fatto un passo indietro tornando agli studi di legge, si sente però incerta per la prima volta: la ferriera l’attira, la lucida intelligenza degli imprenditori del settore che ha frequentato l’affascina, «le mie amiche parlavano di cantanti e io pensavo a Brunori, a Gozzi, al loro carisma, le mie amiche devono aver pensato che avessi qualche problema!». Non è difficile intuire come va a finire: la magistratura farà a meno di lei.
L’inizio non è stato comunque facile: molto giovane, donna, in un ambiente maschile e duro in tutti i sensi. Inevitabile che qualcuno abbia provato a «intortarla», come dice Kikka ridendo. Ancora una volta la rete della siderurgia «amica» le dà una mano: «erano gli amici di papà e io restavo “la figlia di”, sicché ero quasi coccolata, sentivo tutti molto paterni nei miei confronti, non paternalistici, attenzione. Non era quel tipico atteggiamento, un po’ irritante, delle persone più grandi che, guardando una ragazza, si dicono e ti dicono “Adesso ci penso io”, no, era lo stesso affetto e rispetto che provavano per mio padre che riversavano anche su di me». E comunque ormai Kikka ha dimostrato a tutti che ci sa fare, non si lascia spaventare dai tecnicismi, è preparata, non si fa, dice, «mettere al muro». Afferma di avere una testa «maschile» e ci spiega cosa vuol dire: «Le donne tendono in genere a superanalizzare, a vivisezionare i problemi e così facendo non solo li ingigantiscono, ma si rallentano nella ricerca della soluzione. Gli uomini sono più diretti, se hanno un problema prendono velocemente una decisione»: lei è più così.
Diverso invece il discorso sul suo stile di management: Kikka è convinta che esista una conduzione «al femminile» la cui caratteristica principale è l’empatia. A suo parere le donne vanno più in profondità nel loro rapporto con i collaboratori inglobandone anche la vita privata, la famiglia, gli affetti: «chi lavora con me, se ha un problema anche personale, viene a parlarmene nella sicurezza di trovare ascolto e aiuto. Agli interessi economici cerco di anteporre quelli delle persone». Non era così con suo padre, sanguigno, ruvido nella comunicazione pur nel rispetto degli altri. «Ma io vado oltre, non scavalco mai la scala gerarchica, non mi sognerei mai di premiare o rimproverare qualcuno che non riporta direttamente a me. Mai ho alzato la voce in reparto, se devo riprendere qualcuno per qualcosa lo faccio con calma e a porte chiuse». E forse femminile è anche l’attenzione all’aspetto del posto di lavoro: «Mi prendono in giro perché fornisco regolarmente tutti di carta cucina e sgrassatore, ma poi capiscono che l’ordine e la pulizia sono essenziali perfino in un laminatoio. Anche questo è rispetto per gli altri».
Di donne in Ferriere Bellicini ce ne sono proprio poche: tre. Kikka se ne dispiace: «è un problema culturale, in Italia le donne non vogliono fare certi lavori, diversamente da quanto accade invece all’estero. In un laminatoio danese per esempio ho visto più di una donna sui pulpiti di comando, magari con un’orchidea a fianco». Eppure questo non è più un lavoro «brutto, sporco e cattivo» come poteva essere un tempo e nemmeno ci vogliono più i muscoli, conta di più saper maneggiare un pc. Questo potrebbe far pensare che i giovani ne vengano attratti, ma non è così. O meglio, i giovani vengono in ferriera, ma poi non sempre restano. Qui il pensiero di Kikka è tranchant: «li trovo molto mercenari, sono interessati principalmente alla retribuzione, quindi se trovano una realtà disposta a dar loro 100 euro in più al mese se ne vanno… tranne poi magari ritornare. Ecco, in questo caso esce tutta la mia intransigenza: se ti sei dimesso, qui non rientri più. È un peccato perché i giovani, con la loro intelligenza intuitiva, la loro prontezza, sarebbero molto utili anche in un settore come il nostro. E vorrei aggiungere che qui gli aumenti di stipendio non si ha nemmeno bisogno di chiederli perché si trovano già in busta paga, ovviamente se uno li merita e se l’azienda in quel momento se lo può permettere. Anche le prospettive di carriera sono molto buone, sempre che ci si voglia assumere delle responsabilità». Kikka non risparmia critiche neppure su questo aspetto lamentando la poca predisposizione dei ragazzi a guardare avanti e la tendenza a «sedersi», un atteggiamento per lei impensabile: «all’inizio mi arrabbiavo di più, mi veniva voglia di chiedere: ma dov’è la tua ambizione? Dove il tuo carattere, il tuo entusiasmo? Per me sarebbe quasi angoscioso vivere il lavoro in quel modo».
