La forza dell’Arte

Workout Magazine - Studio Chiesa communication

Business di famiglia: Workout magazine incontra Tommaso Rossini, CEO di R.T.A. Srl e R.T.A. Robotics

Alla fine sempre a lui si torna, a quella straordinaria figura di imprenditore che fu Adriano Olivetti e alla sua rivoluzionaria visione di una fabbrica che «deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia» e che deve essere bella perché la bellezza sia «di conforto nella vita di ogni giorno». Si era negli anni Cinquanta e Olivetti nello stabilimento di Pozzuoli che inaugurava pronunciando quelle parole vedeva «un simbolo del modo in cui noi crediamo di dover affrontare i problemi dell’oggi, un simbolo delle cose che ci affaticano, ci animano e ci confortano». Tre verbi la cui associazione non manca mai di sorprendermi per la perfetta sintesi che disegnano, quella che caratterizza la nostra vita di tutti i giorni.

Da allora sono passati ben settant’anni ma si può dire che relativamente da poco certi suoi concetti sono diventati parte integrante della vision delle aziende italiane (e nemmeno poi di tutte, a dire la verità): lentamente si sta facendo strada un nuovo modello di imprenditore, guidato dalla Corporate Social Responsability, che lo identifica non solo come attore economico, ma anche come protagonista di una crescita civile, sociale e culturale del territorio. Soprattutto per quanto concerne la cultura, sempre più la si individua come uno degli strumenti con la quale operare in ambito CSR con un beneficio che è reciproco, per la comunità e per l’impresa: la comunità trova una risposta concreta alle sue necessità in termini di tutela e valorizzazione del patrimonio artistico, di supporto all’organizzazione di eventi e iniziative e in generale di allargamento della sensibilità locale su temi culturali, l’impresa migliora in reputation e in visibilità rafforzandosi sul mercato, anche nei confronti dei suoi competitor.

L’headquarter dell’azienda a Marcignago (Pavia).
L’headquarter dell’azienda a Marcignago (Pavia).

Particolarmente interessante in questo senso è il fenomeno delle Corporate Art Collection, cioè l’acquisizione di opere d’arte da parte di un’azienda con la costituzione, all’interno degli spazi della società, di un vero e proprio museo privato che non di rado è aperto al pubblico, magari anche solo in determinati momenti dell’anno. Pur prescindendo dall’ovvia considerazione di essere comunque un asset finanziario, anche se nobilitato da una passione, una collezione d’impresa porta più di un vantaggio. Ce ne parla Tommaso Rossini, CEO di RTA, azienda leader in Italia nel mercato dei motori passo-passo, e di RTA Robotics, «gemmazione» recente della capogruppo (di entrambe parleremo a breve): «L’arte comunica all’esterno una qualità fondamentale nell’attività d’impresa, la creatività. Non solo, è una perfetta consigliera in questo campo perché invita e stimola al pensiero laterale, al pensiero centripeto, distante anni luce dal concetto sotteso al foglio Excel con le sue celle, e lo dico da utilizzatore di Excel! Penso che aiuti tantissimo nel lavoro di tutti i giorni e ho la sensazione che questa percezione non sia solo mia, ma sia generalizzata, visto che la nostra collezione non è chiusa nel mio ufficio, ma è diffusa in tutta l’azienda».

Sì, perché Tommaso ha inserito le opere in spazi che si possono definire «pubblici», come gli esterni della palazzina, l’ingresso con la reception, i corridoi, le sale riunione, una scelta fortemente voluta fin dagli esordi di questa iniziativa: «Sono convinto che piacciano e che qualcuno non solo ne possa fruire nel senso che sottolineavo prima, ma che le possa anche vivere come spinta a un approfondimento». Si tratta di una trentina di opere raggruppate intorno a due filoni principali: pop art e arte povera, con un focus sugli artisti del territorio come Marco Lodola, il gruppo dei Plumcake, Gianni Cella che di quel gruppo aveva fatto parte per poi seguire altre strade. Ai loro lavori si affiancano, talvolta nella stessa stanza, le opere di Giuliano Tomaino – il cui Cimbello accoglie il visitatore prima ancora che varchi la soglia dell’azienda –, i vortici di minuscole barchette di carta, delicate e preziose come origami, di Riccardo Gusmaroli, i quadri cerebrali e quasi distopici di Fosco Grisendi, con cui Tommaso ha negli anni sviluppato un’amicizia che, si capisce per come ne parla, lo appaga e lo arricchisce. Senza dimenticare i lavori «alchemici» di Umberto Mariani con la sua magica capacità di trasformare la pesantezza del piombo in morbidi panneggi e i capolavori in seta di Kim Guitart.

