Branding

La caffettiera del masochista: quando il design è amico/nemico della comunicazione

Io non capisco le istruzioni per montare i mobili. È più forte di me; non c’è niente da fare.

Immancabilmente sbaglio verso, sbaglio vite, sbaglio… tutto. Perché? Eppure di senso pratico ne ho in abbondanza. E sono anche una persona abbastanza lucida. Eppure…

Donald Norman, nel 1986, pubblica un bel volume – non tanto voluminoso nella realtà dei fatti: The Design of Everyday Things (in Italia tradotto in La caffettiera del Masochista). E, a discapito del ridotto numero di pagine, ottiene sicuramente un successo voluminoso. Tanto da essere tradotto in 9 lingue e ottenere due ri-edizioni nel 2003 e nel 2013. A cosa è dovuto questo successo? Norman parte da un assioma di base semplice e diretto; dirompente oserei dire per la sua schiettezza: uomo e tecnologia – passando per il design degli oggetti– non possono rapportarsi in alcun modo se non si tengono in considerazione i principi base della psicologia cognitiva.

Ecco perché non capiamo le istruzioni di montaggio (giuro che non è una scusa). O diventiamo matti a impostare un allarme su una sveglia o a capire come aprire le porte; per citare alcuni esempi che fa Norman nel suo libro: questi oggetti quotidiani non tengono semplicemente in considerazione la componente umana; intesa come utilizzatore. Da qui, la teoria di Norman: la cooperazione uomo/tecnologia deve essere sinergica e attiva su entrambi i fronti per poter essere positiva (alias proficua).

La caffettiera del masochista, che compare in copertina del libro, ne è un emblema.

Beccuccio e manico sono orientati nella stessa direzione… è impossibile versare il caffè senza inondarsi le mani. Ma la caffettiera, di per sé stessa, è bella; è un oggetto di design. Tanto che appartiene – veramente – ad una collezione dell’autore di Catalogue d’objets introuvables di Jacques Carelman. Bella, ma non funzionale. Inutilizzabile.

Quindi?

Psicopatologia degli oggetti e delle azioni quotidiane

Come in ogni azione di comunicazione – e il design è intesto qui in questo senso – è doveroso tenere bene a mente il concetto della comprensibilità.

 Una campagna ADV, ad esempio, può essere bellissima. Veicolata nel miglior modo possibile e generare molte visualizzazioni (se pensiamo al mondo online; ad esempio). Ma se non è comprensibile all’utente, non assolve al proprio scopo. È inutile.

Come fare? Semplicemente ricordando che solo una progettazione che vede integrati tecnologia e umanità (cioè il fattore uomo) potrà essere funzionale ed efficace.

Sta alla prima capire e comprendere il secondo fattore e agire di conseguenza per rendersi comprensibile. Adattarsi ai bisogni, capacità e comportamenti. Per fare questo è fondamentale conoscere la psicologia umana e in primis il concetto di interazione. Come esiste la memoria muscolare, parimenti esiste la memoria delle interazioni che, altrimenti detta, è l’esperienza.

Le esperienze ci portano a definire un oggetto in modo positivo o negativo sulla base di alcuni paradigmi. Pensiamo ad un oggetto qualsiasi; una lampada ad esempio: quando ci troviamo di fronte a questo elemento è l’oggetto stesso che deve trasmettere tutta la forza comunicativa che il designer ha messo nella sua progettazione. E questo lo facciamo sulla base dell’esperienza pregressa. Applichiamo un canone condiviso ad un oggetto che rientra in quella sfera. Ma quando subentra il fattore tecnologico le cose possono complicarsi. Parecchio. Perché, come spesso si dice ironicamente: tecnologia amica. Non funziona il PC? Tecnologia amica. Si blocca il bancomat? Tecnologia amica. Di per sé la tecnologia aiuta gli oggetti ad essere comprensibili. Ma, parallelamente, arricchisce gli oggetti stessi di nuove funzioni rendendoli sempre più complessi. E qui sta la sfida per il designer… chi vincerà? Se dovessi dare una risposta alla Norman sarebbe: tutti e nessuno. Solo con un approccio integrato si può vincere. Ovvero ottenere un oggetto di design comprensibile, visibile, significante e affordance.

Progettazione umana… in 5 punti

Mente umana e design, quindi, si integrano in una progettazione cognitiva e funzionale basata su 5 paradigmi:

  • usare l’esperienza del presente, tenendo anche in considerazione l’anima stessa degli oggetti che possono invitare ad altre azioni. Un esempio concreto: un perno grande non potrà entrare in un foro piccolo (esperienza presente); una brocca vuota invita ad essere riempita con acqua (possibile utilizzo). Quali sono i vincoli? Semplicemente fisici, semantici, culturali e logici
  • visibilità; ovvero rendere visibili in modo chiaro ed univoco gli elementi che determinano come utilizzare l’oggetto e se questo utilizzo sia stato corretto o meno
  • semplificare; per ottimizzare l’attenzione e la memoria dell’utilizzatore
  • prevedere margini di errore; che fanno ampiamente parte della natura umana
  • standardizzare; in alcuni casi serve ad agevolare l’utente all’utilizzo dell’oggetto. È il caso, ad esempio, della caffettiera che – seppur con differenze di funzionalità – è standardizzata nella sua progettazione.
Conclusioni

Come si applica, tutto questo, alla comunicazione?
Molto semplicemente pensando a noi stessi come ai progettisti e al brand da comunicare come l’oggetto di design. Quanto più la progettazione di uno strumento di comunicazione sarà orientato a capire e a cogliere le varianti della mente umana ponendo il target/fruitore al centro del processo; tanto più questa sarà interessante, intuitiva e condivisa per il target di riferimento e genererà un plus per il brand stesso.

Il tutto, senza essere masochisti (alla Norman).

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