Heritage

L’innovazione al Posto di Comando

Business di famiglia: Workout magazine incontra Marco Bellini, Presidente di Bellini S.p.A.

5 agosto 1888. Se qualche abitante, particolarmente mattiniero, della cittadina tedesca di Mannheim avesse aperto gli scuri di casa alle prime luci dell’alba avrebbe assistito a una scena ben strana: una giovane signora, che immaginiamo in elegante completo da viaggio come si usava ai tempi, intenta, insieme a due ragazzini, a spingere lungo la strada un trabiccolo a tre ruote. Lei si chiamava Bertha ed era la moglie di Karl Benz, l’inventore dell’automobile, e il veicolo su cui si accingeva a partire in direzione di Pforzheim con i due figli adolescenti era proprio la Benz Patent-Motorwagen che il marito aveva brevettato due anni prima.

Figura assolutamente anticonformista e atipica per l’epoca, Bertha. Di famiglia facoltosa, appassionata di meccanica fin dall’adolescenza, aiutò il marito a perfezionare la sua creazione di cui fu un’entusiasta sostenitrice, anche e forse ancora di più quando Karl cominciò a perdersi d’animo per la totale assenza di interesse del mercato. Fu allora che Bertha concepì il suo piano: avrebbe dimostrato lei al mondo intero che quel veicolo non era solo il frutto di una fantasia eccentrica, ma era utile e funzionale e avrebbe cambiato il futuro dei trasporti e la vita della gente.  Il primo passo fu sottrarre al marito l’autorizzazione a guidare il prototipo sulle strade del Granducato di Baden per poi lasciare di soppiatto la casa ancora immersa nel sonno scrivendo solo un biglietto destinato a Karl, del tutto ignaro del progetto della moglie – «Andiamo a Pforzheim dalla mia famiglia», pare ci fosse scritto – e poi lo stratagemma di non accendere subito il motore per non fare fracasso svegliando tutti.

106 chilometri. Era la distanza da coprire per arrivare fino alla cittadina dove Bertha era nata, senza la certezza di farcela ma con la tenacia di chi crede in un’idea ed è disposto a lottare fino in fondo per affermarla. 106 chilometri su strade precarie e fangose, senza indicazioni o cartelli di sorta, attraversando villaggi i cui abitanti oscillavano tra la paura e l’ilare curiosità nel vedere una sorta di carrozza in grado di procedere senza cavalli ma che comunque per niente al mondo sarebbero stati disposti ad aiutarne gli occupanti. 106 chilometri costellati da mille inconvenienti tecnici che Bertha affrontò e risolse con pragmatica sicurezza sapendo dove mettere le mani: lei, quella macchina, la conosceva in ogni dettaglio. Così utilizzò un fermaglio del cappello per sbloccare una valvola del sistema di alimentazione e una sua giarrettiera per isolare un cavo elettrico scoperto, istruì un ciabattino su come sostituire i freni in legno, che avevano ceduto, con altri in pelle e trovò un maniscalco che riparasse una catena di trasmissione rotta, più di una volta i figli dovettero spingere l’auto per farle superare salite che le sole due marce a disposizione non consentivano di affrontare.
E poi il carburante. La macchina funzionava a ligroina, chiamata anche «etere di petrolio», che ai tempi si vendeva solo nelle drogherie o nelle farmacie, proprio come quella di Wiesloch davanti alla quale Bertha si fermò ormai a secco e che oggi viene considerata la prima stazione di rifornimento al mondo, anche se nulla la apparentava a quelle che a partire dagli anni Venti del Novecento avrebbero determinato una vera rivoluzione del paesaggio antropizzato.

© Paolo Biava

Bertha raggiunse mai Pforzheim? Sì, dopo dodici ore che diventarono una vera e propria epopea raccontata ampiamente dai giornali, e non solo da quelli tedeschi. Bertha aveva raggiunto il suo scopo e aveva dimostrato la possibilità di un’alternativa alla carrozza a cavalli e al treno a vapore. Il percorso da lei seguito è oggi la Bertha Benz Memorial Route, una strada turistica che attira ogni anno decine e decine di appassionati automobilisti, e che nel centro di Wiesloch esibisce un monumento commemorativo dell’impresa proprio di fronte alla farmacia che contribuì al suo successo.