Giuliano Tomaino, Cimbello.
Giuliano Tomaino, Cimbello.

All’inizio di questa passione c’è una figura femminile, la nonna di Tommaso: «Era una donna che, pur non avendo studi strutturati alle spalle, possedeva una grande sensibilità e un grande amore per l’arte. Negli anni Sessanta e Settanta frequentava le gallerie di Milano, aveva anche comprato dei Fontana, che poi, ahimè, ha venduto. I miei genitori hanno ereditato, oltre che i suoi interessi, una parte della sua collezione che hanno poi ampliato. Il grosso lo conserva ancora mia madre nella nostra casa di famiglia, alcune opere a suo tempo le avevo invece prese per me ed è stato a quel punto che sono stato colpito da un pensiero: dato che la maggior parte del mio tempo lo passo in azienda, sarebbe stato bello averle in ufficio, poterle guardare ogni volta ne avessi avuto voglia. Ma poi da lì la riflessione si è subito spostata sull’opportunità di distribuirle invece nelle aree comuni, allargandone la fruizione e andando incontro così a una delle mie convinzioni, e cioè che per venire in azienda volentieri bisogna trovarci un motivo di attrazione. E per me questo non può che essere “il bello”: spazi armoniosi, chiari, ampi, luminosi arricchiti da opere d’arte, un luogo fisico dove si sta bene». L’espansione della collezione ha seguito il filo conduttore della ristrutturazione degli interni: «Ogni volta che veniva effettuato un intervento, cercavo di inserire un’opera». E la molla che invece spinge Tommaso nelle scelte? Innanzitutto il tema dell’enigma: «Amo quei lavori che contengono una domanda senza una risposta, che sono un quesito aperto, proprio come i dipinti di Grisendi. E poi quelli che sono un inno alla fantasia e alla rottura delle barriere intellettuali, che mi stimolano visivamente, cromaticamente, concettualmente».

Fosco Grisendi, Confidence 43
Fosco Grisendi, Confidence 43.

Il concetto di benessere in azienda si declina anche su altri piani: «Negli Stati Uniti due sono le classifiche che tutti guardano: il Fortune Global 500, cioè la lista delle 500 aziende più performanti al mondo in termini di revenue, e il World Best Workplaces, che invece individua quelle imprese che mettono al centro del loro sistema valoriale le persone. Beh, io mi indirizzo sempre su questa seconda. Perché penso che qui dentro si debba stare bene. Certo, tutti dobbiamo concorrere agli scopi dell’impresa, ma mi piace pensare che chi viene a lavorare da noi lo fa perché c’è un sistema organizzativo poggiato su un sistema valoriale che potrei definire fluido, amico, aperto, lontanissimo dalle immagini – un po’ stereotipate e peraltro in abbandono un po’ ovunque – della fabbrica buia, chiusa in tutti i sensi, «padronale», un termine che proprio non mi appartiene. Qui è l’opposto: è un luogo dove ognuno può realizzarsi a partire dalle proprie competenze, dove si può dare il proprio contributo anche con un certo grado di autonomia e dove il management è aperto alle iniziative dei collaboratori, insomma credo sia un buon luogo di lavoro».

Tommaso insiste molto su due concetti: il benessere dei collaboratori e la qualità del lavoro, che deve essere orizzontale, appagante e aperto. Riguardo al primo sottolinea che RTA, tra le primissime aziende nel Pavese, ha adottato nel settembre 2020 lo smart working conservandolo anche dopo la pandemia perché «è un modello moderno, che punta sulla produttività degli individui, ma anche sul worklife balance, concetto a cui credo moltissimo». Riguardo al secondo molto si deve a quella che Tommaso definisce una «rinfrescata al management» che include anche uno sforzo concreto sulla parità di genere: «La quota femminile è ancora bassa – parliamo di circa 15 sulle 85 persone del Gruppo – ma è in crescita in posizioni anche apicali. Per esempio abbiamo una Direttrice del personale e una Direttrice amministrativa, con profili di alta competenza». Il clima che si respira in RTA è positivo, di quelli che invitano a restare e in effetti, sottolinea Tommaso, il tasso di retention è alto: «Ho anche una classifica dei “ripescaggi”: sono già un paio, persone che si erano dimesse per vari motivi e che sono poi tornate da noi, segno che evidentemente in questa azienda c’è qualcosa che piace». Il team è giovane, la media delle ultime assunzioni – circa una quindicina – è intorno ai 34 anni, «un dato sicuramente interessante».

