Lucio Pozzi

artista utopico

Ospite in Nutrimentum Gallery, il grande artista contemporaneo racconta una vita di arte e nell’arte, tra l’Italia e New York, dagli anni ’60 ai giorni nostri.

Leggi la trascrizione dell’intervista

Lucio Pozzi: Mi capitò a 26 anni di andare negli Stati Uniti e di fermarmi a New York. 
Per me, all'epoca, era un mito poter toccare di prima mano la realtà newyorkese.
Pian piano mi inserii, ma era difficile farmi accettare: New York era più provinciale all'epoca di quanto lo sia adesso. Per esempio, andavo in giro con le diapositive a chiedere alle gallerie se volevamo vedermi e mi dicevano: "Guardi, non posso vederla, ma vada là, che là espongono gli italiani"
Naturalmente avevo voglia di strangolarli, sul momento, però questa era New York all'epoca...
Adesso non succederebbe affatto.
Poi un amico incontrato a Roma mi fece incominciare a insegnare alla Cooper Junior, che è una scuola di architettura ed arte.
Non c'era posto per un giovane sconosciuto per insegnare arte, ma c'era la posizione di professore di storia dell'architettura e dell'arte moderna.
Io dissi: "Ho soltanto una diploma di liceo classico, non so nulla: non posso essere professore alla Cooper Union, dove migliaia di persone vorrebbero insegnare più qualificate di me". Questo amico mi disse di provare e vedere...
Così feci una conferenza con due schermi. Su uno schermo c'era Duchamp e sull'altro c'era Giorgio Morandi, che erano i due opposti. Più o meno li ho visti come due polarità dell'epoca moderna, nate più o meno nello stesso tempo e morte più o meno allo stesso tempo.
Mi avevano fatto vedere l'auditorium dove dovevo fare questa conferenza ed erano più o meno 200 posti. Quando mi presentai per fare questa conferenza c'erano solo uno studente, il proiezionista e il capo del dipartimento. Così incomincia a fare performance! Mi indirizzai con verve verso queste sedie vuote e feci la conferenza. E così mi ritrovai a essere l'unico professore di storia dell'arte e architettura moderna per la Cooper Union. Un piccolo 26enne, appena sbarcato in America, in un posto che più o meno tutti in America avrebbero voluto avere...
Smisi di dipingere. Alla Cooper Union non c'erano i libri che volevo e trovai soltanto un libraio che aveva i libri sul movimento moderno. Era un libraio protetto da Robert Motherwell e quindi aveva libri informati.
Mi feci una cultura andando ogni settimana dal libraio, facendo le mie diapositive, perché la Cooper Union non aveva diapositive di moderno, aveva solo l'impressionismo.
Imparai quello che già pensavo: legare lo sviluppo dell'arte contemporanea allo sviluppo del design e dell'architettura. E soprattutto legare lo sviluppo della creatività al contesto, invece di continuare a insistere su feticcio del testo, dell'oggetto unico, dell'architettura unica, dell'isola, dell'edificio isolato o del quadro isolato.
E così mi feci una cultura, per due anni. Quando poi fecero un dipartimento di storia dell'arte, li supplicai: "Guardate, io sono un pittore, a me interessa fare arte, non faccio solo pittura, datemi le lezioni di studio" E così incominciai a insegnare. Tutta la vita a New York ho insegnato e questo ha mantenuto vivo lo spirito e anche il portafoglio, perché ero ben seguito dagli artisti che venivano a studiare. Non insegno nulla, perché la mia arte è solo quella di osservare e descrivere in maniera articolata quello che vedo, cosa che nessuno fa. E non insegno mai, non esprimo giudizi e raramente perfino le opinioni.
E così mi feci la base di quello che penso e che seguo nella mia arte.

L.P.: Cito la Cooper Union così a lungo perché fu lì che nel 1965 e 1966 inventai quello che divenne per me la chiave di tutta la mia arte. Lo chiamo il gioco dell'inventario.
Diedi agli studenti un diagramma con tante piccole parole dentro, che riguardavano oggetti, processi, materiali, idee: tutte a uguale livello, messe in questa griglia. 
Il gioco a cui dovevano giocare consisteva nel portarmi ogni settimana un'opera d'arte fatta scegliendo a occhi chiusi 7 di questi ingredienti, mischiandoli in maniera creativa. Venivano fuori delle opere veramente notevoli!
Pensiamo che siamo nel '66, quindi a New York le formule del minimalismo, le formule della Pop art stavano solo incominciando e dire questo era strano, perlomeno.
E questo gioco dell'inventario è anche alla base del mio fare. Dopo tanti anni cominciai a tentare di semplificare per la gente il pensiero che io perseguo, con l'idea di chiamare ogni opera d'arte, quale e qualsiasi tipo sia, un "cocktail di ingredienti".
E in cosa consiste la differenza che fanno gli artisti? È come mischiano gli ingredienti. Per esempio, puoi mischiare cacao, zucchero e latte e fare un cioccolato caldo. Puoi mischiare il cacao con sale, un po' di latte e un po' d'acqua e fai la salsa amara per la bistecca messicana che si chiama "mole". Questo era l'esempio che usavo per dire come mischiando gli stessi ingredienti, il come e il dosaggio cambiano tutto.
Attraverso il gioco dell'inventario io vedo tutta l'arte contemporanea. Cioè tutti gli -ismi, tutte le formule diventano cose che io vedo con un telescopio rovesciato.
Tutto quello di cui si parla in arte mi annoia a morte perché sono tutte formule, che servono soltanto per fare un "mercatino" veloce o provocare sensazioni passeggere.
Invece, vedendo l'arte attraverso il gioco dell'inventario, io come spettatore divento molto creativo perché devo, quando guardo un'opera,  incominciare a elaborare: quali sono gli ingredienti che vedo?
Naturalmente gli ingredienti sono scelti a mio gusto, quindi diventa già soggettivo. Mi approprio della soggettività dello spettatore, che è tipica dell'arte
contemporanea, anche se negata.
Il gioco dell'inventario mi permette di vedere l'arte e anche di farla. Al punto che se io non ho idee, sono svuotato, posso mettere alcuni ingredienti sul tavolo e incominciare a giocare.
Ho perfino fatto pubblicamente, tante volte, una performance, moltissimi anni fa. Si chiamava "Paintings to order": davo un menù, come quello di McDonald's, in cui c'erano gli ingredienti che io avevo sul tavolo. La gente metteva le crocette su quello che voleva che mischiassi. E io lo mischiavo per loro, istantaneamente.
Di solito, la risposta era fantastica, a volte così tanto che finivo di lavorare a mezzanotte per completare tutti gli ordini. A volte anche tradito da certi collezionisti un po' gretti. Era permesso compilare una sola scheda per nome e così una famosa collezionista di New York usò il nome suo, quello di suo nipote, quello di suo marito, ecc... Si beccò sei disegni miei!
L'ho saputo solo dopo e mi fece una grande rabbia, perché non ha mai comprato un lavoro mio. Invece, siccome "Paintings to order" era 5 dollari al disegno...
Comunque il gioco dell'inventario, ho scoperto più tardi, corrisponde a delle grandi tradizioni. Hermann Hesse scrisse un libro, che si chiama The Glass Bead Game, Il giuoco delle perle di vetro.
Poi cominciando a cercare un pochino, mi sono innamorato della cultura ermetica del Medioevo e del Rinascimento, in cui fu inventata l'Ars Combinatoria, che era esattamente questo: combinare degli ingredienti per farne degli oggetti di rito e di pensiero, cercando di arrivare a delle dimensioni trascendenti. Io, invece, in maniera molto pragmatica, molto letterale, ho inventato, senza sapere dell'ars combinatoria del passato, il gioco dell'inventario: in maniera molto corrispondente al realismo un po' banale della nostra vita, ridurre tutti gli ingredienti senza finalità precise né spirituali né altolocate, né "bassolocate", niente, senza schemi.

