Heritage

La grande scommessa dell’imprenditoria femminile

WORKOUT MAGAZINE INTERVISTA VALENTINA PARENTI.

Le imprenditrici la adorano. Perché Valentina Parenti, ideatrice e anima di GammaDonna, da vent’anni, con la sua associazione e il premio a essa collegato, è punto di riferimento per l’imprenditoria femminile, a lungo poco valorizzata e considerata. Il suo mantra è l’innovazione ed è soprattutto su questo tema che forma e supporta giovani, e anche meno giovani, donne attraverso eventi e iniziative che la vedono bussare alle porte di investitori e istituzioni che rispondono, c’è da dire, sempre con entusiasmo. Un’innovazione che può avere tante facce, ma che negli ultimi anni ha visto entrare di gran passo anche la tecnologia con le researchpreneur, nuove figure che fanno a pezzi tutti gli stereotipi sul fatto che l’imprenditoria più adatta alle donne sia quella connessa alla “cura”.

Workout magazine l’ha intervistata.

 

Cominciamo da Valentina. Dunque, lei è un’imprenditrice, oltre a essere una professionista che aiuta le imprenditrici (ma di questo parleremo dopo), in quanto titolare di un’agenzia di comunicazione che è di famiglia. Viene quindi da pensare che il suo percorso professionale si sia naturalmente indirizzato, fin dall’inizio, all’attività che era di sua madre. È andata così? O è stata una vocazione?

Come dice giustamente lei, sono figlia d’arte (ride) e, come accade per tutti i figli d’arte, la vocazione è un po’ indotta. Di solito si reagisce a quella che sembra una strada già segnata con due modalità opposte: o aderendo pienamente a essa, oppure occupandosi decisamente di altro. Nel mio caso diciamo che ho provato a percorrere una strada autonoma, allontanandomi anche fisicamente dal “luogo del delitto”, perché in giovinezza ho studiato all’estero abbastanza a lungo, e all’estero ho fatto più esperienze. C’era forse il desiderio di crearmi un’indipendenza, una mia identità, più che una mia figura professionale. Diciamo che penso di essere quella che sono anche grazie al fatto di aver vissuto lontano dalla famiglia, quando non c’era Internet, non c’era Whatsapp, e quindi erano rare le possibilità di sentirsi. Si era a tutti gli effetti lontani, in culture che erano straniere ma non per questo aperte, perché si trattava spesso di posti piccoli e sperduti. Mi sono ritrovata per esempio ai confini con il Canada, in Minnesota, piuttosto che in Terra del Fuoco, a Ushuaia, luoghi nei quali la mentalità era sovente chiusa e limitata. Questo però ha contribuito a formarmi come persona lontana dai pregiudizi. Aperta al cambiamento, curiosa e amante – fin da piccola – della diversità. Ho sempre concepito la diversità come un grande valore, le mie amicizie per anni sono state le più disparate, diverse tra loro per etnia, lingua, cultura, background. Dopodiché sono stata richiamata all’ordine (ride) e ho abbracciato questa professione che in realtà mi si cuciva molto bene addosso: l’agenzia è stata fondata da mia madre, e io in molto assomiglio a lei, soprattutto come indole. Inizialmente non è stato facile, come per tutti i passaggi generazionali – cosa tipicamente italiana; poi però, a un certo punto, è arrivata GammaDonna. Nata come un progetto d’impresa, inizialmente in risposta a un’esigenza di un cliente, GammaDonna mi ha consentito di tirare fuori quella vocazione al “sociale” che in qualche modo albergava già in me. Perché fin da subito, era il 2004, in un contesto in cui ancora non si parlava di questi temi, né se ne sentivano l’urgenza e la necessità, abbiamo intravisto un gender gap fortissimo. GammaDonna mi ha consentito di dare un senso alla professione di comunicatrice perché vi ha portato un purpose, una finalità più alta. Quella che prima era per me semplicemente una professione, bella ed entusiasmante ma un po’ vuota, con GammaDonna ha assunto tutto un altro valore e ne ho capito appieno le potenzialità.

 

Vogliamo andare più in profondità su questa associazione e sul premio che a essa è collegato?

