Cultura

Piccolo Lemmario della Cultura d’impresa: #ORGOGLIO

La notizia è rimbalzata su tutti i quotidiani: in Italia nei 9 primi mesi del 2022 sono state registrate dal Ministero del Lavoro oltre 1,6 milioni di dimissioni volontarie, in netto aumento (+ 22%) rispetto allo stesso periodo del 2021. Un fenomeno trasversale, che interessa sia le donne che gli uomini, e che merita qualche riflessione. Una di queste verte su quello che potremmo definire l’attaccamento emotivo al posto al lavoro, che è venuto meno in questi ultimi durissimi anni segnati prima dal Covid e poi dall’uscita dalla pandemia accompagnata però da licenziamenti e riorganizzazioni aziendali. È possibile che il ritorno a un mercato del lavoro più mobile spinga a cercare situazioni più promettenti in termini di carriera e salario, così come l’abitudine allo smart working e la possibilità di conciliare meglio in questa modalità vita privata e attività lavorativa crei i presupposti per un rifiuto a un ritorno a situazioni meno flessibili, certo è che sempre più si fatica a trovare soddisfazione, motivazione e orgoglio nell’appartenenza all’azienda in cui si lavora. Ed è questa evidenza che andrebbe analizzata, più del fenomeno della great resignation (così è stata battezzata negli Stati Uniti, visto che il fenomeno pare esteso su scale mondiale) che ne è una conseguenza: d’altronde, se un’azienda vale l’altra, perché non cambiare? Peccato che per un’impresa l’emorragia di profili lavorativi significhi perdita di know how, di saperi interni, che può essere difficile rimpiazzare.

Anche solo per motivi di interesse una buona cultura d’impresa dovrebbe quindi favorire l’orgoglio di appartenenza, un sentimento che può sembrare antiquato, ma che andrebbe invece rivalutato come spinta propulsiva dell’impresa stessa. Infatti la condivisione di valori, ideali, obiettivi sfocia nell’engagement, nell’impegno quotidiano che non viene più vissuto in termini puramente doveristici. Proprio su questo punto le nostre imprese dovrebbero fare un esame di coscienza. Lo spirito di appartenenza nasce solo da un clima interno sereno dove tutti si sentono ascoltati e rispettati, dove c’è attenzione per la realizzazione dei singoli in relazione alle loro capacità e per la loro formazione, dove nessuno prova timore a prendere decisioni o a esprimere un parere. Già nel 2002 Francesco Alberoni scriveva dalle pagine del Corriere della Sera che “Chiunque abbia responsabilità di comando deve prendersi cura di coloro che dipendono da lui, capirli, conoscerli, rendersi conto dei loro problemi, delle loro preoccupazioni, dei loro sogni, dei loro ideali, delle loro frustrazioni. Ma anche saperli guidare controcorrente, stimolarli, spingerli a diventare più creativi, più attivi, più coraggiosi”. Ci si domanda se la classe manageriale italiana non solo adotti questi comportamenti, ma creda fino in fondo alla loro efficacia. Eppure è solo in questo modo che si creano motivazione e immedesimazione all’interno dei team di lavoro.

Per non parlare della giusta retribuzione, un miraggio soprattutto per i giovani come segnalato nel luglio 2022 dal rapporto “Nuove professioni e nuove marginalità” del Consiglio Nazionale dei Giovani in collaborazione con E.U.R.E.S.: quasi la metà degli intervistati* (45,7%) ritiene di non essere retribuito adeguatamente in relazione al lavoro svolto, con un 36,3% che definisce la propria retribuzione “piuttosto inadeguata” e un 9,4% per cui invece è “del tutto inadeguata”. Il quadro è poi aggravato dalla maggior diffusione nei lavoratori under 35 del tempo parziale che inevitabilmente si associa a salari inferiori e al fenomeno della overeducation, cioè il disallineamento tra il livello raggiunto negli studi e il livello di competenze richieste, che umilia i tanti sacrifici fatti per arrivare a un diploma o a una laurea. Perché allora non essere pronti a saltare da un’altra parte, non importa quale, purché assicuri una posizione più dignitosa?

Problemi analoghi si riscontrano nel mondo del lavoro al femminile: i dati ISTAT (al 2018) indicano una retribuzione oraria media di 15,2 euro per le donne contro i 16,2 degli uomini **, una differenza salariale che non ha alcuna altra spiegazione se non un gap gender sedimentato da decenni di sciagurata consuetudine. Altri numeri, già noti, ma che vale la pena rispolverare di tanto in tanto: nel 2020 secondo i dati dell’Ispettorato nazionale del Lavoro quasi 33.000 donne hanno abbandonato il posto di lavoro tra dimissioni e risoluzioni consensuali e per 3 donne su 4 la motivazione è stata l’impossibilità di gestire il carico famigliare e gli impegni lavorativi, segnale di un mondo del lavoro scarsamente o per nulla flessibile. Senza contare che ancora oggi le donne faticano a fare carriera a parità, rispetto ai colleghi maschi, di curricula e di risultati effettivi, una disparità che alla lunga allontana, prima di tutto psicologicamente, dall’azienda in cui si lavora.

Si potrebbe continuare a lungo: c’è molto da fare da parte dell’imprenditoria italiana per riportare i dipendenti a quell’orgoglio di appartenenza che in passato la contraddistingueva. Non ti viene regalato, bisogna meritarselo, ma è qualcosa il cui ritorno è infinitamente superiore all’investimento.

* Indagine condotta a livello nazionale su un cluster under 35 costituito da professionisti nel settore digitale, lavoratori qualificati nel settore terziario, lavoratori del settore delle vendite e lavoratori non qualificati del settore terziario.

** lavoratori dipendenti retribuiti nell’intero mese di ottobre 2018 nelle imprese e nelle istituzioni pubbliche con almeno 10 dipendenti

 

Qui il link al rapporto completo Nuove professioni e nuove marginalità di Consiglio Nazionale dei Giovani

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