L.P.: Una cosa che ho scoperto è che nel passato, per millenni, qualsiasi comunità, nella storia del mondo, aveva un accordo sullo scopo dell'arte. Poteva essere spirituale, magico, politico, letterario, quello che fosse... ma tutti erano d'accordo. Quindi quando qualcuno si avvicinava a un'opera d'arte di quella comunità sapeva decodificare molti dei significati che la sostenevano e poteva persino avvicinarsi a quella cosa misteriosa che ancora adesso si chiama qualità, anche se molti hanno paura di usare il nome. E questo perché non si può definire né misurare.
Allora ho scoperto che, verso il '300/'400, con lo sviluppo della banca moderna, proprio a Firenze, in Italia, incominciarono a rompersi le aspettative di trovare accordo sullo scopo dell'arte. L'arte incominciava a perdere gli scopi, per i quali erano tutti d'accordo. Questo è stato un inizio.
Però se per millenni uno di noi guardava quest'opera d'arte, tutta una serie di pensieri erano innati, ce li aveva insegnati la mamma, il papà, i nonni: tutta la struttura, tutta la comunità sapeva qual era lo scopo di quell'arte.
A un certo momento, con la modernità, incominciano a rompersi tutte le aspettative di certezza, incomincia a insinuarsi l'incertezza nella cultura generale, in arte. Al punto che nel '500, che viene ben dopo il 1300 però è sempre parte dell'inizio di questo relativismo che incomincia con la modernità, si trova un certo Vasari, che incomincia a spiegare agli spettatori cosa devono vedere nell'architettura e nell'arte. Cioè non è più ovvio, non è più automatico.
Con Vasari incomincia la critica moderna, lo sanno tutti. "Critica" viene dal verbo greco krínein, che vuol dire di tentare di catturare il momento della transizione tra due stati, tra l'inizio e la fine di qualcosa. Una transizione sempre dinamica, sempre mobile e sempre incerta perché andrà sempre senza soluzione.
Allora ho cominciato a pensare: cosa abbiamo fatto dal '300/'400 in poi? In fondo abbiamo cercato di trovare degli scopi che sostituissero gli scopi che avevamo perduto, col colonialismo, con l'industrializzazione, con le banche moderne, con tutti i cambiamenti dinamici della modernità, che pian piano si evolve. Abbiamo tentato di far finta che esistessero questi consensi, ma non esistevano più.
Ho visto che, lungo i secoli, c'è stato un crescendo nella ricerca disperata di surrogati.
Incomincia già nel Rinascimento: che cosa fanno? Invece di generare la loro arte, si appellano all'arte antica, romana e greca, e incomincia il revival.
Ed è proprio l'inizio della ricerca di codici surrogati che possano sostituire il perduto accordo sullo scopo dell'arte. E questo continua fino al ventesimo secolo, quando la ricerca disperata di surrogati esplode: nel 1919 ci sono i surrogati dell’inconscio che viene proposto invece del surrogato della linea perpendicolare e sempre con grande certezza, come l'offerta e distribuzione finale per l'arte contemporanea.
Questa ricerca di surrogati è diventata isterica alla fine del ventesimo secolo ed è stata sostituita dall'ultimo barlume, l'ultimo spiraglio di surrogato che è la pubblicità e la moda estetica.
Due valori completamente effimeri, che cambiano continuamente, per cui si offrono alla manipolazione continua. 
Quello che è interessante per noi, e dovremmo essere autocritici: noi molto spesso cadiamo ancora su questa idea del cercare il surrogato e ci crediamo ancora. L'artista ancora si illude di trovare la soluzione per l'arte contemporanea.
Lo spettatore si arrende a quella caratteristica, che ha per la prima volta nella storia di millenni, di essere completamente indipendente, che sappia o non sappia derivare l'opera d'arte, l'opera di design o di architettura nei propri termini, nei termini della spettatrice, dello spettatore che genera la reinvenzione dell'opera ogni volta che lo vede, invece che passivamente riceverla con dei dettati, dell'artista o di qualche parassita che vuole rappresentarlo o rappresentarla.

L.P.: Io devo stare molto attento, quando faccio la mia arte, a non avere nessuno scopo, ad attaccarmi a quello che è il mio condizionamento, a rendermi completamente quello che sono. Non posso non essere nella mia epoca, non posso non essere io, con la mia storia, non posso che essere nel luogo in cui lavoro. Quindi arrendermi completamente, lasciare andare l'ego e semplicemente entrare nel flusso della situazione.
Parlano di arte site specific, specifica al sito: io la chiamo "situation specific".
Per cui, di colpo, anche l'obsoleta tecnica della tela tirata su telaio di legno, che era l'internet nel 1500 iniziato a Venezia e che adesso semplicemente è un resto di cose passate, diventa affascinante, perché diventa una possibile cosa da fare, perché tutto diventa legittimo. E allora da cosa viene l'impegno dell'artista e dello spettatore, la creatività ineffabile, che non si può definire? Viene da come ci si avvicina, da come ci si libera, da come ci si intensifica. E lascia completamente liberi gli altri, che sono liberi di essere indifferenti.
Non corriamo più dietro a nessuno per dire: "Ehi, guarda, questa arte è importante per te!" Perché se alla gente importa più della partita di calcio, perché dovrebbe interessargli quest'opera d'arte? Perché anche il calcio ha la sua estetica e ha una semiotica molto ricca. E perché dovrebbe l'arte arrogarsi di essere più universale?
L'arte non rappresenta più scopi condivisi da tutti. L'arte c'è come testimonianza di una possibilità di pensare, una possibilità di attivare la sensibilità di chi la fa, che la fa per sé stesso, per gli amici e qualcun altro, e soprattutto di chi vuole avvicinarsi. 
Se qualcuno passa indifferente, bene. Qualcuno invece si ferma e dice: "Che cos'è questa roba qua? Ah, è arte!" e allora se ne va con rabbia, forse perché ha paura del lavaggio del cervello imposto dal parassita artista e critico, robe del genere...
Ma forse invece si ferma e se si ferma, siamo in un momento in cui possiamo veramente potenziare questa fermata della spettatrice e dello spettatore, che vuole fermarsi e ha il potere di inventare quello che vede.
Che meraviglia! E non deve corrispondere a quello che credeva di fare l'artista: deve corrispondere a quello che tu generi. Quando guardi, il tuo sguardo è creativo come quello dell'artista e ci si incontra. Non ci si incontra mai esattamente, ci si incontra sempre approssimativamente. E nel vuoto fra le due sinapsi dello spettatore/spettatrice e dell'artista si forma il dialogo, che è la cosa più desiderabile, più ricca.
Adesso siamo in un periodo in cui il nostro bellissimo mercato, inventato a New York e ormai diventato diffuso in tutto il mondo, ha stilizzato, ha irrigidito questo rapporto, questo potenziale meraviglioso che c'è nell'arte e continua a imporre a sé stessa e a noi delle formule, che si chiamano riconoscibilità del prodotto, redditività del prodotto e descrivibilità di quello che si fa.
Quando si parla di arte, di architettura, di design, anche di vestiti, invece, la descrivibilità sfugge, perché si può descrivere il materiale, ma non quello che è l'entità che si guarda. E questo mercato, in questo momento, sembra rappresentare l'arte. Un momento trionfante: ci sono miliardi di soldi che volano su queste cose, su queste arti. Ma praticamente il nostro mercato è diventato il nemico di quello che esso chiede di rappresentare.
Poi c'è gente come me, che si è rimboccata le maniche, tenta di far soldi in altre maniere, che ha avuto anche la fortuna, certe volte, di trovare mercanti d'arte che hanno stravenduto le opere. Ma va a ondate, chissà perché, forse per pazzia o perché le stelle hanno deciso così... Fra alti e bassi radicali.
C'è una storia intera di artisti che si sono rimboccati le maniche, nel movimento moderno, cominciando da Picasso stesso, che sapeva bene come manipolare il mercato e contrabbandarci la sua libertà di pensiero.
Picabia, che invece non sapeva farlo, però aveva soldi per sopravvivere, è diventato un mito per molti di noi e poi tanti tanti altri...
L'artista contemporaneo è privilegiato di avere solitude, non loneliness. Loneliness in inglese è piuttosto disperato, solitude è un'entità piena, centrata.
L'artista e lo spettatore/spettatrice hanno questa possibilità di sfruttare questa "solitudine" come atto creativo, di centratura, non come disperato isolamento da sé stessi e dagli altri. La loro possibilità è di sviluppare, gestire, di crescere fino alla morte questa entità piena che è diventato l'individuo, proprio nel momento in cui la società di massa sembra schiacciare l'individuo al massimo.
Io dicevo prima ad Anna che sono un artista utopico e sono decisamente utopico, perché utopia vuol dire che non c'è luogo dove può succedere questo. L'ha inventato, credo, Tommaso Moro nel Rinascimento.
L'utopia, a volte, portata avanti politicamente ha portato a disastri terribili, perché ha cercato le soluzioni finali, sia nella politica che nell'arte.
Ma l'utopia come dimensione di possibilità, come dimensione di continua ricerca del margine, dell'alternativa, a rischio di perdersi anche, è per me una cosa estremamente importante, in questo momento in cui si quantifica tutto. Nell'utopia ci credo veramente molto ed è proprio una questione di credenza, una questione soggettiva di credenza e mi tiene compagnia, però non porta né bene né male, semplicemente c'è.
Ecco direi che forse ho parlato fin troppo!

Rossella Roncaia: Un pensiero così profondo, così contemporaneo, così da spettatore... Arricchire anche quel momento che lo spettatore invece cerca dei paletti, cerca delle risposte e cerca dei mediatori e quindi spesso cerca il mediatore economico: quindi se quello che sto guardando collettivamente ha un valore economico alto, i miei occhi guardano una cosa che deve avere valore e non è detto che ce l'abbia.

L.P.: Non è più mediatore, è dominatore!