Riccardo Gusmaroli, Mondo rame.
Riccardo Gusmaroli, Mondo rame.

È arrivato il momento di raccontare la storia di R.T.A. e del fondatore, Bruno Rossini, che di Tommaso era papà. Ma prima occorre tracciare il ritratto odierno di questa azienda di Marcignago che riassume in sé anche l’ambizione di un territorio, quello della Provincia di Pavia, di diventare un vero e proprio distretto dell’innovazione tecnologica. Cominciamo dall’età: cinquant’anni l’anno prossimo, portati «abbastanza bene perché innanzitutto siamo sopravvissuti al passaggio generazionale che è sempre un momento delicato – ride Tommaso – e poi perché siamo stati bravi a muoverci in mercati che pur essendo maturi e in evoluzione continuano a mantenersi in salute. Quello di riferimento per noi è l’automazione industriale: vendiamo un sistema di componenti di meccatronica che va dall’elettronica logica e di interfaccia con l’utente fino alla meccanica di precisione. Con al centro il nostro core che è l’elettronica di potenza, che è ciò che produciamo noi ed è il nostro DNA fin dalle origini: parliamo di sistemi di controllo appunto di potenza per motori elettrici di precisione che vanno su macchinari particolari ad alta produttività e alta precisione».

Dal 2021 da R.T.A. si è sviluppata una branca, R.T.A. Robotics, distinta dalla capogruppo (pur occupando la stessa location e appoggiandosi a tutte le sue strutture, compresa la parte vendite), sia a livello societario sia come immagine: «La si può definire una startup di robotica industriale che si basa su una mia convinzione, cioè che ci sia una convergenza tra automazione industriale e robotica e che quindi sempre più possano essere inseriti elementi robotici direttamente nei macchinari industriali e non, come accadeva tradizionalmente, a valle. Mi spiego meglio: chi vende robot tipicamente “mette insieme” dei pezzi a monte o a valle di un macchinario. Noi invece pensiamo a bracci robotici intrinseci ai macchinari stessi. Quindi diciamo che ho visto una possibile sinergia con i prodotti di R.T.A. e mi sono mosso con l’offerta ai nostri clienti anche di questi oggetti che sono parecchio complessi e prevedono una parte di programmazione software».

Marco Lodola, Lo strillone

Il mercato è prevalentemente italiano con un pensiero che mira oltreoceano: «Già da un po’ di tempo ci piacerebbe aprire una filiale negli USA, ma siamo sempre stati frenati dall’entità dell’investimento a cui adesso si aggiungono le incognite legate al nuovo quadro politico statunitense. Quindi per le vendite fuori dall’area europea ci affidiamo ancora a distributori, mentre in Europa abbiamo da vent’anni una filiale in Germania che è una realtà solida e che funziona bene. Abbiamo anche voluto fare un esperimento in India: è una piccolissima filiale che esprime numeri ancora molto limitati, ma che però opera in un mercato in presumibile espansione». E comunque, fa notare Tommaso, i suoi clienti italiani sono produttori di macchinari che vengono poi esportati, quindi R.T.A. vive anche di un export indiretto.

«R.T.A. oggi? Un laboratorio di idee per il futuro». Ho trovato questa frase nel volume editato in occasione del 40° anniversario della fondazione dell’azienda: direi che riassume perfettamente lo spirito di questa impresa. Oggi però. Quando è stata fondata da Bruno Rossini e da altri cinque soci c’era, a detta di Tommaso, una certa vaghezza sulla direzione a cui tendere: «La storia di R.T.A. è quella classica di uno spin-off universitario. Mio padre faceva il fisico nucleare – quindi una specializzazione che nulla aveva a che vedere con l’automazione – però negli anni Settanta era stato per alcuni mesi in California, a Stanford, impegnato in un progetto di ricerca e aveva perciò avuto modo di respirare l’effervescenza che là regnava, l’aria “inebriante” delle startup. Una volta rientrato in Italia gli era stato naturale cominciare a pensare di affiancare al lavoro accademico, un’attività di consulenza nel campo dell’elettronica, di servizi alle aziende del territorio, ma senza una strategia precisa». La prima sede di R.T.A. è nel seminterrato di un condominio, un passo comunque avanti rispetto al garage di Steve Jobs, prima sede di Apple…

Giuliano Tomaino, Voli 2.
Giuliano Tomaino, Voli 2.