GammaDonna è un’associazione no profit, che dal 2004 lavora proprio per contribuire a ridurre il gender gap in campo economico e lo fa attraverso la valorizzazione dell’iniziativa imprenditoriale femminile, mettendone in luce la capacità innovativa. L’obiettivo primario di GammaDonna è quello di contribuire alla crescita dell’imprenditoria femminile, agevolando la creazione di connessioni di valore, attraverso iniziative dedicate che prevedono anche un importante networking tra imprenditrici, imprenditori, mondo delle big corp, investitori e istituzioni. Siamo partiti dal fatto che in Italia solo un milione e trecentomila imprese sono a conduzione femminile, circa il 22% del totale, un valore a cui siamo fermi da quando faccio questo lavoro. L’imprenditoria innovativa è una nicchia ancora più piccola, parliamo del 13% sul totale del mondo dell’impresa italiana. Ci è stato subito chiaro come l’imprenditoria femminile e giovanile costituisse un giacimento inesplorato e al tempo stesso un enorme spreco di talenti perché non valorizzata nel nostro Paese, quando di fatto rappresenta una leva importantissima di sviluppo economico e sociale. Unioncamere, lo scorso anno, ha documentato per la prima volta una riduzione nella nascita di nuove imprese femminili. Ma nell’ambito di questo calo, ha anche registrato una crescita importante nel numero di imprese innovative a conduzione femminile. Questo significa che l’innovazione è un fattore fondamentale non solo per lo sviluppo di nuove imprese, ma anche per la loro crescita. Ed è su questo che abbiamo puntato: un’innovazione che per noi non è solo tecnologica, ma anche valoriale, gestionale, organizzativa, di mentalità, di mindset come si dice oggi.

 

E il premio? Evidentemente è un “di cui” di quanto detto, ma in base a quale criterio viene attribuito? E chi giudica le concorrenti e stabilisce le vincitrici?

Anch’esso nasce nel 2004 proprio come strumento fattivo per mettere in luce la qualità e la vitalità dell’imprenditoria femminile innovativa italiana che sembrava inesistente ma che invece, dati alla mano, ha dimostrato di dare un contributo importante alla nostra economia. Con una giuria molto variegata e qualificata, composta da investitori, da manager, imprenditori e imprenditrici, e presieduta da uno dei più importanti venture capitalist italiani, Gianluca Dettori, il Premio si pone l’obiettivo di sradicare pregiudizi andando a fare scouting di modelli innovativi di fare impresa, per evidenziare role model contemporanei ai quali le nuove generazioni, ma non solo quelle, si possano ispirare. Negli anni si è trasformato radicalmente, anche a causa della drammaticità della pandemia che per il Premio si è rivelata invece essere un momento di rigenerazione e ha dato le ali a un progetto rimasto nel cassetto per troppo tempo: il format TV.

 

Questa è una caratteristica molto interessante dell’associazione.

Sì, questo nuovo format ci ha consentito di ampliare notevolmente il pubblico e quindi di amplificare la nostra mission, che è quella di promuovere la cultura d’impresa. Ma soprattutto ci permette, proprio perché andiamo fisicamente con la nostra troupe nelle case e nelle aziende delle imprenditrici, di tracciare di loro un racconto diverso, più “tridimensionale” come lo definisco io, che descrive non solo la figura professionale, ma anche la donna che le “sta dietro”. E che mette in luce più efficacemente anche i fattori che hanno contribuito al loro successo. Grazie anche al format, poi, siamo stati inseriti nell’Italian Tech Week, il più importante evento di tecnologia e innovazione del nostro Paese, un riconoscimento che ci rende particolarmente orgogliosi.

Da quest’anno il Premio subisce un’ulteriore evoluzione e diventa un percorso, oltre che di valorizzazione, anche di accelerazione ed empowerment dell’imprenditoria femminile. Insieme a investitori e partner eccellenti abbiamo dato il via a un road show con tappe a Roma, Milano e Torino e con eventi che consentono alle imprenditrici di acquisire strumenti utili a potenziare il proprio racconto d’impresa, a pensare fuori dagli schemi attraverso l’approccio del design thinking e, al contempo, fare networking ad alto livello, un passo chiave per il business al quale le donne sono storicamente poco abituate. Questa è la nuova anima del Premio che intercetta alcuni stimoli e spunti che il nostro network ci ha fornito negli ultimi anni.

 

Parliamo dunque di questo universo dell’imprenditoria femminile. Innanzitutto, in che cosa si differenzia da quella maschile in base alla sua esperienza?