R.R.: Certo! Lo sterco del diavolo che rovina la qualità della mia visione. Poi il possesso dell'arte è un altro tema: nel momento in cui guardiamo l'impegno della vita, l'impegno creativo dell'artista già in quel momento il visitatore, l'osservatore se ne appropria. E già quello è il momento magico, non c'è bisogno di avere quell'oggetto, quella realizzazione: quel pensiero l'ho ricevuto, l'ho ricevuto ovviamente attraverso il mezzo della mia sensibilità e quindi lo potrò leggere in un modo diverso ancora rispetto a quello che era il profondo pensiero di chi l'ha creato. Oppure lo posso anche arricchire del mio pensiero insieme al suo.
Il tema del valore dell'arte invece è un tema altro, che molto spesso noi non tocchiamo perché siamo più interessati al valore della storia della persona che crea le cose magnifiche che hai creato anche tu.

L.P.: Una volta una rivista mi ha chiesto di fare un discorso via internet con due economisti, un americano di Chicago e un italiano. Loro parlavano del valore dell'arte, dell'opera... Ho tentato di dirgli, poi a un certo momento mi sono sentito sopraffatto da loro e ho aspettato a dirgli "Ma c'è un valore intrinseco, che è molto diverso dal valore di cui voi parlate!"
Parlavo della differenza fra valori intrinseco e contestuale. Mi ricordo ancora la risposta di quello di Chicago, ha detto: "Io non so cosa sia il valore contestuale!"
Per cui si è autodefinito! Però sono finito in minoranza!

Anna Brasca: Eppure tu avrai costantemente rapporti con mercanti e collezionisti. Quindi continuamente ti devi confrontare con un valore oggettivo che viene attribuito al tuo lavoro. Come gestisci questa contraddizione? Se è una contraddizione...

L.P.: Faccio dei compromessi volgari! Faccio finta di non sapere, certe volte.
Ma devo dirti la verità che i collezionisti che si avvicinano (prima mi ha chiamato uno di Basilea che ha molti lavori miei) apprezzano. Lui ha comprato un enorme quadro figurativo da una galleria di Milano e, anche se preferisce i quadri più astratti, più meditativi, ha una collezione in cui è rappresentato tutto, una grande parte dell'arco delle cose che mi interessano: lui è una grande rarità.
A New York c'erano due collezionisti, lui era un impiegato della posta e lei una piccola bibliotecaria. Adesso lui è morto e lei è morente. Erano famosi perché entravano nello studio con un rotolo di dollari e chiedevano all'artista di vedere certe opere e quando l'artista faceva vedere, per esempio, quattro opere di un genere che lui o lei stava facendo, lui diceva: "Te le compro tutte e quattro!" Poi pagava 5 dollari l'una.
Ma tutti lo amavano! Alcuni lo disprezzavano, pensavano che fosse uno speculatore, ma tutti lo amavano moltissimo.
Si chiamavano i Vogel, erano una specie di mito a New York. Loro, con pochissimi soldi, in un piccolo appartamento grande come forse una volta e mezza questa stanza, hanno messo insieme una collezione di altissimo livello, sempre arrivando agli studi prima che ci arrivasse chiunque altro. 
L'artista a volte aveva soltanto amici che lo seguivano, quindi era anche contento che venisse questa persona a comprare i lavori, anche a prezzi veramente super super stracciati. Insomma, alla fine, i Vogel sono stati snobbati dai musei di arte moderna, dal Guggenheim, dal Whitney... Ma a un certo momento sono venuti gli europei. Veniva sempre il curatore dello Stedelijk, però voleva soltanto gli artisti più anziani che loro possedevano, che erano Sol LeWitt e Robert Ryman. E i Vogel dicevano, per esempio, a questi curatori: "Guardate che c'è anche Robert Mangold, c'è Richard Tuttle, c'è Buetti, c'è Duran..." - "Sì, sì... sono bravi, sono bravi..." eccetera.
Ma a un certo momento, bam!, apro il New York Times  e in prima pagina vedo i Vogel. Erano tutti e due molto piccoli, erano messi su un divano e le loro gambe non toccavano il pavimento. Messi sul divano con un quadro dietro, ovviamente in uno scenario fatto apposta per l'intervista...
Essere sulla prima pagina del New York Times, con una foto così grande, è rarissimo, tutti lo vorrebbero! La collezione Vogel era stata donata alla National Gallery di Washington.
Per cui tutti i musei di New York di colpo li invitavano a cena, con i ricconi eccetera ma ormai avevano perduto la collezione.
I Vogel avevano 400 opere mie, 600 di Tuttle e di Sol LeWitt 1000, credo, e così tanti altri.
Alla National Gallery però non c'era più spazio per contenere tutta la collezione. Allora inventarono una maniera, in cui diedero 50 lavori a 50 musei dei vari stati di New York. La collezione Vogel è dappertutto in America adesso.
E quel tipo di collezionista lì è quello con cui non devo far compromessi. Gli altri... 
Avevo un agente, a un certo punto, che rappresentava i miei monotipi. Di solito non voleva che incontrassi i collezionisti, però capitò che la curatrice, credo, di una grande azienda di assicurazioni volesse venire in studio. Allora lui mi disse: "Guarda, preparo io le stampe che facciamo vedere e tu tenta di parlare il meno possibile.” Eravamo l'agente, la collezionista, una giovane curatrice, e io. L'agente religiosamente portava un lavoro davanti alla curatrice e diceva le cose che doveva dire.
A un certo momento, (me lo ricordo ancora, è successo 30 anni fa!) la curatrice si è girata verso di me e mi ha detto: "E questa forma qui, com'è che l'è venuta?"
E io le ho detto: "Guardi, è una forma abbastanza tradizionale, organica di quello che io faccio, e in questo caso ho trasformato l'oggetto verso sinistra..." e vedevo l'agente che faceva: "Fermati, fermati!", perché la curatrice stava diventando pallida perché spiegavo cose che per lei erano troppo difficile da capire. Subito l'agente "Ecco la nuova..."
Queste invece sono le occasioni in cui faccio i compromessi grotteschi.

R.R.: Puoi raccontare l'esperienza col P.S.1, di quanto sei intervenuto sui muri? 