C’è da dire che il territorio era fertile per accogliere una realtà di quel tipo: nei dintorni le aziende metalmeccaniche erano tante (tra le più famose la Necchi) e parecchie avevano già iniziato a virare verso sistemi di automazione elettronici. Quei sei giovani si erano perciò rimboccati le maniche e rispondevano a qualunque commessa venisse loro affidata, «spinti solo dai loro animal spirits keynesiani» dice Tommaso. Inizi comunque difficili, i soci iniziali se ne vanno uno dopo l’altro anche per differenza di vedute sul business, in compenso entrerà Gianni Marinone inaugurando un sodalizio, umano oltre che imprenditoriale, che è arrivato fino ai giorni nostri (oggi la compagine societaria vede un 58% di quote in mano a Rossini e il restante 42% alla famiglia Marinone). Nel giro di qualche anno la focalizzazione sulla tipologia di prodotto che è ancora oggi una fetta significativa del business di R.T.A.: gli azionamenti per motori passo-passo.

Nella storia successiva di R.T.A. ci sono alcune tappe importanti. La prima è stata l’organizzazione, alla fine degli anni Ottanta, della struttura commerciale che fino a quel momento era stata affidata a una società esterna, scelta che se all’inizio aveva avuto senso per abbassare i costi, con il passare del tempo aveva evidenziato alcune criticità, prima fra tutte la minore capacità di interpretare le esigenze del mercato e di fidelizzare i clienti. La decisione di interrompere questo rapporto non è stata indolore per R.T.A., da tutti i punti di vista, non solo da quello economico, ma ha rappresentato senz’altro il punto di partenza per il passaggio da una struttura pseudo artigianale a una più complessa. Così come basilare è stato l’accordo, che in quegli anni si è stretto, con SANYO DENKI per la distribuzione degli azionamenti e dei motori brushless di loro produzione, in fruttuosa sinergia con le attività di R.T.A. A testimonianza della solidità che caratterizza ancora oggi questo rapporto ci sono le parole vergate, in occasione del 40° anniversario di R.T.A., da Shigeo Yamamoto, Presidente e CEO di SANYO DENKI CO LTD, che sottolineano come R.T.A. rappresenti per la Società giapponese il miglior distributore per la subsidiary Europe e il loro più importante business partner.

Un momento dell’inaugurazione di Cimbello.
Un momento dell’inaugurazione di Cimbello.

Nel decennio 2000-2010 altri due momenti decisivi: l’apertura della filiale in Germania, al fine di sfruttare meglio le opportunità che quel mercato (ai tempi ancora molto prospero) offriva e la costruzione della nuova sede di R.T.A. a Marcignago, entrambi onerosi sia dal punto di vista economico che da quello dello sforzo da mettere in campo, ma i cui risultati continuano a essere di soddisfazione per l’impresa. E in ogni caso gli investimenti fatti sono stati a suo tempo bene assorbiti nonostante la fine di quel periodo sia stata segnata dalla terribile crisi finanziaria mondiale accesa dal crollo dei subprime negli Stati Uniti. In quegli anni si prepara anche il passaggio generazionale: Tommaso fa il suo ingresso nell’azienda di famiglia.

«In realtà questo passaggio avrebbe dovuto essere incentrato su mio fratello, che è fisico. Invece, per quei casi di cui la vita è intessuta, in azienda ci sono entrato io che sono di formazione economistica». Dalle parole, sagge – fin troppo potrei dire – e soppesate, ho l’impressione che il sentimento che ha accompagnato il giovane Tommaso in questa decisione non sia stato un entusiasmo debordante, quanto piuttosto una forte assennatezza unita a un saldo realismo: «Mi sono sempre assunto le mie responsabilità e ho capito che in R.T.A. c’era un asset significativo che sarebbe stato un peccato perdere. Ho fatto di tutto per fare di questo pensiero uno stimolo e ci sono riuscito. Oggi posso dire che ho provato e provo molta soddisfazione nel portare avanti l’attività, nel farla espandere e di conseguenza nell’incidere positivamente sul territorio. Soprattutto lavorare con le persone, facendole crescere anche managerialmente, è per me gratificante, al di là del veder aumentare il fatturato e di riuscire a preservare dei margini sensati».