Dovranno passare parecchi anni prima che ci si possa fermare in una stazione di servizio vera e propria: viene inaugurata dalla Gulf a Pittsburgh nel 1913 ed è dotata di distributori, anche se ancora molto rudimentali, poco più che una pompa montata su un carrello. È solo l’inizio: nel semplice giro di un decennio le compagnie petrolifere intuiranno che la loro identità, il brand, avrebbe dovuto essere sottolineato e che la riconoscibilità sarebbe stata sempre più importante per fidelizzare il mercato. Da quel momento i punti di rifornimento perderanno il loro anonimato, si annunceranno da lontano con profusioni di globi luminosi e colori, si doteranno di elementi grafici caratterizzanti facendo poi a gara per ingolosire il cliente con servizi aggiuntivi e, perché no, anche con gadget. Diventeranno uno dei simboli dell’american way of life, compariranno in film e in opere d’arte di artisti come Edward Hopper, icone di un nuovo mondo dominato dai consumi e dal mito dell’automobile. I distributori, lato loro, diventeranno nel tempo non solo più funzionali, ma anche più accattivanti nel design.

E in Italia? Beh, dobbiamo considerare che all’inizio del XX secolo le automobili erano proprio pochine: nel 1915 circa 25.000 che dieci anni dopo si erano però più che triplicate e nel 1932 erano diventate 188.000, numeri risibili se comparati agli altri Paesi europei ma comprensibili se si pensa che il costo di un’automobile rimase per lungo tempo proibitivo per la maggior parte degli italiani. Fu solo con il boom economico degli anni Cinquanta che il possesso dell’auto cominciò a interessare una fetta più larga della popolazione e con esso la necessità di fare rifornimento con una crescita importante della rete di distribuzione dei carburanti.

E qui comincia la prima parte della storia di Bellini Spa che oggi sviluppa, produce e commercializza lubrificanti per l’industria, ma che nel 1943, quando venne creata, si chiamava Alfa petroli e vendeva carburanti. Ce lo racconta Marco Bellini, presidente dell’impresa e nipote del fondatore, Carlo Bellini, il cui ritratto non si discosta molto da quello dei tanti imprenditori protagonisti del “miracolo italiano”: «Mio nonno ha cominciato a commercializzare prodotti petroliferi nel 1943, quando l’Italia era ancora in guerra. Aveva scommesso sul boom della mobilità, delle auto per tutti, sul futuro dell’autotrazione: il suo progetto era la distribuzione capillare sul territorio locale di distributori di benzina. È partito a Bergamo in via Bono nella prima periferia industriale di allora. Solo agli inizi degli anni Sessanta realizzò proprio qui a Zanica un deposito con serbatoi fuori terra di olio combustile fluido 3/5 utilizzato per il riscaldamento domestico e di olio combustile denso per uso industriale oltre che un serbatoio interrato di gasolio per riscaldamento che proprio in quegli anni cominciò ad essere utilizzato per le abitazioni. Il suo approccio iniziale? Semplice ed efficace: si fermava nelle officine meccaniche e anche nelle drogherie di paese e proponeva ai proprietari di collocare davanti alla loro proprietà un distributore. Diceva: “tu scavi un buco, io ci metto una cisterna e un distributore di benzina, qui si fermano comunque i tuoi clienti a cui potrai dare un servizio aggiuntivo e io ti rifornirò di benzina”».