L.P.: Lì c'è una piccola storia da aggiungere.
Mi interessava moltissimo l'architettura, ma non ero capace a studiare, non ne sono mai stato capace. L'unica volta che ho studiato è stato quando ero forzato a studiare perché dovevo insegnare la storia dell'arte.
Però mi ero iscritto all'architettura a Roma e mi interessava molto, ma non ero capace a studiare. Poi tutto quello che dicevano i professori era il contrario di quello che io pensavo e proprio non mi andava. Però mi capitò come compagno di banco, (eravamo in banchi a due a due), per caso fra 200 studenti, una persona che poi divenne una persona influente per me, che era un anno più avanti di me, che poi divenne un politico, non un architetto: si chiama Massimo Teodori, è abbastanza conosciuto in Italia. Massimo mi disse che c'era una maniera diversa di pensare all'architettura, non come ci insegnavano. Lui era più preparato di me e era affascinato dalla Bauhaus, infatti andava sempre in giro con il farfallino, come Gropius, ed era una persona molto articolata.
Mi diede informazioni che mi servirono molto. Faceva parte di un gruppo di studenti che seguiva i corsi in soffitta di un laureando che rimandava la laurea per poter influenzare gli studenti che potevano interessargli più tardi, quando sarebbe diventato professore. Si chiamava Manfredo Tafuri ed è diventato una specie di mito nella storia dell'architettura.
Attraverso di loro, io che ero soprattutto interessato all'arte non applicata a uso e consumo, all'arte puramente di testimonianza visuale, ho cominciato a capire che quello che non mi andava in quello che si trovava nell'insegnamento era proprio questo: mancava il contesto.
E questi studenti e Tafuri stavano studiando il contesto. Avevano probabilmente letto un po' di filosofia francese, o stavano iniziando in quel momento, e ho cominciato a pensare anch'io: quando io dipingo ci sono dentro le semiotiche, le storie e le ramificazioni infinite che si applicano anche al luogo in cui io metto il quadro.
Per cui incominciai a inventarmi la formula che il quadro non è più un quadro appeso un muro, ma un muro attivato dal quadro.
Quando arrivai a New York, girando un po' in giro, ho incominciato a fare amicizia con Gordon Matta-Clark, Richard Nonas, Susy Harris... Un po' di persone che erano strastufe del minimalismo, del poppismo e tutta quella roba lì e stavano, sapendolo non sapendolo, studiando come intrecciare l'arte con il suo contesto.  Quindi questa mia esperienza con Tafuri, che conoscevo appena appena, si è innestata inevitabilmente con quello che a New York in quel momento stavano scoprendo, quel “contestualismo”, però pragmatico, senza teoria, molto americano.
Naturalmente pur essendo tutti molto sospettosi dei pittori (erano tutti scultori, costruttori eccetera), mi accettarono con molto piacere perché pensavo come loro. Infatti fu proprio in base a questa idea del muro attivato dal quadro, non del quadro appeso al muro, che io feci la prima mostra alla John Weber Gallery, che era una galleria che era considerata anche pittorica.
E mi ritrovai a essere nel gruppo che incominciava a essere attivo prima alla Clocktower, che è un istituto iniziato da quella persona che poi iniziò P.S.1, si chiama Alanna Heiss. Aveva avuto un'esperienza simile in Inghilterra e l'aveva importata dall'Inghilterra a New York.
E incominciai a lavorare con loro. Si incominciavano a fare azioni e io cominciai a sbizzarrirmi in tutte le direzioni. Mi sentivo liberissimo e da allora mi sono liberato, come ho fatto anche dopo. Ho fatto delle azioni con delle pistole, ho fatto delle azioni con dei suoni, con dei video, tutto quanto...
E questa situation specificity di cui parlavo prima, la specificità della situazione, ha cominciata ad articolarsi.
Quando aprì P.S.1 a loro venne naturale chiedere anche a me di partecipare.
Chiesero anche ad un paio di altri pittori, però i pittori adattarono loro pittura alla luce della finestra eccetera. L'unico che fece veramente opere che erano specificamente originate e radicate in quella situazione ero io.
C'erano dei muri scrostati con due colori: i bidelli dipingono sempre un colore lucido e più scuro sotto e uno opaco più chiaro sopra. Io stavo provando allo studio e avevo dei pannelli leftover, dei pannelli trascurati di legno che rimanevano lì nello studio, e presi e copiai dieci punti di incontro fra i vari colori di questi muri scrostati, dove tutti i bidelli della storia, dal 1920 al 1960, di questa scuola abbandonata dove si faceva un centro d'arte avevano accumulato questi colori. E copiavo gli strati di colore, fino a finire con quello che sembrava essere l'ultimo strato. E tautologicamente lo applicai su questa divisione.
Poi feci un altro lavoro che fu l'imitazione delle finestre a schema romanico, dalle quali costruii dei tunnel che colorai come i quattro colori della cabala, verde, giallo, rosso e blu, e bianco e nero aggiunti, ogni mese cambiando il colore. 
Anche quella specificamente derivata, un quadro tridimensionale con dei tunnel, un quadro attraverso il quale guardare il cielo, non da guardare come un quadro, ma attraverso il quale guardare. Specificamente sorto dal luogo in cui ero.
E questo lo faccio ancora adesso, quando mi chiedono di fare qualcosa in un luogo, mi picco di poter inventare qualcosa che possa essere interessante anche in un luogo che non mi piace. Non so, anche una farmacia... Una farmacia forse mi piacerebbe, non so... L'idea è di poter far sorgere l'arte: userei alcuni gli ingredienti che mi piacciono, li applicherei dentro e poi vedrei come si sviluppa.
Quindi P.S.1 è stata la confluenza della mia esperienza di architecture studies e dei miei “non studi” di architettura di Roma e la nascita del movimento site specific a New York P.S.1 e poi ramificato in tutto il mondo. Adesso è diventato parte della mia vita.
Quello che è interessante pensare è che quando io faccio un quadro su tela tirato sul telaio, come dicevo prima, una cosa che più banale di così non potrebbe essere, però per me è site specific: io tento di essere specifico alla "telicità", alla "telaicità", alla posizione di quella cosa. E quindi faccio un quadro, sì, ma visto da un'altra angolatura.
Cosa che mi libera immensamente, che non mi devo attenere né a uno stile, né a uno schema, né a uno scopo, né a un piano... niente. 
Semplicemente gli ingredienti ormai spontaneamente entrano nella mia testa e confluiscono lì e poi faccio delle cose, delle scoperte.
Cosa vuol dire scoperta? Vuol dire che una cosa è coperta e non la vedi finché non la scopri. Le scoperte possono essere "non scoperte" per voi, ma per me possono essere una scoperta, una cosa che io non avevo mai fatto e quindi così all'infinito...
La mia conferenza, di cui avete avuto un piccolo esempio prima, da 40 anni ha lo stesso titolo. Si chiama "I prossimi 475 anni della mia arte e della mia vita", proprio perché è questa cosa inconclusiva. Quando io morirò, l'ultima parola sarà: "Porco cane, stavo appena incominciando!"

R.R.: L'osservatore, chi guarda e capisce il tuo messaggio: che emozione ti dà questa condivisione?

L.P.: Ottima domanda! Da un lato potrebbe lusingarmi, invece è un campanello d'allarme, come subito suonasse una lampadina rossa. Io vorrei che lo spettatore entrasse in una condizione di malinteso creativo e “misinterpretasse” la mia opera, visto che non sto mandando un messaggio specifico. 
Se lo spettatore o la spettatrice tocca certe direzioni, certe tangenti che io riconosco come essere quelle che mi sono capitate, che ho trovato, senza neanche volerlo, mentre lo facevo, da un lato sono lusingato, dall'altro devo stare molto attento a non credere che forse sono stato troppo banale nella mia specificità. Però la banalità a me interessa enormemente, perché odio l'idea di originalità.
Certi spettatori dicono cose che proprio non mi vanno giù e io non dico niente, perché vedo che loro hanno fatto il loro meglio rispetto a quello che sono loro, benissimo!
Un giorno, invece, ero a Torino, dove una galleria mi aveva fatto fare un murale di tele non tirate su telaio, molto alto, oltre 4 metri. Lo stavo dipingendo in bianco e nero, erano quei disegni che piacevano a te, Anna: una parete enorme di queste forme. Ed stetti lì due o tre giorni, a fare questa cosa.
La galleria era nuova, inaugurava con questa mia opera, e un giorno è venuto il tecnico del telefono, un uomo di 40 anni col suo assistente. Non si accorsero che ero lì e si misero a mettere i tubi, a misurare eccetera. Quando ebbero fatto il loro lavoro, sulla via d'uscita videro che c'era questo tizio che stava riempiendo, avevo quasi finito, ("Quasi" perché non mai quando sono finiti i lavori!)... Avevo quasi riempito quelle tele. Misero giù gli strumenti, me lo ricordo ancora, mi dissero: "Cos'è?" - "È un quadro, un dipinto"
E mi chiesero: "A che cosa serve?" - "Lo faccio come arte, sai, sono un artista. Lo faccio perché lo mostrerò alla gente!" - "Cosa vuol dire?" mi chiesero. "Guarda, io non lo so cosa vuol dire, a dir la verità, proprio non lo so. Però ditemi voi cosa ci vedete".
Allora il capo, che aveva 40 anni, si fermò e, con un lungo sguardo, scannerizzò tutte quelle immagini, figure astratte, realistiche, grottesche, delicate, fiori mostri, tutto quanto, puntini... Poi si è girato verso di me e... (Io ho usato la sua risposta già per un quadro e per due mostre!) Mi disse: "È come noi". Gli risposi: "Sì, effettivamente è come noi. Cosa vuoi dire, con 'è come noi'?" - "Siamo dadi gettati nel mondo" Questo è uno spettatore creativo, perché gli ho aperto la diga e gli ho detto che poteva dire quello che voleva, che non doveva sentirsi soggetto a nessun'altra opinione e lui aveva abbastanza capacità di farlo. Quelle lì sono cose meravigliose.
E succede spesso sia con gli eruditi sia con i non eruditi, direi il 60% delle volte con non eruditi.
Però anche gli eruditi molto spesso sanno aprirsi: a volte viene il critico che crede di avere tutte le preparazioni. Se riesco a scioglierla o scioglierlo, vengono fuori le cose magnifiche.

R.R.: Un'altra domanda e un po' una preghiera, visto che ci sono ancora tanti tanti anni da realizzare: vai passo per passo o vedi già la strada che vuoi percorrere? O è giorno per giorno, ora per ora?

L.P.: Questa è un'ottima domanda a Lucio Pozzi! Perché io faccio un gruppo di cose, poi mi annoio, mi disturba, e allora tento di trovare altri ingredienti per mettermi nei guai, per cambiare.
Lavoro con grande entusiasmo, preparo per esempio 10 pannelli per fare questa cosa che penso di fare, ma poi non viene mai, non succede assolutamente mai quello che intendo fare, viene sempre qualcos'altro. 
Il panico e l'eccitazione della creatività sono questi. Non mi devo arrendere: io ogni volta che penso di sapere cosa farò, poi non lo faccio.
E mi disturba, non è che mi renda felice questo, però non posso fare altro che tuffarmi.
Agli studenti dico: "Se non vi gettate senza paracadute nel baratro e non agitate le braccia del panico, non scoprite che avete le ali!"
E questa è la mia risposta migliore.

R.R.: Bellissimo, bellissimo! Grazie, una bella risposta anche per noi.

L.P.: Lo spettatore deve fare la stessa cosa…

R.R.: Volare, tentare di volare!

L.P.: C'è perfino la canzoncina, la famosa "Volare, volare". Una cosa abbastanza banale da dire, ma è vera.

R.R.: Ti ringraziamo tantissimo. Grazie, è stato magnifico. Grazie!

Lucio Pozzi: Mi è capitato a 26 anni di andare negli Stati Uniti e poi mi sono fermato a New York. 

