Le imprese familiari costituiscono la spina dorsale dell’economia italiana. Questa affermazione, riportata nel sito dell’AIDAF, l’Associazione Italiana delle Aziende Familiari, sembrerebbe quantomeno spericolata alla luce delle acquisizioni, riportate puntualmente dai media, di brand nazionali da parte di gruppi stranieri e che spesso danno l’impressione di una triste emorragia del patrimonio italiano di saperi e competenze. Eppure è una realtà supportata da numeri che fanno riflettere: il 65,7% della popolazione delle aziende italiane con fatturato superiore a venti milioni di euro è familiare e se si allarga la visuale alle imprese con un fatturato inferiore si stima che la percentuale possa salire fino all’85%. Non solo, l’Osservatorio AUB (AIDAF, Unicredit, Bocconi), che raccoglie e mette a disposizione di imprenditori, manager e istituzioni informazioni dettagliate sulle aziende italiane a proprietà familiare con un fatturato pari o superiore alla cifra sopra indicata, documenta come queste imprese creino più occupazione (+20,1% negli ultimi sei anni contro, per esempio, il +14,4% delle cooperative e dei consorzi), crescano più delle aziende non familiari, registrino una redditività più elevata e un rapporto di indebitamento più basso. E allora i passaggi di mano? Sì, ci sono stati, ma meno di quanti si possa pensare: nel periodo 2011-2018 l’acquisizione di aziende familiari con fatturato pari o superiore ai 20 milioni di euro è stata del 3%. Tante? Poche? Un numero isolato a volte è poco indicativo. Sta di fatto però che le aziende familiari sembrano avere solidità ed energia sufficienti per portare avanti la loro storia (Sintesi dei risultati dell’Osservatorio AUB – XIII edizione).
Ci si potrebbe chiedere che cosa queste cifre abbiano a che fare con il territorio. Per capirlo bisogna tornare a quel 18 febbraio 2015 quando tutta Alba si raccoglie attorno al duomo dove si celebrano i funerali di Michele Ferrero: ci sono gli operai della fabbrica e gli impiegati, ma anche tanti cittadini che vogliono dare l’ultimo saluto all’imprenditore che, dicono, «ha fatto ricca la città». E questo legame, affettivo e lavorativo insieme, tra l’azienda e la terra dove è sorta e si è sviluppata riecheggia nelle parole del figlio di Michele, Giovanni, che ricorda come la Ferrero abbia «cambiato il contratto sociale tra capitale e lavoro», lo abbia trasformato in un patto di mutuo soccorso, creando un «sistema integrato al territorio, capace di creare ricchezza e di ridistribuirla». E aggiunge che mai, sotto la guida del padre, è stato pronunciato il termine «delocalizzazione».
Così è e deve essere in una sana cultura d’impresa: un radicamento forte nel territorio, un welfare che travalica il perimetro dell’azienda per espandersi a beneficio della comunità. Un atteggiamento che si ritrova più facilmente nelle imprese familiari, legate al luogo d’origine anche tramite un complesso di relazioni umane e sociali che rappresentano un vero e proprio patrimonio difeso nel tempo. E talvolta il radicamento è così forte da far tornare a rivivere ciò che sembrava spento per sempre: questo ci racconta la bella storia del pastificio Cuomo.
È a Gragnano che comincia nel 1820 l’avventura imprenditoriale dei Cuomo. In questa cittadina la produzione della pasta, soprattutto dei maccheroni, era importante già da due secoli, favorita da un clima particolarmente propizio all’essiccazione della pasta e dalla qualità dell’acqua sorgiva. Tre fratelli pastai, Antonio, Crescenzo e Nicola Cuomo, vedono crescere rapidamente la fama della loro produzione tanto che nel 1836 prendono in affitto dei mulini ad acqua per incrementare l’attività. Così intorno al 1840 un loro nipote, Nicolino Cuomo può aprire pastificio e negozio proprio nel centro della cittadina, in via Roma dove i maestri pastai da tempo insegnavano «l’arte bianca» e dove si trovava il palazzo della famiglia. L’attività del pastificio prosegue fino al 1936 quando Alfonso e Giacomo, allora a capo dell’azienda, devono partire per l’Africa dove è in corso la guerra d’Etiopia. Torneranno nel 1939, ma non riapriranno i battenti della loro impresa, si sentono anziani, il sogno iniziato un secolo prima è ormai appannato.
