Heritage al femminile: Workout magazine incontra Michela Conterno di LATI S.p.A.
Lo so, più di uno di voi avrà alzato il sopracciglio su questo titolo perché la plastica è, non a torto, la grande imputata del nostro secolo. Sono sufficienti pochi numeri per farsi un’idea della gravità del problema: sul sito del Parlamento Europeo si legge che negli oceani sono presenti più di 150 milioni di tonnellate di plastica, quantità il cui incremento annuale viene calcolato in un range che va da 4.8 a 12,7 milioni di tonnellate. Jenna Jambeck, docente di ingegneria ambientale dell’Università della Georgia, qualche anno fa ne diede un’immagine piuttosto sconvolgente: come se ogni minuto di ogni giorno dell’anno un camion pieno zeppo di plastica la scaricasse in acqua. Né va meglio negli ecosistemi terrestri, anzi: secondo un recente rapporto della FAO i suoli sono molto più saturi di rifiuti plastici rispetto ai mari e molti di essi finiranno inevitabilmente, attraverso il ciclo delle acque, negli oceani alimentando un circolo vizioso che non sembra vedere la fine. Con l’aggravante che tutti ormai conoscono: la plastica è praticamente indistruttibile, i manufatti semplicemente si sbriciolano nel tempo – ma parliamo di un migliaio di anni mal contati – in particelle sempre più piccole (le cosiddette micro e nanoplastiche) che si disperdono nell’ambiente e ormai sono presenti ovunque, perfino sulla cima dell’Everest e nei ghiacci artici, entrando inevitabilmente nelle catene alimentari. Così anche noi mangiamo quotidianamente una certa quantità di plastica, che tutta salute proprio non è.
Ma è possibile immaginare un futuro plastic free? Difficile, quasi utopico vista la versatilità di questo materiale e il suo basso costo. Ma forse l’ottica giusta per affrontare il tema è un’altra. In un’intervista raccolta da Investigate Europe, Helmut Maurer, ex funzionario della Direzione Economia Circolare alla Commissione Europea afferma: «Non c’è nulla di intrinsecamente mostruoso nella plastica. Quello che è mostruoso è il nostro utilizzo delle plastiche monouso. Da questo deriva la pessima immagine pubblica della plastica nonché l’inquinamento». Un’affermazione sulla quale Michela Conterno, CEO di LATI, senza dubbio concorderebbe. La sua azienda produce proprio plastica, più precisamente termoplastici tecnici per uso ingegneristico: «Il nostro prodotto finito è all’apparenza semplice plastica in granuli – spiega Michela – ma in realtà nella matrice plastica andiamo a inserire una serie di componenti additivi, dal vetro per rendere il materiale più resistente a composti chimici che gli impediscono di bruciare, in formulazioni molto complesse nelle quali la quantità di plastica presente alla fine si riduce di molto perché noi la trasformiamo». Queste plastiche «speciali» vengono utilizzate da un parco clienti che si estende ben oltre i confini europei per realizzare innanzitutto componenti di sicurezza nell’ambito elettrico ed elettrodomestico, per esempio negli interruttori, e negli ultimi tempi anche in campo automotive per quanto concerne le auto elettriche. Ma sono abbondanti anche le applicazioni nel mondo medicale, cosmetico e perfino sportivo, insomma ovunque ci sia bisogno di materiali resistenti agli stress meccanici o alle alte o basse temperature o al contatto chimico oppure autolubrificanti o ancora elettricamente conduttivi. Volendo sintetizzare, non vediamo il logo Lati sui manufatti che ci circondano nella vita di tutti i giorni, ma possiamo essere certi che le plastiche che provengono dallo stabilimento di Vedano Olona ne sono spesso parte integrante.