Premesso che bisogna sempre andare cauti nelle generalizzazioni, appare evidente come ci siano caratteristiche ricorrenti tra le nostre imprenditrici: per esempio il fatto che il mettersi in proprio nasca sempre di più non da una risposta a un tentativo di conciliazione di vita privata e lavoro, come accadeva spesso solo una decina di anni fa, bensì da un desiderio di generare un impatto positivo su comunità e territorio. Sempre di più scorgiamo in loro un fuoco, il desiderio di “lasciare un segno”, e vediamo come le imprese delle nostre imprenditrici considerino la condivisione valoriale un vero e proprio vantaggio competitivo. Sono imprese guidate da donne che forniscono risposte a quei bisogni sociali e di qualità della vita che loro stesse hanno sperimentato in prima persona. Ecco perché prima dicevo che parliamo spesso di innovazione valoriale, non solo di innovazione tecnologica o di prodotto. In ultima analisi direi che le imprenditrici sono più inclusive, più sostenibili, più attente al welfare, all’impatto che aspirano a generare in tutti i campi.

 

Quali sono i settori che vedono un tasso maggiore di imprenditoria femminile?

Storicamente, per ragioni culturali, le donne sono molto presenti nei settori che hanno a che vedere con la “cura”, quindi i servizi, la sanità, il commercio, la ristorazione e le attività alberghiere. Ultimamente però, soprattutto negli ultimi due anni, si è registrata una diminuzione del numero di nuove imprese a conduzione femminile proprio in questi settori e un incremento significativo, invece, in quelli che storicamente sono a prevalenza maschile: i settori ad alto contenuto tecnologico. Lo abbiamo notato anche dal nostro “osservatorio” GammaDonna, dove anno su anno vediamo la crescita di imprenditrici che provengono dal mondo della ricerca e della scienza, le cosiddette researchpreneur.

 

Sempre dal vostro osservatorio, quali sono le principali difficoltà che incontra una donna quando decide di diventare imprenditrice?

Sicuramente molte complicazioni sono legate al “carico mentale”: il peso invisibile che deriva dal dover bilanciare la vita, il lavoro e la gestione domestica che da sempre grava principalmente sulle donne e dà origine a quello che i sociologi hanno definito il fenomeno della “doppia giornata”. Insomma, un lavoro continuo.

Sul fronte del business, troviamo una maggiore difficoltà nell’accesso al credito, cosa che impatta sulla crescita aziendale, minore o più lenta, e su problemi di liquidità. E questo è un fattore culturale, la risultante di un pregiudizio nei confronti delle donne, ma anche di un limite che le stesse donne si autoimpongono. Si parla spesso del fatto che le donne siano maggiormente risk-adverse, cioè più restie al rischio. In realtà non è propriamente così. Sono più conservatrici, più attente: prima di “gettare il cuore oltre l’ostacolo” vogliono considerare tutti gli aspetti di un problema. Sarebbe più corretto parlare di gestione cauta del rischio, non di mancata predisposizione al rischio, tant’è che esistono numerosi studi di finanza che attestano come gli investimenti in imprese innovative a conduzione femminile siano più sicuri e remunerativi.

Infine c’è un tema di insicurezza, anche in questo caso retaggio culturale derivante dal milieu in cui cresciamo e dall’educazione che riceviamo: prima di agire le donne vogliono essere sicure di possedere uno skill set adeguato, di avere “tutte le carte in regola”.

 

Però attendere di avere tutte le skill necessarie può tradursi in un immobilismo deleterio.

Assolutamente concorde.

 

Trova una differenza tra le donne imprenditrici che sono diventate tali “per eredità” diciamo così, in quanto appartenenti a famiglie di imprenditori, e imprenditrici che invece sono partite da zero?

A mio parere si tratta di un tema trasversale ai generi: l’imprenditrice founder, come si dice oggi, cioè chi ha creato un’impresa da sola, e l’imprenditrice che l’ha ereditata, a cui il testimone è stato tramandato, sono certamente due figure diverse. Una piccola testimonianza di questo dal punto di vista di una comunicatrice: una founder è in genere molto preparata quando si tratta di presentare efficacemente il proprio business e la propria impresa, mentre questo è più difficile per chi eredita un’impresa – e un sistema di valori – da altri. C’è da dire, però, che finché non sei al timone di un’impresa, l’imprinting non è ancora veramente il tuo, il che ha una serie di implicazioni, non solo di carattere gestionale.  E purtroppo nelle piccole e medie imprese italiane, che spesso sono a struttura famigliare, le ultime generazioni arrivano ai vertici molto tardi, in alcuni casi tardissimo, con la conseguenza dispersione di quel patrimonio di entusiasmo e innovatività che sono tipiche dell’età giovanile. Come GammaDonna, da sempre cerchiamo di intercettare anche le imprenditrici “eredi”, perché siamo convinti che il tema dell’innovazione, nostro cavallo di battaglia, non è e non debba essere appannaggio solo delle startup, ma che anzi debba permeare il tessuto produttivo storico del Paese che senza innovazione non ha possibilità di sopravvivenza.