Facciamo ora un balzo in avanti di una sessantina d’anni e arriviamo, più precisamente, al 2001. Mariano Cuomo, figlio di Alfonso, cede alla nostalgia di quel mestiere che è stato per generazioni della famiglia e con la moglie Giuseppina decide di riprendere l’attività pastaia e di ridare vita allo storico brand riposizionandolo sul mercato. Tuttavia i più giovani esponenti della casata, Amelia e Alfonso, stanno pensando al loro futuro in modo completamente diverso. Nel 2013, anno fatidico per l’impresa e vedremo fra pochissimo perché, non vivono più nemmeno a Gragnano: Amelia è a Roma, affermata manager in un’agenzia di consulenza tra le più famose al mondo, Alfonso ha varcato la Manica e ha scelto Londra. Per uno di quegli strani scherzi che talvolta il caso gioca, ad Amelia, proprio nel 2013, viene affidato un incarico che la porterà per sei mesi a Napoli, un imprevisto ritorno a casa che le fa varcare nuovamente le porte dell’antico pastificio, rimasto in piedi dopo la chiusura di tanti anni prima. Ed è proprio lì, tra le pietre che hanno visto la fatica dei suoi antenati, che Amelia prova una sensazione, che lei definirà “meravigliosa”, di benessere e gioia, che la porta a considerare l’idea di condividere il sogno del padre e recuperare la tradizione di famiglia. Così è stato: dopo anni di durissimo lavoro che vedono Amelia affiancata dal fratello Alfonso, anche lui tornato a Gragnano, oggi l’ottima pasta trafilata al bronzo ha riportato il nome dei Cuomo nell’albo d’oro dell’agroalimentare. Ma non è finita qui. Amelia ha una duplice intuizione: da un lato che la famiglia ha una secolare storia alle spalle che ne fa i più antichi pastai non solo di Gragnano, ma anche al mondo, e che merita perciò di essere raccontata, dall’altra che la pasta è cibo, ma non solo, è emozione, piacere, experience da vivere. È così che nascono il museo, il bistrot e il B&B, ognuno veicolo di relazione con il pubblico che ha la possibilità di “vivere” non nei luoghi, ma i luoghi di questa storia. Ecco, da qualunque parte si cominci a raccontare il pastificio Cuomo, si torna sempre al territorio: d’altronde, come dice Amelia, «è il senso di appartenenza che ci ha portati a casa».
Ma cosa significa per lei la parola “territorio”? La sua risposta è colma di orgoglio affettuoso:
«Il territorio è l’elemento caratterizzante del nostro progetto di recupero della storia familiare, da cui non si può prescindere in quanto rappresenta l’identità di Pasta Cuomo che sul territorio di Gragnano esiste da più di 200 anni. Il territorio ci ha reso un’azienda unica perché la nostra azienda non avrebbe lo stesso prestigio senza la città di Gragnano che è stata costruita ed adattata nel tempo sull’economia pastaia (in passato l’80 % della popolazione lavorava in uno dei cento pastifici esistenti) e senza il profondo legame che lega la popolazione e il territorio che grazie all’acqua pura proveniente dalle sorgenti dei Monti Lattari, a quel microclima unico al mondo, all’architettura, alle maestranze locali ha consentito di far riconoscere Gragnano come capitale della Pasta nel mondo!
Investire sul territorio per noi è stato importante perché ci ha permesso di creare una stretta relazione tra azienda e collettività in quanto Gragnano, essendo la città dei pastai, crea anche identificazione con il nostro prodotto. Dopo tanta fatica, oggi i nostri compaesani si congratulano con noi per lo sforzo fatto e per essere tornati appositamente nella nostra terra per donarle il nostro tempo, il nostro lavoro ed il nostro amore sfruttando la professionalità maturata negli anni in cui abbiamo lavorato e vissuto all’estero e lontano da casa.
Infine il territorio, attraverso la sua storia e la sua tradizione, ha segnato il primato della nostra famiglia come unica superstite dell’economia pastaia senza soluzione di continuità generazionale: infatti, seppure ci siano stati 70 anni di interruzione, tutte le generazioni hanno prodotto pasta».
Ma ogni relazione deve essere bidirezionale: la famiglia Cuomo ha dato tanto al territorio, che cosa le è ritornato? Anche in questa seconda risposta Amelia dimostra tutto il suo attaccamento alla terra degli avi: «L’essere radicati nel territorio di Gragnano ci consente di avere quel valore aggiunto legato alla storia della pasta; e aver ottenuto il riconoscimento di famiglia di pastai più antica al mondo, con i nostri 200 anni di storia in questa terra che respira aria di pasta, ci rende molto orgogliosi.
Il nostro progetto non solo ha l’obiettivo di ricostruire la storia della nostra famiglia, ma si estende al punto di rendere Gragnano una destinazione turistica, meta dei food lovers e di tutti coloro che vogliono scoprire e vivere la storia del pastificio più antico al mondo. Il nostro progetto di valorizzazione enogastronomica turistico-culturale ci ha permesso di valorizzare la terra che occupiamo creando valore, ricchezza, lavoro e progetti che nella propria realizzazione diventano unici perché inimitabili. Il territorio ci ha dato la possibilità di creare pastificio, ristorante, B&B, museo ed experience che mi hanno consentito di declinare la pasta come progetto di sviluppo e non più solo come prodotto.
Il rispetto e l’amore che abbiamo avuto nei confronti della nostra terra, ci è stato restituito in termini di riconoscimento dell’eccellente lavoro a livello nazionale, internazionale ma principalmente, il più difficile, locale. Siamo riusciti a dare valore alla nostra terra che ci ha permesso di poter portare con onore il nome di Gragnano nel mondo attraverso il racconto della nostra famiglia, gragnanese da ormai 300 anni».
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