Nel 2012 Bruno Rossini viene a mancare. Il racconto del rapporto di Tommaso con il padre è affidato a un brano, che riesce a emozionare pur nella sua sobrietà, da lui scritto sempre in occasione del 40° anniversario di R.T.A.: «Abbiamo avuto il semplice – ma non comune – privilegio di trascorrere molto tempo insieme, padre e figlio, tra Consigli di Amministrazione e Rifugi Alpini: con equilibrio, semplicità, autoironia. Sempre nel pieno rispetto l’uno dell’altro, prendendo atto ciascuno delle proprie abilità, predisposizioni e punti deboli: anche quando quello più in difficoltà ero unicamente io». E poi ci sono le foto, tante e di tanti momenti condivisi: una maratona di New York, scalate, partite di tennis e di calcio, momenti in cui lo sport ha fatto sicuramente da collante, ma che hanno dato forma anche a un «prendersi cura» l’uno dell’altro che non può non avere avuto riflesso anche sul piano lavorativo. Le testimonianze di amici, conoscenti, collaboratori disegnano il profilo di un uomo che amava la vita in tutti i suoi aspetti, che sapeva accompagnare all’intelligente attaccamento per il suo lavoro forti passioni come la montagna, che era arguto e ricco di humour senza perdere in autorevolezza. Doveva essere un uomo molto simpatico.

Per ricordarlo Tommaso ha creato un appuntamento annuale, le «Bruno Rossini Lecture», che nel tempo è diventato una manifestazione aperta alla cittadinanza con relatori di primissimo livello come Federico Rampini e Antonio Polito: «Alla prima edizione, a un anno dalla morte di mio padre, avevo invitato solo amici e collaboratori dell’azienda, cioè persone che gli erano state vicine, nel lavoro come nella vita. Ricordo che si era trattato di una lezione di argomento economico tenuta da un docente dell’Università di Pavia che era piaciuta così tanto da farmi decidere di ripetere questo evento puntando a ospiti sempre più significativi. Gli argomenti affrontati sono figli dei miei interessi, la geopolitica e l’economia mondiale, di cui anche mio padre era appassionato, ma a volte abbiamo parlato anche di tecnologia e in qualche caso anche di politica in senso stretto». All’inizio la manifestazione si teneva nell’Auditorium dell’azienda ed era su invito, ma l’interesse che suscitava era tale da far maturare la decisione di allargare la fruizione a tutta la comunità spostando la location nell’Aula Magna del Collegio Ghislieri di Pavia. Luogo del cuore, tra l’altro, per Tommaso visto che entrambi i suoi genitori lì hanno studiato.

Un momento della passata edizione delle Bruno Rossini Lecture.
Un momento della passata edizione delle Bruno Rossini Lecture.

A Pavia e ai suoi gioielli culturali – l’Università e i due Collegi, appunto, Ghislieri e Borromeo – Tommaso è molto legato, umanamente e professionalmente. E non è certo un caso che di recente sia stato eletto Presidente della Sede di Pavia di Assolombarda dopo essere stato, nel biennio 2019-2020, Vicepresidente di Confindustria Pavia: «Già da questo si può capire quanto sia affezionato al territorio» sottolinea sorridendo. La sua visione per il futuro del Pavese è quella di un vero e proprio distretto dell’innovazione: «In parte lo è già. Ci sono tante direttrici interessanti di sviluppo, anche relativamente recenti, legate a settori più knowledge based, per esempio la microelettronica che sta andando fortissimo con più di 500 addetti nella produzione di chip. Adesso vorremmo attrarre investimenti verso l’ambito delle scienze della vita, non dimentichiamo che qui ci sono ben tre IRCCS (il San Matteo, il Maugeri, il Mondino) e lo CNAO (il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica). E poi c’è un eccellente sistema formativo che premia e promuove il merito, una vera e propria fucina di talenti che qualche volta restano nel territorio. Gli studenti rappresentano il 40% degli abitanti della città, con una quota di stranieri – adesso all’11% con un 25% nei corsi di laurea magistrali – in aumento, quindi la speranza che qualcuno poi si fermi è più che ragionevole. È c’è da aggiungere che l’accoglienza è molto efficiente grazie ai Collegi e a un ottimo sistema di residenze a prezzi calmierati».