 

Tornando al tessuto produttivo italiano che vede una netta separazione, purtroppo atavica, tra Nord e Sud del Paese, come si colloca l’imprenditoria femminile all’interno di questo divario?

L’imprenditoria femminile è anch’essa maggiormente concentrata al Nord per un ovvio problema culturale che si fa sentire sempre più man mano che si scende lungo lo Stivale, e che va a braccetto con la crescente disoccupazione femminile meridionale. Tuttavia negli ultimi anni abbiamo assistito a una crescita incredibile nel Mezzogiorno – soprattutto in alcune regioni come Puglia, Sicilia e Campania – dell’imprenditoria innovativa e delle figure apicali femminili. Si tratta di un dato molto positivo che testimonia un processo che va supportato adeguatamente. Anche noi di GammaDonna, nel nostro piccolo, abbiamo intenzione di essere più presenti al Sud, e cominceremo con la tappa di Roma del road show.

 

Un tema per me particolarmente interessante è relativo alla gestione “del potere” da parte di un’imprenditrice, anche se giustamente si diceva prima che bisognerebbe evitare le generalizzazioni. D’altro canto nei discorsi delle imprenditrici ricorrono spesso termini come sisterhood il che fa presumere che quando a capo di un’impresa c’è una donna, ci sia una maggiore attenzione nei confronti delle altre donne, che siano dipendenti o competitor. Ma è così? Esiste questa sorellanza di intenti e di azioni?

Le posso rispondere dal mio vissuto personale, come Valentina Parenti, perché negli ultimi anni, soprattutto durante la pandemia, sono scesa in campo come attivista per i diritti delle donne e ho quindi vissuto in prima persona una serie di eventi e situazioni. Sono stata socia fondatrice di diverse realtà tra cui “Dateci voce” e “Giusto mezzo” che durante il Covid hanno acceso un riflettore sul dramma che stava colpendo soprattutto le donne, tra le categorie più penalizzate in genere e a maggior ragione in momenti di crisi. Ho quindi toccato con mano che cosa significhi la sorellanza, la sisterhood

Quello che vedo è una polarizzazione tra le donne che per “rompere il tetto di cristallo” e raggiungere posizioni apicali hanno adottato uno stile di management molto aggressivo e maschile e quelle invece che hanno capito che quel soffitto può essere davvero permanentemente sfondato solo attraverso l’unione e il supporto reciproco. Come? Intanto non facendo il verso alla leadership maschile, ma portando nel business le nostre caratteristiche, il nostro DNA diciamo, le valenze che ha il femminile, che possono avere un impatto straordinario e rivelarsi molto più efficiente ed efficace di un imprinting “marziale”.

 

Questo imprinting “al femminile” si traduce poi in iniziative concrete nei confronti delle donne, più che in aziende a conduzione maschile?

Non necessariamente, ma per chi abbraccia lo stile di leadership di cui parlavamo, e che io trovo più contemporaneo, assolutamente sì. Vedo tantissime realtà a conduzione femminile che adottano politiche di welfare innovative con grande attenzione e sensibilità nei confronti dei dipendenti, non solo delle donne. A livello statistico tutto il filone del benessere aziendale, dell’attenzione alla felicità, il cosiddetto PIF (il prodotto interno di felicità), parte quasi sempre dalle donne.

 

Che consiglio darebbe a una neolaureata che decidesse oggi di fare l’imprenditrice?

Io dico sempre che quello che conta non è ciò che siamo, ma ciò che scegliamo di diventare. Quindi, a mio parere, lavorare sodo per migliorarsi e poi soprattutto credere in se stesse sono sfide importantissime che toccano ciascuna di noi. Considerato il periodo molto instabile, incerto, in cui ci muoviamo, suggerisco di partire dalle proprie competenze, dalle proprie inclinazioni, da quello che sappiamo fare bene, che ci appassiona cercando però di intercettare un bisogno, di rispondere a un’esigenza del mercato: inseguire i sogni, sì, ma cercare sempre di avere un riscontro concreto a ciò che abbiamo in mente.

La seconda cosa, fondamentale, è circondarsi di gente competente, se possibile anche migliore di noi. Il team è diventato LA discriminante per il successo di un’azienda e le persone di cui ci circondiamo, oltre a essere bravi professionisti, devono appassionarsi, sposare la nostra idea di impresa e condividerne i valori. Questo ormai è imprescindibile.

E poi, mai arrendersi davanti alle porte chiuse perché se crediamo in quello che facciamo dobbiamo perseguirlo fino in fondo con intelligenza, tenacia e passione.

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