Per me all’epoca era un mito poter toccare di prima mano la realtà newyorkese.
Mi sono pian piano inserito. A un certo momento era difficile farmi accettare, New York era più provinciale all’epoca di quanto lo sia adesso. Per esempio andavo in giro con le diapositive a chiedere alle gallerie se volevamo vedermi e mi dicevano: “Guardi, non posso vederla, ma vada là, che là mostrano gli italiani”
Naturalmente avevo voglia di strangolarli, sul momento, però questa era New York all’epoca.
Adesso non succederebbe proprio, affatto.
Comunque, pian piano, un amico incontrato a Roma mi fece incominciare a insegnare alla Cooper Junior, che è questa scuola di architettura ed arte.
Non c’era posto per un giovane sconosciuto per insegnare arte, ma c’era la posizione di professore di storia dell’architettura e dell’arte moderna.
Io ho detto: “Ho soltanto una diploma di liceo classico, non so nulla, non posso essere professore alla Cooper Union, dove migliaia di persone vorrebbero insegnare più qualificate di me”. Questo amico mi ha detto: “Guarda, provo un po’…”
Allora ho fatto una conferenza con due schermi. Su uno schermo c’era Duchamp e sull’altro c’era Giorgio Morandi, che erano i due opposti. Più o meno li ho visti come due polarità dell’epoca moderna, nate più o meno nello stesso tempo e morte più o meno allo stesso tempo.
Mi avevano fatto vedere l’auditorium dove dovevo fare questo conferenza, erano più o meno 200 posti e quando mi presentai per fare questa conferenza c’era uno studente, il proiezionista e il capo del dipartimento. Così incomincia a fare performance! Mi indirizzai con verve verso queste sedie vuote e feci la conferenza. Mi trovai a essere l’unico professore di storia dell’arte e architettura moderna per la Cooper Union. Un piccolo 26enne, appena sbarcato in America, un posto che più o meno tutti in America avrebbero voluto avere…
Smisi di dipingere, perché alla Cooper Union non c’erano i libri che volevo e ho trovato soltanto un libraio che aveva i libri sul movimento moderno. Era un libraio protetto da Robert Motherwell e quindi aveva libri informati.
Mi feci una cultura praticamente andando ogni settimana dal libraio, facendo le mie diapositive perché la Cooper Union non aveva diapositive di moderno, aveva solo l’impressionismo.
Imparai quello che già pensavo: legare lo sviluppo dell’arte contemporanea allo sviluppo del design e dell’architettura. E soprattutto legare lo sviluppo della creatività al contesto, invece di continuare a insistere su feticcio del testo, dell’oggetto unico, dell’architettura unica, dell’isola, dell’edificio isolato o del quadro isolato.
E così mi feci una cultura praticamente per due anni. Quando poi fecero un dipartimento di storia dell’arte, li supplicai: “Guardate, io sono un pittore, a me interessa fare arte, non faccio solo pittura, datemi le lezioni di studio” E così incominciai a insegnare. Tutta la vita a New York ho insegnato, praticamente, e ha mantenuto vivo lo spirito e ha anche mantenuto il portafoglio vivo, perché ero ben seguito dagli artisti che venivano a studiare. Siccome non insegno nulla perché solamente la mia arte è di osservare e descrivere in maniera articolata quello che vedo, cosa che nessuno fa. E non insegno mai, non esprimo giudizi e raramente perfino le opinioni.
E così ho imparato… mi sono fatto la base di quello che penso e che seguo nella mia arte.

L.P.: Cito la Cooper Union così a lungo perché fu lì che nel 1965 e 1966 inventai quello che divenne per me la chiave di tutta la mia arte. Lo chiamo il gioco dell’inventario.
Diedi agli studenti un diagramma con tante piccole parole dentro, che riguardavano oggetti, processi, materiali, idee. Tutte a uguale livello, messe in questa griglia. 
Il gioco che loro devono giocare, ogni settimana doveva portarmi un’opera d’arte fatta scegliendo a occhi chiusi 7 di questi ingredienti, mischiandoli in maniera creativa. Vengono fuori delle opere veramente notevoli.
Pensiamo che siamo nel ’66, quindi a New York incominciava soltanto le formule del minimalismo, le formule della Pop art e dire questo era strano, perlomeno.
E questo gioco nell’inventario viene anche alla base del mio fare. Dopo tanti anni cominciai tentando di semplificare per la gente il pensiero che io perseguo, sono andato fuori con questa idea di chiamare ogni opera d’arte, quale e qualsiasi tipo sia, un “cocktail di ingredienti”.
E in cosa consiste la differenza e quello che fanno gli artisti? È come mischiano gli ingredienti. Per esempio, puoi mischiare cacao, zucchero e latte e fare un cioccolato caldo, una salsa di cioccolato. Puoi mischiare il cacao con sale e un po’ di latte e un po’ d’acqua e fai la amara salsa per la bistecca messicana che si chiama “mole”. Questo era l’esempio che usavo per dire come mischiando gli stessi ingredienti, il come e il dosaggio cambia tutto.
Attraverso il gioco nell’inventario io vedo tutta l’arte contemporanea. Cioè tutti gli -ismi, tutte le formule diventano cose che io vedo con un telescopio rovesciato.
Tutto quello di cui si parla in arte mi annoia a morte perché sono tutte formule, che servono soltanto per fare certe volte un mercatino veloce o delle sensazioni passeggere.
Mentre invece vedendo l’arte attraverso il gioco dell’inventario, io come spettatore divento molto creativo perché devo, quando guardo un’opera, anche se guardo un vestito, qualsiasi cosa, incominciare a elaborare: quali sono gli ingredienti che vedo?
Naturalmente gli ingredienti sono scelti a mio gusto, quindi diventa già soggettivo. Mi approprio della soggettività dello spettatore, che è tipica dell’arte
contemporanea, anche se negata.
Il gioco dell’inventario mi permette di vedere l’arte e anche di farla. Al punto che se io non ho idee, sono svuotato, posso mettere alcuni ingredienti sul tavolo e incominciare a giocare.
Ho perfino fatto pubblicamente, certe volte, una performance, moltissimi anni fa. L’ho fatta tante volte. Si chiama “Paintings to order”: davo un menù, come quello di McDonald’s, in cui c’erano gli ingredienti che io avevo sul tavolo. La gente veniva e metteva le crocette su quello che voleva che mischiassi. E io lo mischiavo per loro, istantaneamente.
Di solito, la risposta è stata così fantastica che ho finito di lavorare fino a mezzanotte per completare tutti gli ordini, certe volte anche tradito da certi collezionisti un po’ gretti. Era permesso di fare una scheda soltanto per nome e una famosa collezionista di New York mi ha messo il nome suo, quello di suo nipote, quello di suo marito, ecc… Si beccata sei disegni miei!
Ho saputo solo dopo, mi ha fatto una grande rabbia perché non ha mai comprato un lavoro mio. Siccome “Paintings to order” era 5 dollari al disegno…
Ma comunque il gioco dell’inventario, poi ho scoperto più tardi, corrisponde a delle grandi tradizioni. C’era Hermann Hesse che ha fatto un libro, che ha scritto un libro che si chiama qualcosa come The bead game“, il gioco delle beads, Il giuoco delle perle di vetro.
Poi anche ho cominciato a cercare un pochino, mi sono innamorato della cultura ermetica del Medioevo e del Rinascimento e a un certo momento hanno inventato Ars Combinatoria, che era esattamente questo: combinare degli ingredienti per farne degli oggetti di rito e di pensiero, cercando per loro di arrivare a delle dimensioni trascendenti. Io, invece, in maniera molto pragmatica, molto letterale, ho inventato, senza sapere dell’ars combinatoria del passato, il gioco dell’inventario: in maniera molto corrispondente al realismo un po’ banale della nostra vita, ridurre tutto gli ingredienti senza finalità precise né spirituali né altolocate, né “bassolocate”, niente, senza schemi.