© Paolo Biava

Una crescita tumultuosa del business a cui Carlo decise di mettere la parola fine agli inizi degli anni Settanta quando anche nel mercato italiano erano entrate le famose «sette sorelle», così Mattei aveva battezzato le compagnie petrolifere mondiali arrivarono a controllare tutto il mondo dei petroli, dagli anni Quaranta fino alla famosa crisi energetica del 1973. Che forse Carlo Bellini aveva già fiutato, intuendo che presto tutto sarebbe cambiato. Sta di fatto che Alfa Petroli venne venduta alla CON.O.CO. con la sola eccezione del deposito di via Bono. Siamo alla seconda parte della storia di Bellini SpA ed entra in scena Alberto, il figlio di Carlo Bellini.

«Mio padre aveva appena finito gli studi in chimica industriale quando venne siglata la vendita dell’azienda di famiglia. Il nonno gli chiese se sarebbe stato interessato a mantenere il deposito di via Bono per avviare la produzione di lubricanti e lui accettò a patto di esserne da subito l’Amministratore UNICO». Alberto rinunciava così alla carriera universitaria – in virtù dei suoi brillanti risultati negli studi gli era stato offerto un posto da assistente – per avviare una nuova società e la produzione di oli lubrificanti: aveva 26 anni.

I primi tempi Alberto si dedica alla produzione degli oli motore e degli oli industriali: affamato di conoscenza deve sfruttare tutte le occasioni per assimilare il «know how» dei lubrificanti e della lubrificazione mettendo a frutto la sua preparazione chimica.  Non molto tempo dopo un’altra domanda comincia ad assillarlo: perché non abbandonare il campo degli oli motore per spostarsi invece sui fluidi per le lavorazioni meccaniche? «Si accorgeva – racconta Marco Bellini – che nell’area tra Bergamo, Brescia e Milano stavano crescendo in modo importante le aziende che utilizzavano macchine plurimandrino per la produzione di pezzi meccanici soprattutto nel campo della subfornitura automobilistica e delle rubinetterie. Da qui la decisione di seguire quella strada, proponendo prodotti sviluppati da lui e quella specializzazione ancora oggi ci connota». O meglio, «un 2% del nostro venduto è ancora costituito dagli oli per autotrazione, ma diciamo che è diventato un hobby, è un retaggio del nostro passato».

Ma che tipo era Alberto Bellini? E, ancora prima, Carlo? «Di mio nonno ricordo poco perché quando è mancato io ero un ragazzino e prima era un uomo malato che non ho avuto modo di frequentare molto. Quello che so di lui è filtrato dai racconti di mio padre che lo descriveva come un uomo ferreo, un carattere forgiato dai tempi di guerra, ma forse, prima ancora, dall’infanzia in una famiglia modesta, di cultura contadina, per strapparsi dalla quale ci voleva davvero una personalità più che determinata. Lo stile di mio padre era invece completamente diverso, lui si voleva meno rigido, anche se è sempre stato molto ligio alle regole del mercato dei suoi tempi, ormai lontano dallo spirito un po’ “garibaldino” degli inizi». Soprattutto ci teneva alla massima attenzione nell’archiviazione della documentazione perché in caso di controlli, tutt’altro che rari, tutto doveva risultare a norma. Tanta scrupolosità doveva essere l’incubo dei dipendenti se Alberto stesso scrive di sé che era «esasperante nei confronti delle impiegate: la precisione doveva essere assoluta. Qualcuna talvolta piangeva all’inizio del rapporto di lavoro, qualcuna abbandonò il lavoro proposto. Io dicevo loro: “Non c’è niente di personale, ma in questa azienda si esige la massima precisione”».
Come genitore, Alberto è stato, al contrario, molto aperto e comprensivo: «appena entrato in azienda mio padre mi ha passato in breve tempo tutte le sue conoscenze accumulate negli anni ed io ho avviato la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti lubrificanti; quindi, con cadenza trentennale, mio nonno ha iniziato la commercializzazione degli oli lubrificanti, mio padre la produzione ed io la ricerca e sviluppo di nuovi lubrificanti».