«Il nostro core business è nobile perché incentrato per lo più sulla sicurezza di cose e persone» sottolinea Michela «I nostri prodotti prevengono cortocircuiti, incendi, infortuni. In più sono durevoli e allungano «la vita» dei componenti in cui entrano, qualità per noi fondamentale perché crediamo nell’economia circolare di cui l’assunto principale è che gli oggetti devono durare il più a lungo possibile. E infine mettiamo a disposizione dei clienti le nostre competenze tecniche che sono forti di 80 anni di attività nel settore delle plastiche arricchite. Lo scopo? Contribuire a diffondere una corretta cultura delle materie plastiche per prevenire gli sprechi ed evitare che i componenti in cui entrano diventino rifiuti inquinanti. Ecco perché supportiamo i nostri clienti nella corretta progettazione dei beni per aumentarne la durata oppure per facilitarne il disassemblaggio e il recupero dei materiali a fine vita del componente stesso». Il tono è pacato, ma Michela è molto decisa nel sottolineare che la plastica non va demonizzata e che bisogna invece adoperarsi, a partire dalla scuola, per guidare il comportamento delle persone per quanto concerne il suo utilizzo.
Proprio l’approccio virtuoso al business da parte di LATI ha avuto come sbocco naturale il suo passaggio a società benefit: «Questo istituto giuridico non ha implicato un cambiamento nel nostro modo di agire perché era già nel nostro DNA e ci siamo immediatamente riconosciuti in esso, così come non ha rappresentato alcuna forzatura l’inserimento del beneficio comune a statuto perché a mio parere deve sempre essere un obiettivo intrinseco all’attività di un’impresa. Diciamo che, mentre le aziende puntano in genere molto, come è comunque giusto che sia, al territorio e al benessere delle persone, noi siamo partiti proprio dal prodotto, dai processi: vogliamo che le nostre plastiche siano sicure, durevoli e vengano utilizzate per scopi etici». Ciò significa anche rinunciare al lucroso – mai come adesso – settore delle armi nel quale la plastica è molto appetibile: «Nell’ultimo periodo abbiamo ricevuto moltissime richieste, soprattutto da fabbricanti di droni, ma il nostro codice etico ci impedisce di vendere il nostro prodotto per utilizzi che nuocciano all’incolumità della persona».
Tuttavia per Michela la scelta di essere società benefit ha radici più profonde e si appoggia a una visione più contemporanea della cultura imprenditoriale: «Il beneficio comune rappresenta anche il superamento del capitalismo tradizionale. Non si deve lavorare solo per il profitto, non mi sveglio al mattino pensando ai dividendi che distribuisco a me e alla mia famiglia, quello che mi motiva quotidianamente è adoperarmi per un progresso della società, per lasciare un’impronta che impatti positivamente sulle generazioni future. Poi, diciamolo, il profitto non è una malattia ed è necessario e doveroso, anzi non fare profitto è quasi immorale perché sottrae risorse al sistema, però non deve essere il fine ultimo del nostro lavoro, ma un mezzo per generare valore economico-sociale».
L’attenzione all’economia circolare (anche se all’epoca non si chiamava così) è presente in LATI fin dalla sua fondazione, nel 1945, a opera del nonno di Michela, Cosimo Conterno. Peculiare figura di imprenditore perché «non era il tecnico che inventa un prodotto e poi su quello crea la sua azienda. Faceva invece il commercialista ed era un uomo d’affari che investiva in nuove attività, aveva fiuto, capiva quali erano le esigenze del momento e rispondeva offrendo il prodotto giusto. Non posso nemmeno dire che avesse una passione o un interesse particolare per la plastica, no, semplicemente aveva intuito che sarebbe stata il futuro». La prima attività dell’azienda è la produzione di compound di acetato di cellulosa ricavato dal riciclo di manufatti in plastica come maschere antigas e altri residuati bellici oltre che da sottovesti e biancheria sintetica. La sede è Vedano, scelta per la sua vicinanza a Milano, che consente a Cosimo di fare avanti e indietro dal suo studio di commercialista (che non abbandonerà mai), ma nel contempo è più sicura della città meneghina, spesso nel mirino dei bombardamenti visto che la guerra è ancora in corso. La forza lavoro è costituita solo da donne perché «innanzitutto di uomini non ce n’erano visto che erano stati tutti arruolati e poi perché le donne erano molto più brave nell’attività di cernita, capivano al volo la qualità del materiale, sapevano scegliere».