L.P.: Una cosa che ho scoperto è che nel passato, per millenni, qualsiasi comunità si trovi nel mondo, nella storia del mondo, aveva un accordo sullo scopo dell’arte. Poteva essere spirituale, magico, politico, letterario, quello che fosse… ma tutti erano d’accordo. Quindi quando qualcuno si avvicinava a un’opera d’arte di quella comunità sapeva decodificare molti dei significati che la sostenevano e poteva persino avvicinarsi a quella cosa misteriosa che ancora adesso si chiama qualità, anche se molti hanno paura di usare il nome. E questo perché non si può definire né misurare.
Allora ho scoperto che, verso il 1300/1400, con lo sviluppo della banca moderna, proprio a Firenze, in Italia, incominciarono a rompersi le aspettative di trovare accordo sullo scopo dell’arte. L’arte incominciava a perdere gli scopi, per i quali erano tutti d’accordo. Questo è stato un inizio.
Però se per millenni uno di noi andava a un’opera d’arte e guardava quest’opera d’arte, tutta una serie di pensieri erano innati, ce li aveva insegnati la mamma, il papà, i nonni: tutta la struttura, tutta la comunità sapeva qual era lo scopo di quell’arte.
A un certo momento, con la modernità, incominciano a rompersi tutte le aspettative di certezza, incomincia a insinuarsi l’incertezza nella cultura generale, in arte. Al punto che nel 1500, che viene ben dopo il 1300 però è sempre parte dell’inizio di questo relativismo che incomincia con la modernità, si trova un certo Vasari, che incomincia a spiegare agli spettatori cosa devono vedere nell’architettura e nell’arte. Cioè non è più ovvio, non è più automatico.
Con Vasari incomincia la critica moderna, lo sanno tutti. “Critica” vuol dire krínein, viene dal verbo krínein greco, che vuol dire di tentare di catturare il momento della transizione tra due stati, tra l’inizio di qualcosa e come finisce. Una transizione sempre dinamica, sempre mobile e sempre incerta perché andrà sempre senza soluzione.
Allora a un certo momento ho cominciato a pensare: sì, effettivamente cosa abbiamo fatto dal 1300-1400 in poi? In fondo abbiamo cercato di trovare degli scopi che sostituissero gli scopi che avevamo perduto, col colonialismo, con l’industrializzazione, con le banche moderne, con tutti i cambiamenti dinamici della modernità, che pian piano si evolve. Abbiamo tentato di far finta che esistessero questi consensi, ma non esistevano più.
Ho visto che, lungo i secoli, praticamente c’è stato un crescendo nella ricerca disperata per surrogati.
Già incomincia nel Rinascimento il surrogato: nel Rinascimento, che cosa fanno? Invece di generare la loro arte, si appellano all’arte antica, romana e greca, e incomincia il revival.
Come si dice in italiano “revival”? Revival, anche qui.
Incomincia il revival ed è proprio il tipico inizio del cercare codici surrogati che possano sostituire il perduto accordo sullo scopo dell’arte. E questo continua fino al ventesimo secolo, quando la ricerca disperata di surrogati esplode, appunto come dicevo prima, che nel 1919 ci sono i surrogati dell’inconscio che viene proposto invece del surrogato della linea perpendicolare e sempre con grande certezza, come l’offerta e distribuzione finale per l’arte contemporanea.
Questa ricerca di surrogati è diventata isterica alla fine del ventesimo secolo ed è stata sostituita dall’ultimo barlume, l’ultimo spiraglio di surrogato che è la pubblicità e la moda estetica.
Due valori completamente effimeri, che cambiano continuamente, per cui si offrono alla manipolazione continua. 
Quello che è interessante per noi, e dovremmo essere autocritici, che noi molto spesso cadiamo ancora su questa idea del cercare il surrogato e ci crediamo ancora. L’artista ancora si illude di trovare la soluzione per l’arte contemporanea.
Lo spettatore si arrende a quella caratteristica, che ha per la prima volta nella storia di millenni, di essere completamente indipendente, che sappia o non sappia derivare l’opera d’arte, l’opera di design o di architettura nei propri termini, nei termini della spettatrice, dello spettatore che genera la reinvenzione dell’opera ogni volta che lo vede, invece che passivamente riceverla con dei dettati, dell’artista o di qualche parassita che vuole rappresentarlo o rappresentarla.

L.P.: In fondo devo stare molto attento io a partire, quando faccio la mia arte, a non avere nessuno scopo, ad attaccarmi a quello che è il mio condizionamento, a rendermi completamente quello che sono. Non posso non essere nella mia epoca, non posso non essere io, con la mia storia, non posso che essere nel luogo in cui lavoro. Quindi arrendermi completamente, lasciare andare l’ego e semplicemente entrare nel flusso della situazione.
Parlano di arte site specific, specifica al sito: io la chiamo “situation specific“.
Per cui, di colpo, anche l’obsoleta tecnica della tela tirata su telaio di legno, che era l’internet nel 1500 iniziato a Venezia e che adesso semplicemente è un resto di cose passate, diventa affascinante perché diventa una possibile cosa da fare, perché tutto diventa legittimo. E allora da cosa viene l’impegno dell’artista e dello spettatore, la creatività ineffabile, che non si può definire? Viene da come ci si avvicina, da come ci si libera, da come ci si intensifica. E lascia completamente liberi gli altri, che sono liberi di essere indifferenti.
Non corriamo più dietro a nessuno per dire: “Ehi, guarda, questa arte è importante per te!” Perché se alla gente importa più della partita di calcio, perché dovrebbe interessargli quest’opera d’arte? Perché il calcio ha la sua estetica anche e ha una semiotica molto ricca. E perché dovrebbe l’arte arrogarsi di essere più universale?
L’arte non rappresenta più scopi condivisi da tutti. L’arte c’è come testimonianza di una possibilità di pensare, una possibilità di attivare la sensibilità di chi la fa, che la fa per sé stesso, per gli amici e qualcun altro, e soprattutto di chi vuole avvicinarsi. 
Se qualcuno passa indifferente, bene. Se invece si ferma e dice: “Che cos’è questa roba qua? Ah, è arte!” e allora se ne va con rabbia, forse perché ha paura del lavaggio del cervello imposto dal parassita artista e critico, robe del genere…
Ma forse invece si ferma e se si ferma, siamo in un momento in cui possiamo veramente potenziare questa fermata della spettatrice, dello spettatore, che vuole fermarsi e ha il potere di inventare quello che vede.
Che meraviglia! E non deve corrispondere a quello che credeva di fare l’artista: deve corrispondere a quello che tu generi. Quando guardi, il tuo sguardo è creativo come quello dell’artista e ci si incontra. Ci si incontra mai esattamente, sempre approssimativamente. E nel vuoto fra le due sinapsi dello spettatore/spettatrice e dell’artista, o chi per lui, anche altri rappresentanti, in quel vuoto si forma il dialogo, che è la cosa più desiderabile, più ricca.
Adesso siamo in un periodo in cui il nostro bellissimo mercato, inventato a New York e ormai diventato diffuso in tutto il mondo, ha stilizzato, ha irrigidito questo rapporto, questo potenziale meraviglioso che c’è nell’arte e continua a imporre a sé stessa e a noi delle formule, che si chiamano riconoscibilità del prodotto, redditività del prodotto e descrivibilità di quello che si fa.
Quando si parla di arte, di architettura, di design, anche di vestiti, invece, la descrivibilità sfugge, perché si può descrivere il materiale, ma non quello che è l’entità che si guarda. E questo mercato, in questo momento, sembra rappresentare l’arte. Un momento trionfante: ci sono miliardi di soldi che volano su queste cose, su queste arti. E praticamente il nostro mercato è diventato il nemico di quello che esso chiede di rappresentare.
Poi c’è gente come me, che si è rimboccata le maniche, tenta di far soldi in altre maniere, ha avuto anche la fortuna, certe volte, di mercanti d’arte che hanno stravenduto le opere. Ma va a ondate, chissà perché, forse per pazzia o perché le stelle hanno deciso… Fra alti e bassi radicali fanno questo.
C’è una storia intera di artisti che si sono rimboccati le maniche, nel movimento moderno, cominciando da Picasso stesso, che sapeva bene come manipolare il mercato e contrabbandarci la sua libertà di pensiero.
Picabia, che invece non sapeva farlo, però aveva soldi per sopravvivere è diventato un mito per molti di noi e poi tanti tanti altri…
L’artista contemporaneo è privilegiato di avere solitude, non loneliness. Loneliness in inglese è piuttosto disperato, solitude è un’entità piena, centrata.
L’artista e lo spettatore, la spettatrice hanno questa possibilità di sfruttare questa… in italiano si dice “solitudine” per tutte e due le parole, ma solitudine come atto creativo, di centratura, non come disperato isolamento da sé stessi e dagli altri. La loro possibilità è di sviluppare, gestire, di crescere fino alla morte questa entità piena che è diventato l’individuo, proprio nel momento in cui la società di massa sembra schiacciare l’individuo al massimo.
Io dicevo prima ad Anna che sono un artista utopico e sono decisamente utopico, perché utopia vuol dire che non c’è luogo dove può succedere questo. L’ha inventato, credo, Tommaso Moro nel Rinascimento.
L’utopia, certe volte, portata avanti politicamente ha portato a disastri terribili, perché ha cercato le soluzioni finali che registrano sia la politica che l’arte.
Ma l’utopia come dimensione di possibilità, come dimensione di continua ricerca del margine, dell’alternativa, a rischio di perdersi anche, è per me una cosa estremamente importante, in questo momento in cui si quantifica tutto. Nell’utopia ci credo veramente molto ed è una questione di credenza proprio, una questione soggettiva di credenza e mi tiene compagnia, però non porta né bene né male, semplicemente c’è.
Ecco direi che forse ho parlato fin troppo!

Rossella Roncaia: Un pensiero così profondo, così contemporaneo, così da spettatore… Arricchire anche quel momento che lo spettatore invece cerca dei paletti, cerca delle risposte e cerca dei mediatori e quindi spesso cerca il mediatore economico, quindi se quello che sto guardando collettivamente ha un valore economico alto, i miei occhi guardano una cosa che deve avere valore e non è detto che ce l’abbia

L.P.: Non è più mediatore, è dominatore!

R.R.: Certo! Lo sterco del diavolo, dicevano… Che quindi rovina la qualità della mia visione. Poi il possesso dell’arte è un altro tema, nel senso che, nel momento in cui guardiamo l’impegno della vita, l’impegno creativo dell’artista già in quel momento il visitatore, l’osservatore se ne appropria. E già quello è il momento magico, non c’è bisogno di avere quell’oggetto, quella realizzazione: quel pensiero l’ho ricevuto, l’ho ricevuto ovviamente attraverso il mezzo della mia sensibilità e quindi lo potrò leggere in un modo diverso ancora rispetto a quello che era il profondo pensiero di chi l’ha creato. Oppure lo posso anche arricchire del mio pensiero insieme al suo.
Il tema del valore dell’arte invece è un tema altro, che molto spesso noi non tocchiamo perché siamo più interessati al valore della storia della persona che crea le cose magnifiche che hai creato anche tu.