Difficile capirne le cause, ma Kikka non rifugge dall’ipotesi che alla base possa esserci anche una comunicazione e un rapporto con il territorio in qualche modo insufficienti e proprio per questo insieme ad altre realtà industriali locali ha fondato un’associazione, dal nome – Comunità Pratica – già programmatica: si tratta di scambiarsi le proprie skill, le proprie best practice riguardo al welfare, alla beneficenza, alla salvaguardia dell’ambiente, al rapporto con il mondo della scuola, facendo sì che ognuno possa attingere dall’altro idee e spunti. Un modo per mostrare e dimostrare che ci si prende cura della propria gente, della propria terra e così facendo anche alimentare un’attrattività che per un’azienda è vitale. Da Kikka questa cura è intesa in modo letterale, come supporto alla salute: «Sponsorizzare la “squadra di pallavolo” va bene e lo facciamo, ma ciò che sta più a cuore alle persone è la propria salute. Da qualche anno sosteniamo IEO e con i loro medici, coinvolgendo il Comune, abbiamo da poco organizzato un incontro, aperto alla cittadinanza, in cui abbiamo parlato di prevenzione dei tumori gastroenterici, ne organizzeremo sicuramente altri su altre tematiche sempre inerenti alla prevenzione oncologica. In essi diamo indicazioni molto elementari, dirette, e forse anche per questo motivo quello appena passato ha riscosso una risposta e un interesse straordinari. Inoltre nei prossimi mesi, insieme alla Fondazione Carolina Zani, porterò in azienda, per tutti i dipendenti che vi aderiranno, uno screening sul melanoma, oggi in aumento a fronte purtroppo della grande difficoltà di ottenere una visita dermatologica con il SSN in tempi ragionevoli».
Anche sulla sostenibilità Kikka ha opinioni nette: «Per me sostenibilità significa in primis avere la coscienza a posto, cioè controllare in modo scrupoloso tutto quanto attiene alla sicurezza e all’ambiente e in effetti noi abbiamo una persona dedicata a questo compito che tra l’altro, proprio perché “rompe le scatole”, suscita spesso mugugni all’interno. E qui si arriva al secondo punto: sostenibilità per me è un equilibrio tra ciò che si riceve e ciò che si dà. Per questo motivo è necessario anche un cambio di mentalità da parte di tutte le persone che lavorano in azienda: non solo io, ma tutti dobbiamo essere impeccabili nei nostri comportamenti. Banalmente, non puoi gettare la bottiglia di birra in vetro nel contenitore della carta. Ci è capitato di essere attaccati sui social su questi temi, anche in modo pesante, ma a mio parere tutto è frutto dell’ignoranza, cioè del non conoscere cosa facciamo. Senza dimenticare che l’acciaio è l’emblema dell’economia circolare perché si ricicla interamente, è sostenibile per eccellenza».
Dal 2014 Ferriere Bellicini è partner di Duferco Italia Holding in un rapporto societario al 50% che Kikka non esita a definire «meraviglioso» per la trasparenza e la fiducia reciproca che lo animano: «Io so che loro ci sono, ma se non ho una necessità vado avanti da sola. Ovviamente ci si incontra nei consigli di amministrazione, ma nel caso di un dubbio, se devo prendere una decisione di una certa importanza, se ne discute sempre insieme. Mi sento appoggiata e mi rispecchio molto nel loro modo di agire, oggi non riuscirei più a immaginarmi senza di loro al mio fianco». La spinta a questo passo è venuta da una riflessione, molto razionale, sul futuro: Kikka, come già detto, è figlia unica e ha a sua volta due figli, il maggiore ha già intrapreso medicina mentre il minore è ancora adolescente. Inevitabile pensare alla necessità di tutelare l’impresa in ogni circostanza, anche in quelle che a nessuno piace ipotizzare. E con Duferco c’era già un rapporto collaudato: «Loro hanno l’acciaieria, io il laminatoio. Da loro ho sempre comprato la materia prima e quindi a un certo punto è venuto spontaneo il pensiero che io avrei potuto avere un “polmone” sull’acciaio e loro avrebbero potuto verticalizzare dalla mia parte». Ragionamento lucido, che poggia però su una base affettiva: «Con loro mi sento come se fossi in famiglia perché la famiglia non è dove nasci, ma dove cresci. E io sono cresciuta in quella comunità dell’acciaio, che è un mondo alla fine piccolo piccolo, dove tutti si conoscono… Quando io e Antonio Gozzi, CEO di Duferco, abbiamo concluso l’accordo, lui mi ha dato un bacio in fronte. Quello per me ha contato più di una firma su un pezzo di carta».
La cosa di cui è più fiera? «Essere riuscita in tutti questi anni a tenere sempre salda sotto i piedi la tavola del surf anche se a volte ci sono state onde da tsunami». Il suo più grande rimpianto? «Aver dedicato poco tempo ai miei figli. In più di un momento non sono riuscita a intercettare i loro disagi, le loro paure. I sensi di colpa che mi sono portata dietro per questo motivo mi hanno poi portato a dire tanti sì anche quando avrebbero dovuto essere no. Ma se rovescio la medaglia, mi dico che forse così facendo ho cresciuto dei ragazzi più autonomi rispetto ai loro coetanei».