Negli anni del boom economico l’attività di LATI decolla, complici anche le tante prestigiose conoscenze che Cosimo ha intessuto grazie al suo lavoro, prima fra tutte la relazione con Montedison – «in famiglia si diceva fosse amico di Natta» racconta Michela –. In quel ventennio – il magico periodo Cinquanta-Sessanta, quello definito «del miracolo italiano», in particolare si affermano sul mercato due prodotti ancora presenti nella produzione odierna: le plastiche rinforzate con la fibra di vetro e quelle flame retardant, che non bruciano. Ma alle porte – siamo entrati negli anni Settanta – si affaccia già il primo passaggio generazionale, con tutte le problematiche che si porta appresso. Cosimo Conterno ha tre figli: il maggiore, Giovanni, ha studiato ingegneria ed è il predestinato a guidare l’azienda anche perché molto competente su tutto quanto attiene ai processi di estrusione e ai macchinari a essi deputati, il secondogenito è Francesco che invece ha scelto economia diventando commercialista, e infine c’è una figlia che, come era consuetudine ai tempi, non avrà alcun ruolo nell’azienda di famiglia. Giovanni entra presto in LATI, ma altrettanto presto si ammala diventando rapidamente inabile alla gestione dell’impresa. Subentra Francesco, «the spare», il padre di Michela.
Anche lui è stato un personaggio atipico: «Io lo definisco un pioniere del work-life balance – sorride Michela – perché non si è mai dato al 100% all’azienda. Veniva sì in fabbrica, ma all’inizio non più di due o tre volte alla settimana perché, come già suo padre, aveva scelto di portare avanti parallelamente l’attività da commercialista. E comunque anche dopo non ha mai voluto abbandonare i suoi tanti interessi, i viaggi per esempio, il mondo del well-being, l’attenzione per l’erboristeria, ha addirittura fondato un’associazione dal titolo quanto mai rivelatore del suo carattere, Associazione Benessere. Poi è stato anche un ottimo imprenditore, in quella però che era l’accezione del tempo, cioè con una forte impronta paternalistica e una compiaciuta esternazione del suo potere, gli piaceva insomma essere riconosciuto come qualcuno che apportava valore al territorio».
Rapporto difficile quello tra Michela e suo padre, in primis per il divorzio turbolento dei genitori che la segnerà anche nei suoi primi passi in azienda. Da questa però Michela è cresciuta ben lontana: «La mia giovinezza non è stata “a pane e plastica”, quasi nemmeno sapevo che la LATI esistesse. È dopo che me ne sono innamorata». La sua formazione è classica, con il padre contrario perché avrebbe preferito un indirizzo di studi più coerente con un possibile ruolo futuro nell’attività di famiglia, magari ragioneria. Ma in questo caso sono i nonni materni, esuli dalmati di grande spessore culturale, a far pesare la loro influenza e Michela studierà il greco e il latino. Il passo successivo, l’università, vedrà un cambio di direzione: economia. Non l’economia della Bocconi, ma quella della Cattolica, «quella “classica”, da scienze sociali» che appassiona Michela e la spinge a entrare in azienda. Gavetta come nella migliore delle tradizioni: in amministrazione. Per poi passare al controllo di gestione e infine al commerciale in un percorso non pianificato e, cosa che suona quasi incredibile, non discusso tra lei e suo padre: «Lui non mi ha mai disegnato il futuro, nemmeno ne abbiamo mai parlato. Semplicemente sono stata buttata allo sbaraglio all’interno di LATI, assegnata a qualcuno di volta in volta».
Il commerciale comunque piace assai alla giovane Michela perché significa viaggiare, coltivare l’adattabilità, confrontarsi con culture diverse, cosa che aveva già sperimentato durante gli anni del liceo grazie a un programma di scambio culturale che l’aveva portata in Australia e a cui riconosce un’importanza basilare per la sua formazione: «mi ha plasmato una forma mentis cosmopolita e interculturale, mi ha fatto conoscere realtà, come l’ambientalismo, di cui in Italia ancora nessuno parlava».