Finora abbiamo sottolineato i plus di questo territorio, ma che dire dei suoi problemi? «Sono essenzialmente tre – spiega Tommaso – Innanzitutto la demografia, che è una tagliola micidiale nel senso che siamo la peggiore provincia in Lombardia per tasso di natalità. La diminuzione della popolazione è sottesa pesantemente a tutti di i temi di mismatch, di domanda e offerta del lavoro, ed è solo in parte corretta dall’immigrazione. Poi c’è il tema delle infrastrutture che sono deficitarie: siamo tra le province più estese d’Italia, ma mancano connessioni e quelle che ci sono, strade comprese, versano in uno stato significativo di obsolescenza. Infine c’è una verticale su Vigevano, una zona in difficoltà perché legata alla filiera della scarpa, oggi in crisi: in passato qui c’erano 300 calzaturifici, oggi ne restano 30 e sospetto che a tendere continueranno a esistere solo quelli di nicchia. Per converso il meccanocalzaturiero, incentrato sulla produzione di macchinari e di componenti delle calzature, va abbastanza bene».

Marco Lodola, Cow Boys.

Tommaso è da sempre interessato ai temi dell’AI: «Non sono un esperto, ma solo un osservatore. Premesso che normalmente di quel mondo, vario e complicato, noi vediamo, e in modo tangenziale, solo alcune tipologie di applicazioni che macinano dati appunto tramite l’intelligenza artificiale e quindi abbiamo una visuale piuttosto limitata, ci sono però alcune considerazioni che anche chi non è addentro alla materia, dovrebbe avere l’onestà intellettuale di fare. Innanzitutto questa: un tempo erano i computer, prima di loro la rete autostradale e ancora prima l’acciaio. Voglio dire che l’AI è un’infrastruttura che, ci piaccia o meno, entra nelle grandi equazioni del sistema economico e anche sociale. L’acciaio serviva e serve per costruire le infrastrutture fisiche, l’intelligenza artificiale per costruire infrastrutture digitali, quindi non possiamo escluderla, ci siamo dentro. Pur essendo, come Europa, molto indietro sia come sviluppatori sia come utilizzatori. In particolare nel nostro sistema economico, fortemente sbilanciato su PMI, i tassi di adozione sono bassissimi, gli ultimi dati che sentivo parlavano di 6-7 aziende su 100. L’ostacolo è probabilmente culturale prima ancora che economico: le PMI sono spesso un po’ arretrate nella digitalizzazione e a maggior ragione lo sono anche su questo tema. Ci vorrebbe probabilmente un po’ di coraggio per tentare almeno di approcciarlo facendosi qualche domanda su come poter utilizzare nel proprio ambito certe tecnologie e il nostro sforzo, come Assolombarda, è sicuramente quello di far crescere almeno la cognizione di causa oltre a mettere a fattor comune le esperienze di successo di alcune aziende per proporle come best practice alle altre. Tutto questo vale per il campo economico, poi a livello sociale è chiaro che si tratta di un mondo che racchiude anche delle ombre che però bisogna saper gestire senza farsi spaventare dai drawback di una tecnologia che porterà una serie di avanzamenti a tutta l’umanità, basti pensare a come cambierà la medicina».

Tornando alla sua collezione d’arte cito a Tommaso una considerazione di Hidde van Seggelen, da cinque anni Presidente di TEFAF, la grande Fiera del collezionismo d’arte di Maastricht: in una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera ha sostenuto che «per diventare collezionista devi essere posseduto da una sorta di follia», è così anche per lui? Un guizzo divertito gli attraversa lo sguardo: «Temo di sì. E comunque l’arte non è solo creatività, è anche garbata follia, o meglio un saper uscire dagli schemi, essere capaci di libertà espressiva e mentale e riuscire «a giocare» molto con l’ironia. Quindi, sì, direi che mi ci riconosco». Ma farebbe anche una follia per un’opera d’arte che l’avesse conquistato? Attimo sospeso: «Sì. Ma che non pregiudichi la stabilità dell’azienda». Come dire, follia sì, ma con giudizio.

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