L.P.: Io una volta stato preso, una rivista mi ha chiesto di fare un discorso via internet con due economisti, un americano di Chicago e un italiano. Loro parlavano del valore dell’arte, dell’opera… Ho tentato di dirgli, poi a un certo momento mi sono sentito sopraffatto da loro e ho aspettato a dirgli “Ma c’è un valore intrinseco, che è molto diverso dal valore di cui voi parlate!”
Parlavo della differenza fra valori intrinseco e contestuale. Mi ricordo ancora la risposta di quello di Chicago, ha detto: “Io non so cosa sia il valore contestuale!”
Per cui, in stampa, si è autodefinito! Però sono finito in minoranza!

Anna Brasca: Eppure tu avrai costantemente rapporti con mercanti e collezionisti. Quindi continuamente ti devi confrontare con un valore, diciamo, oggettivo che viene attribuito al tuo lavoro. Come gestisci questa contraddizione? Se è una contraddizione…

L.P.: Faccio dei compromessi volgari! Faccio finta di non sapere, certe volte.
Ma devo dirti la verità che i collezionisti che si avvicinano, prima mi ha chiamato uno di Basilea che ha molti lavori miei, loro proprio apprezzano. Lui ha comprato un enorme quadro figurativo da una galleria qui a Milano che lo stava mostrando, e anche se preferisce i quadri più astratti, più meditativi, però ha proprio una collezione in cui è rappresentato tutto, una grande parte dell’arco delle cose che mi interessano: lui è una grande rarità.
A New York c’erano due collezionisti, lui era un impiegato della posta e lei una piccola bibliotecaria. Adesso lui è morto e lei è morente. Famosi perché entravano nello studio con un rotolo di dollari e chiedevano all’artista di comprare uno o due opere, di vedere certe opere e poi l’artista faceva vedere, per esempio, quattro opere di un genere che lui o lei stava facendo e lui diceva: “Te le compro tutte e quattro!” Poi pagava 5 dollari l’una.
Ma tutti lo amavano! Alcuni lo disprezzavano, pensavano che era uno speculatore, ma tutti lo amavano moltissimo.
Si chiamavano i Vogel, erano una specie di mito a New York. Loro, con pochissimi soldi, in un piccolo appartamento grande come forse una volta e mezza questa stanza, hanno messo insieme una collezione di altissimo livello, sempre arrivando agli studi quando sentivano dell’artista prima che ci arrivasse chiunque altro. 
Poi l’artista certe volte aveva soltanto amici che lo seguivano quindi era anche contento che venisse questa persona a comprare i lavori, anche a prezzi veramente super super stracciati. Insomma alla fine i Vogel sono stati snobbati dai musei di arte moderna, dal Guggenheim, dal Whitney… A un certo momento sono venuti gli europei. Veniva sempre il curatore dello Stedelijk e però voleva soltanto gli artisti che loro possedevano di più anziani che erano Sol LeWitt e Robert Ryman. E i Vogel dicevano, per esempio, a questi curatori: “Guardate che c’è anche Robert Mangold, c’è Richard Tuttle, c’è Buetti, c’è Duran…” – “Sì, sì.. sono bravi, sono bravi…” eccetera.
A un certo momento, bam!, apro il New York Times in prima pagina vedo i Vogel, che erano tutti e due molto piccoli, erano messi su un divano e le loro gambe non toccavano il pavimento. Messi sul divano con un quadro dietro, ovviamente in uno scenario fatto apposta per l’intervista…
Essere sulla prima pagina del New York Times, con una foto grande così, è rarissimo, tutti lo vorrebbero! La collezione Vogel è stata donata alla National Gallery di Washington.
Per cui tutti i musei di New York di colpo li hanno invitati a cena, con i ricconi eccetera ma han perduto la collezione.
I Vogel avevano di me 400 opere, di Tuttle 600 e di Sol LeWitt 1000, credo, e così tanti altri.
Buetti no, ma Duran lo avevano… Praticamente alla National Gallery poi non c’era più spazio per contenere tutta la collezione. Allora inventarono una maniera, in cui diedero 50 lavori a 50 musei dei vari stati di New York. La collezione Vogel è dappertutto in America adesso.
E quel tipo di collezionista lì è quello con cui non devo far compromessi. Gli altri… 
Avevo un agente, a un certo punto, che rappresentava i miei monotipi. Di solito voleva che non incontrassi i collezionisti, però certe volte la curatrice, non so, di una grande azienda di assicurazioni voleva venire in studio. Allora lui mi ha detto: “Guarda, preparo io le stampe che gli facciamo vedere e tu tenta di parlare il meno possibile.” E allora eravamo l’agente, la collezionista, una giovane curatrice, e io. L’agente religiosamente portava un lavoro davanti alla curatrice e diceva: “Questo è ecc…” Diceva le cose che doveva dire.
A un certo momento, la terza volta, me lo ricordo ancora, è successo 30 anni fa, si è girata verso di me e mi ha detto: “E questa forma qui, com’è che l’è venuta?”
E io le ho detto: “No, guardi, l’ho presa… È una forma abbastanza tradizionale, organica di quello che io faccio, e in questo caso ho trasformato l’oggetto verso sinistra…” e vedevo la mia agente che faceva: “Fermati, fermati!” Perché la curatrice stava diventando pallida perché spiegavo cose che per lei erano troppo difficile da capire. Subito l’agente “Ecco la nuova…”
Questo è quando faccio i compromessi grotteschi.

R.R.: Puoi raccontare l’esperienza col P.S.1, di quanto sei intervenuto sui muri? 