In quel settore Michela se la cava davvero bene, si muove con scioltezza tra continenti diversi, apre nuovi mercati in Cina, in India e… comincia a diventare scomoda. «Forse avevo pestato i piedi a qualcuno o forse semplicemente mio padre non era ancora pronto a pianificare il passaggio generazionale, fatto sta che si è creata una situazione di conflitto che mi ha portato a decidere di andarmene. Quello è stato il mio vero switch»
Dove andare, cosa fare? Inizialmente Michela cerca di rimanere nel settore della plastica, evitando i concorrenti diretti di LATI, ma non si concretizza nessuna possibilità nonostante i tanti colloqui. Un paio di questi sono mediati da Michael Page e sono proprio loro, alla fine, che le faranno la proposta di lavoro che forse Michela non si sarebbe mai aspettata: entrare nell’agenzia presidiando il settore gomma e plastica. Lei accetta: per tre anni farà la recruiter, un’attività a cui si appassiona perché «lì facevo sia ricerca e selezione sia il commerciale, quest’ultimo molto difficile ma anche molto formativo perché un conto è vendere prodotti, come facevo in LATI, e un altro vendere servizi. Per di più nel periodo di recessione coincidente con il 2008, 2009 e 2010 quando i servizi proprio non li voleva nessuno… mi sono presa tante di quelle porte in faccia…». Il suo curriculum in quegli anni si arricchisce anche di un master in HR: «Lavoravo tutta la settimana per 12-13 ore al giorno e durante i weekend frequentavo le lezioni. Mi sono ammazzata di fatica, ma ho acquisito anche questa competenza».
Nel frattempo LATI annaspava: un investimento negli USA non era andato a buon fine e l’azienda cominciava ad avere problemi economico-finanziari, in più nel padre di Michela si erano manifestate le prime avvisaglie della malattia che aveva colpito il fratello Giovanni. Così in quel periodo, ad aiutarlo nella gestione quotidiana dell’azienda era arrivata la Confindustria nella figura di Aldo Tucci, tuttora nel consiglio di amministrazione e, parole di Michela, «la persona chiave della mia vita». È proprio Tucci a premere su Francesco Conterno perché richiami la figlia, ne strappa il consenso a una condizione: che Michela non stia in Italia, che faccia «tre anni in Francia, tre anni in Cina, tre anni in Germania…», che insomma giri per le filiali di LATI. Tucci abbozza e propone a Michela di rientrare in azienda occupandosi del ramo francese che, forse anche approfittando del vuoto di potere, si stava «allargando» un po’ troppo assorbendo la gestione di tutto l’export nell’Europa dell’Est: il compito di Michela sarà di riportarlo sotto il controllo diretto italiano. Seguiranno tre anni entusiasmanti, nel corso dei quali Michela trova nel direttore della filiale il suo «mentore decisivo»: «Mi ha preso in carico e mi ha formata con una lungimiranza e un’illuminazione pazzesche. La sua influenza è stata fortissima e sì, forse mi ha un po’ formattata a sua immagine e somiglianza, ma sempre con l’obiettivo di rendermi poi indipendente nelle mie scelte imprenditoriali».
Il ritorno in Italia sarà segnato dalla sua nomina ad amministratrice delegata, nel 2016: è ormai il momento per Francesco Conterno di affidare «lo scettro del comando» alla figlia, anzi alle figlie dato che Michela ha una sorella gemella, Livia. Michela l’ha costretta «sotto tortura», come ammette ridendo, a entrare nel consiglio di amministrazione di LATI, una forzatura perché il suo percorso è stato completamente diverso: laurea in scienze naturali, specializzazione in etologia e poi la scelta di aprire un centro di addestramento cinofilo in Friuli dove tuttora vive. «L’ho voluta coinvolgere perché anche se l’azienda la gestisco io, e lei si occupa solo degli affari sociali e delle attività filantropiche, dal punto di vista patrimoniale è proprietaria tanto quanto me. Anzi, se devo dire la verità è più lei ad avere la testa imprenditoriale, io ho svolto ruoli da manager, non da imprenditore, per gran parte della mia vita».
Azienda tinta di rosa quindi, ma dove purtroppo la presenza femminile tra i dipendenti è ancora bassa arrivando appena al 16%. Le motivazioni sono le solite che lamentano gli imprenditori di quei settori che vengono considerati storicamente «maschili» come i metalli e la plastica: candidature da parte di donne non ne arrivano, ma soprattutto sono poche le ragazze che scelgono discipline STEM all’università. «Le donne rappresentano oggi il 30% dei laureati in ingegneria, ma se andiamo a scorporare il dato vediamo che quelle che si sono specializzate sui materiali sono ancora meno» sottolinea Michela. Ed è un peccato anche perché il fatto che la proprietà di LATI sia interamente femminile ha portato naturalmente l’azienda a essere molto sensibile al tema della conciliazione famiglia lavoro: «Uno dei nostri punti di forza è la flessibilità oraria: abbiamo adottato lo smartworking fino a 5 giorni su cinque. Per me la libertà è il fattore motivazionale più forte, la voglio per me e mi piace concederla ai miei collaboratori. Lo smartworking non è obbligatorio, lo si può fare come anche no. E se poi si vuole ritrovare il contesto conviviale, «fisico», con i colleghi, ci sono comunque riunioni periodiche di team che servono perfettamente allo scopo. È stata una scelta molto apprezzata non solo dalle donne, ma anche dagli uomini, oggi più consapevoli dell’importanza del loro ruolo all’interno della famiglia». Ma l’attenzione alla genitorialità da parte di LATI si è estrinsecata anche in altre iniziative, per esempio nel periodo del Covid era stato messo a disposizione dei collaboratori un servizio di baby sitting a domicilio per consentire ai genitori di lavorare da casa senza doversi interrompere di continuo per accudire i figli.
Ascoltando Michela si capisce che non è per caso che LATI abbia lo scorso anno ottenuto la certificazione Great Place to Work, sulla base di un sondaggio condotto tra i dipendenti sia italiani sia esteri: la maggioranza ha dichiarato di sentirsi trattata in modo equo e imparziale, di lavorare in un posto sicuro e di essere orgogliosa dell’azienda e del suo impegno nei campi delle risorse umane e della responsabilità sociale. Il desiderio condiviso è quello di restare a lungo in azienda. «Effettivamente – commenta Michela – siamo un’isola felice, abbiamo una buona capacità sia di fidelizzare le persone – e l’effetto principale è il basso turnover – sia di attrarre i talenti. I nostri collaboratori sanno che LATI tiene sempre tutti a bordo nel senso che i cambiamenti si fanno avvalendosi innanzitutto di chi è già inserito in azienda, facendolo evolvere contemporaneamente ai cambiamenti di mercato, ai nuovi trend. Poi, certo, la nostra è un’azienda che cresce e che quindi sa, e deve, innestare nell’organico anche nuove competenze prese dall’esterno, ma senza lasciare indietro chi fa già parte della squadra». Va da sé che questo si traduce anche in tante ore di formazione trasversale a tutta l’impresa su tematiche generali come la sostenibilità e la sicurezza che si vanno ad aggiungere a quelle che servono a integrare eventuali lacune nelle competenze tecniche. E ben vengano le richieste individuali anche se – la voce di Michela si tinge un po’ di delusione – «non è così comune che ci venga chiesta più formazione rispetto a quella che offriamo».
Ai giovani questo «biglietto da visita» piace ma forse anche perché sentono in Michela un genuino rispetto nei loro confronti: «Dai giovani ho imparato e imparo tantissimo. Innanzitutto a trovare un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro, cosa che mi era estranea ed estranea anche alla mia generazione per la quale il lavoro veniva prima di tutto, e che si è tradotta in un maggior benessere psicofisico. Guardandoli poi con l’occhio del recruiter li trovo molto consapevoli del loro valore sul mercato, sanno stimare economicamente le loro competenze ma non si fermano solo all’aspetto retributivo quando valutano un’offerta: vogliono piani di carriera, sono molto esigenti per quanto concerne il contenuto del lavoro e di un’azienda non sono interessati esclusivamente alla solidità finanziaria, ma anche all’affinità valoriale con essa. Addirittura c’è stato chi mi ha detto di aver scelto LATI sulla base del report di sostenibilità così come altri sono andati a cercare in rete mie interviste per capire con chi avrebbero avuto a che fare. Tutto questo è altamente positivo».