L.P.: Lì c’è una piccola storia da aggiungere.
Mi interessava moltissimo l’architettura, ma non ero capace a studiare, non sono mai stato capace. L’unica volta che ho studiato, quando ero forzato a studiare perché dovevo insegnare la storia dell’arte.
Però mi ero iscritto all’architettura a Roma e mi interessava molto, ma non ero capace a studiare. Poi i professori lì erano… Tutto quello che dicevano era il contrario di quello che io pensavo e proprio non mi andava. Però a un certo momento mi è capitato come compagno di banco, eravamo in banchi a due a due, proprio per caso fra 200 studenti, è capitato una persona che poi divenne una persona influente per me, che era un anno più avanti di me, che poi divenne un politico, non un architetto: si chiama Massimo Teodori, è abbastanza conosciuto in Italia. Massimo mi disse che c’era una maniera diversa di pensare all’architettura, non come ci insegnavano. Lui era più preparato di me e era affascinato dalla Bauhaus infatti andava sempre in giro con il farfallino, come Gropius, ed era una persona molto articolata.
Mi diede informazioni che mi servivano molto. Faceva parte di un gruppo di studenti che seguiva i corsi in soffitta di un laureando che rimandava la laurea per poter influenzare gli studenti che potevano interessargli più tardi, quando diventava professore. Si chiamava Manfredo Tafuri ed è diventato una specie di mito nella storia dell’architettura.
Allora attraverso di loro, io che ero soprattutto interessato all’arte non applicata a uso e consumo, arte puramente di testimonianza visuale, chiamiamola pittura, scultura quello che vuoi, ho cominciato a capire che quello che non mi andava in quello che si trovava nell’insegnamento era proprio questo: mancava il contesto.
E questi studenti e Tafuri stavano studiando il contesto. Avevano probabilmente letto un po’ di filosofia francese, o stavano iniziando nello stesso momento, però ho cominciato a pensare anch’io: è vero che quando io dipingo ci sono dentro le semiotiche, storie e ramificazioni infinite che si applicano anche al luogo in cui io metto il quadro.
Per cui incominciai a inventarmi la formula che il quadro non è più un quadro appeso un muro, ma un muro attivato dal quadro.
Quando arrivai a New York, girando un po’ in giro, ho incominciato a fare amicizia con Gordon Matta-Clark, Richard Nonas, Susy Harris… Un po’ di persone che erano strastufe del minimalismo, del poppismo e tutta quella roba lì e stavano, sapendolo non sapendolo, studiando come intrecciare l’arte con il suo contesto e quindi questa mia esperienza di Tafuri, che conoscevo appena appena, si è stata innestata inevitabilmente con quello che a New York in quel momento stavano scoprendo, quel “contestualismo”, però pragmatico, senza teoria, molto americano.
Naturalmente pur essendo tutti molto sospettosi dei pittori, erano tutti scultori, costruttori eccetera mi accettarono con molto piacere perché pensavo come loro. Infatti fu proprio in base a questa idea del muro attivato dal quadro, non del quadro appeso al muro, che io feci la prima mostra alla John Weber Gallery, che era una galleria che era considerata anche pittorica.
E mi ritrovai a essere nel gruppo che incominciava a essere attivo, prima alla Clocktower, che è un istituto iniziato da quella persona che poi iniziò P.S.1, si chiama Alanna Heiss e che aveva avuto un’esperienza simile in Inghilterra, l’aveva importata dall’Inghilterra a New York.
E incominciai a lavorare con loro. Si incominciavano a fare azioni e io cominciai a sbizzarrirmi in tutte le direzioni. Mi sentivo liberissimo e da allora mi sono liberato, come ho fatto anche dopo. Ho fatto delle azioni con delle pistole, ho fatto delle azioni con dei suoni, con dei video, tutto quanto…
E questa situation specificity di cui parlavo prima, la specificità della situazione, si è cominciata ad articolare.
Quando aprì P.S.1 naturalmente venne a loro di chiedere anche a me di partecipare.
Chiesero anche ad un paio di altri pittori, però i pittori adattarono a loro pittura alla luce della finestra eccetera. L’unico che fece veramente opere che erano specificamente originate e radicate in quella situazione lì ero io.
C’erano dei muri scrostati con due colori: i bidelli sempre dipingono un colore lucido e più scuro sotto e opaco più chiaro sopra. Io stavo provando allo studio e avevo dei pannelli leftover, dei pannelli trascurati di legno che rimanevano lì nello studio, e presi e copiai 10 punti di incontro fra i vari colori di questi muri scrostati, dove tutti i bidelli della storia di questa scuola, dal 1920 al 1960, scuola abbandonata dove si faceva un centro d’arte, avevano accumulato questi colori. E copiavo gli strati di colore, fino a finire con quello che sembrava essere l’ultimo strato. E tautologicamente lo applicai su questa divisione.
Poi fece un altro lavoro che fu l’imitazione delle finestre a schema romanico, dalle quali costruii dei tunnel che colorai come i quattro colori della cabala, verde, giallo, rosso e blu, e bianco e nero aggiunti, ogni mese cambiando il colore. 
Anche quella specificamente derivato, un quadro tridimensionale con dei tunnel, un quadro attraverso il quale guardate il cielo, non da guardare come un quadro, ma attraverso il quale guardare. Perché quello specificamente, sorto proprio dal luogo in cui ero.
E questo lo faccio ancora adesso, quando mi chiedono di fare qualcosa in un luogo, incomincio, mi picco di poter inventare qualcosa che possa essere interessante anche in un luogo che non mi piace. Non so, anche una farmacia… Una farmacia forse mi piacerebbe, non so… anche un luogo che non so… difficile… cioè l’idea di poter far sorgere l’arte e userei alcuni gli ingredienti che mi piacciono li applicherei dentro e poi vedrei come si sviluppa.
Quindi P.S.1 è stata la confluenza della mia esperienza di architecture studies e “non studi” di architettura di Roma e la nascita del movimento site specific a New York P.S.1 e poi ramificato in tutto il mondo. Adesso è diventato parte della mia vita.
Quello che è interessante pensare è che quando io faccio un quadro su tela tirato sul telaio, come dicevo prima, una cosa che più banale di così non potrebbe essere, però per me site specific, cioè io tento di essere specifico alla “telicità”, alla “telaicità”, alla posizione di quella cosa. E quindi faccio un quadro, sì, ma visto da un altro da un’altra angolatura.
Cosa che mi libera immensamente, che non mi devo attenere né uno stile né uno schema né uno scopo né un piano, niente. 
Semplicemente gli ingredienti ormai spontaneamente entrano nella mia testa e confluiscono lì e poi faccio delle cose, delle scoperte.
Cosa vuol dire scoperta? Vuol dire che una cosa è coperta e non la vedi finché la scopri. Le scoperte possono essere non scoperte per voi, ma per me possono essere una scoperta, una cosa che io non avevo mai fatto e quindi così all’infinito…
Quando faccio la mia conferenza, di cui avete avuto un piccolo esempio prima, la conferenza da 40 anni ha lo stesso titolo. Si chiama “I prossimi 475 anni della mia arte e della mia vita”, proprio perché è inconclusiva questa cosa. Quando io muoio l’ultima parola sarà: “Porco cane, stavo appena incominciando!”

R.R.: L’osservatore, chi guarda e capisce il tuo messaggio: per te, che emozione ti dà questa condivisione?

L.P.: Ottima domanda! Da un lato potrebbe lusingarmi, invece è un campanello d’allarme, come subito suonasse una lampadina rossa. Cioè io vorrei che lo spettatore entrasse in una condizione di malinteso creativo e “misinterpretasse” la mia opera, visto che non ho un messaggio specifico che sto mandando. 
Se lo spettatore tocca, una spettatrice tocca certe direzioni, certe tangenti che io riconosco come essere state quelle che mi sono capitate, che ho trovato, senza neanche volerlo, mentre lo facevo, da un lato sono lusingato, dall’altro devo stare molto attento a non dire che forse, a non credere che forse sono stato troppo banale nella mia specificità. Però adesso la banalità a me interessa enormemente, perché odio l’idea di originalità.
E quindi a un certo momento io posso solo parlare di certi spettatori, certi spettatori dicono cose che proprio non mi vanno giù e io non dico niente e vedo che loro hanno fatto il loro meglio rispetto a quello che sono loro, benissimo!
Però un giorno ero a Torino, una galleria mi ha fatto fare un murale di tele non tirate su telaio, molto alto, oltre 4 metri, e stavo dipingendolo in bianco e nero. Erano quei disegni che piacevano a te, Anna. Una parete enorme di queste forme. Ed ero il loro lì, due o tre giorni, a fare questa cosa.
Un giorno entra, la galleria era nuova, inaugurava con questa mia opera, è venuto il tecnico del telefono, un uomo di 40 anni col suo assistente, non si sono accorti che ero lì.
Si sono messi a mettere i tubi, a misurare eccetera hanno fatto il loro lavoro e sulla via d’uscita a un certo momento vedono che c’è questo tizio che stava riempiendo… Avevo quasi finito, quasi… non so mai quando sono finiti i lavori! Però avevo quasi riempito queste tele. Hanno messo giù gli strumenti, me lo ricordo ancora, mi hanno detto: “Cos’è?” Ho detto: “È un quadro, un dipinto” e mi hanno detto: “A che cosa serve?” – “Lo faccio come arte, sai, sono un artista, lo faccio perché lo mostrerò alla gente!” – “Cosa vuol dire?” mi ha detto. “Guarda, io non lo so cosa vuol dire, a dir la verità, proprio non lo so. Però ditemi voi cosa ci vedete”.
Allora il capo, che aveva 40 anni, si è fermato e ha guardato, con un lungo sguardo scannerizzava tutte queste immagini, figure astratte, realistiche, grottesche, delicate, fiori mostri, tutto quanto, puntini… Poi, era napoletano, si è girato verso di me… Io ho usato la sua risposta già per un quadro e per due mostre! Mi ha detto: “È come noi”. Gli ho detto: “Sì, effettivamente è come noi. Cosa vuoi dire, con è come noi?” – “Siamo dadi gettati nel mondo” Questo è uno spettatore creativo perché gli ho aperto la diga e gli ho detto che poteva dire quello che voleva, che non doveva sentirsi soggetto a qualsiasi altra opinione e lui aveva abbastanza capacità di farlo. Quelle lì sono cose meravigliose.
E succede spesso sia con gli eruditi e con i non eruditi, certe volte, forse il 60%, non eruditi.
Però anche gli eruditi molto spesso sanno aprirsi, certe volte viene il critico che crede di avere tutte le preparazioni: se riesco a scioglierla o scioglierlo, vengono fuori le cose magnifiche.

R.R.: Un’altra domanda e un po’ una preghiera, visto che ci sono ancora tanti tanti anni da realizzare: vai passo per passo o vedi già la strada che vuoi percorrere? O è giorno per giorno, ora per ora?

L.P.: Questa è un’ottima domanda a Lucio Pozzi, perché io faccio un gruppo di cose, poi mi annoio, mi disturba allora tento di trovare altri ingredienti per mettermi nei guai, per cambiare.
Lavoro con grande entusiasmo preparo per esempio 10 pannelli per fare questa cosa che penso di fare, ma poi non viene mai, non succede assolutamente mai quello che intendo fare, viene sempre qualcos’altro. 
Il panico e l’eccitazione della creatività è quella. Non mi devo arrendere, cioè io ogni volta che penso di sapere cosa farò, poi non lo faccio.
E mi disturba, non è che mi rende felice questo, però non posso fare altro che tuffarmi. Puoi tenere il microfono un momento? Agli studenti dico: “Se non vi gettate senza paracadute nel baratro e non agitate le braccia del panico, non scoprite che avete le ali!”
E questa è la mia risposta migliore per quello.

R.R.: Bellissimo, bellissimo! Grazie, una bella risposta anche per noi.

L.P.: Lo spettatore deve fare la stessa cosa…

R.R.: Volare, tentare di volare!

L.P.: C’è perfino la canzoncina, la famosa “Volare, volare” Una cosa abbastanza banale da dire, ma è vera.

R.R.: Ti ringraziamo tantissimo. Grazie, è stato magnifico. Grazie!

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