In questi anni l’azienda ha investito moltissimo sull’automazione: «Se sul prodotto siamo sempre riusciti a stare al passo dei tempi e a fare innovazione, sul processo eravamo rimasti un po’ indietro e anche se questo non ha subito nel corso degli anni delle trasformazioni radicali, è anche vero che volendo aumentare la produttività, ridurre gli sprechi e incrementare il risparmio energetico dovevamo intervenire. Cosa che abbiamo fatto con il risultato che oggi LATI è una fabbrica più efficiente, produttiva, sicura e sostenibile a 360 gradi». Sulla digitalizzazione c’è invece ancora parecchio da fare e Michela è onesta quando ammette che pensava richiedesse meno tempo. D’altra parte si è anche dovuta misurare con una certa resistenza interna al cambiamento: «la trasformazione digitale si fa innanzi tutto con le persone e non è facile convincerle soprattutto se hanno delle competenze forti e non vedono un motivo chiaro e immediato per fare diversamente da sempre». Ma un primo passo, l’adozione del lean management, è stato compiuto: «Sono convinta che prima di una digitalizzazione spinta conti l’organizzazione per spianare le inefficienze. In caso contrario si rischia semplicemente di fare con il computer quello che a fino a poco prima si faceva con un pezzo di carta e una matita, il che non ha senso, non è vero cambiamento e alla fine si è “addomesticato” un sistema informatico». Michela è più che soddisfatta dei risultati che comincia a vedere: snellimento dei processi, coinvolgimento delle persone, dal basso verso l’alto, che crea motivazione. Per lei questa è la svolta che porterà LATI a essere una vera e propria smart factory.
E per quanto concerne il prodotto? Tante collaborazioni con l’università – «abbiamo ottimi rapporti con il Politecnico di Milano e le prestazioni di alcune famiglie di prodotti sono oggetto di tesi di laurea» – ma la ricerca e l’innovazione sono tutte «in pancia» all’azienda: «Il fatto è che il nostro lavoro risponde a determinate esigenze del cliente. Certo seguiamo i trend, ma non possiamo svincolarci dai requisiti di progetto del cliente e questo ci rende meno appealing per i laboratori di ricerca accademici. È proprio difficile che siano loro a presentarci una nuova formula». Da sottolineare che a dirigere il settore R&D, e da prima dell’arrivo di Michela, è una donna: «La sua figura per me è stata di grande ispirazione e anche di sprone per valorizzare il merito delle donne che lavorano qui e abbattere ogni gender gap».
«Il management al femminile è basato molto sul coinvolgimento e sulla partecipazione, è più improntato alla delega, alla responsabilizzazione e alla fiducia, attribuisce alla diversità di opinioni la capacità di migliorare le decisioni, anzi io sento proprio il bisogno di arricchirmi con contributi altri». Il suo desiderio di confronto l’ha portata a entrare in un network dal nome «manifesto»: Women in plastics. L’associazione, nata spontaneamente da un piccolo gruppo di imprenditrici desiderose di affrontare insieme i temi dell’innovazione e della modernizzazione delle loro realtà, oggi comprende più di 80 persone ed è attivissima sia sul fronte dell’acquisizione di skill come la comunicazione assertiva, necessaria per «renderci sempre più consapevoli del nostro ruolo e capaci di porci in modo credibile» sia sull’empowerment al femminile. Intanto si trovano alle fiere, fanno il punto sulle reciproche situazioni, si supportano reciprocamente. Michela ne è entusiasta anche perché, fin dall’inizio, le iniziative intraprese sono state all’insegna della concretezza, «ci siamo date subito una tabella di marcia e una struttura».
Ma non è l’unico suo impegno «extra LATI» perché di recente è diventata Presidente del settore gomma plastica della Confindustria di Varese, una carica che la riempie di orgoglio: «È stata una bellissima sorpresa e mi ha fatto immensamente piacere anche perché so di poter dare in questo campo un reale contributo e perché riesco comunque a conciliarla con tutte le altre mie attività». Sì, perché Michela è anche impegnata con la LIUC di Castellanza ed è consigliera indipendente di un’altra realtà industriale». Si ferma pensierosa: «A un certo momento dovrò fare delle scelte, ma alla Confindustria non ho potuto dire di no». Classico approccio multitasking? Forse. O forse «vizio» di famiglia…
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