Marco è cresciuto «non tanto a pane e olio, quanto con il profumo dell’olio». Una sorta di madeleine proustiana: «Quando il sabato mattina andavo in azienda – mio padre era in ufficio – all’ingresso venivo investito da questo aroma caratteristico che per me è indissolubile dal ricordo della nostra prima sede che si trovava nella zona industriale della Bergamo del dopoguerra. Una parte della città che a poco a poco è diventata residenziale rendendo complicato continuare a lavorare lì e spingendoci quindi verso un altro luogo». Nessuno lo ha mai obbligato a «sposare» l’azienda di famiglia, per lui è stata una scelta naturale, anche se forse indotta dalla familiarità con il prodotto visto che «mio padre parlava molto di lavoro a tavola e questo ci ha permesso di venire presto a conoscenza di tutti i suoi dettagli». Il ricorso al pronome «ci» si spiega con il fatto che, prima di Marco, un altro fratello, maggiore esattamente di un anno, aveva intrapreso la strada dell’impresa: «Il suo percorso di studi era stato a carattere economico, ma lui era molto ferrato soprattutto sui sistemi informatici, mentre io ho scelto chimica, esattamente come mio padre e per di più nella stessa università, a Milano, con addirittura i medesimi professori che ai suoi tempi erano semplici assistenti diventati poi ordinari. Io e mio fratello abbiamo sempre lavorato molto bene insieme, potrei dire che siamo complementari, operiamo spalla a spalla anche se abbiamo punti di vista diversi, cosa naturale visto che io sono incentrato sull’operation, sulla tecnologia di prodotto mentre lui si occupa degli aspetti finanziari, gestionali d’ufficio e informatici».

L’ingresso in azienda di Marco a è, ovviamente, in laboratorio: «Per cinque anni non ho avuto non dico un ufficio, ma nemmeno una scrivania. In azienda avevamo una dozzina di dipendenti, mentre in laboratorio eravamo in due». Le cose cambieranno velocemente negli anni successivi, l’azienda si ingrandisce e le nuove necessità richiedono che il ruolo di Marco si arricchisca di sfaccettature manageriali: in altre parole, il laboratorio può fare a meno di lui. Ma quegli anni di ricerca e sviluppo saranno preziosi perché avranno nel frattempo consentito all’azienda di colmare un gap nel suo know how tecnologico, un fattore decisivo per affrontare la grande crisi del 2008.

La terza fase di Bellini SpA ha inizio in coincidenza di quello tsunami finanziario e manifatturiero che investì il mondo nel biennio 2007-2009: «La crisi colse mio padre completamente impreparato – ricorda Marco – sgretolando le sue certezze, era come inerme di fronte a una situazione che non aveva paragoni con altre che lui aveva vissuto. Anche perché alla crisi finanziaria si aggiunse la competizione aggressiva della Cina nel mercato manifatturiero globale di cui stava diventando leader. La manifattura italiana ha dovuto in pochissimo tempo cambiare completamente pelle e passare da prodotti da quantità e da prezzo a prodotti di specialità ad alta evoluzione tecnologica. Io e mio fratello eravamo pronti a gestire il cambiamento e abbiamo cavalcato molto bene la riconversione del business, forse anche perché avevamo pochi anni di azienda sulle spalle, eravamo meno cristallizzati nei nostri modi operandi. Così quando nel 2011-2012 siamo usciti da quella “tempesta perfetta”, mio padre, nonostante fosse ancora giovane, ha iniziato il passaggio delle consegne: era consapevole che senza di noi l’azienda non avrebbe retto la situazione».

Per tutti questi motivi Marco Bellini e fratello non si considerano una terza generazione, come sarebbe logico anagraficamente, ma… una generazione e mezza: «Se guardiamo alla storia dell’azienda dal punto di vista del prodotto, a rigor di logica saremmo la seconda generazione perché mio nonno aveva venduto Alfa petroli e mio padre era entrato in un business diverso, quello dei lubrificanti. Ma poi negli ultimi anni abbiamo affrontato una riorganizzazione della governance famigliare che ha portato al passaggio generazionale definitivo: era già avvenuto, nel 2012, dal punto di vista operativo, ma non ancora per quanto concerneva le quote e la compagine sociale. E comunque la crisi del 2009 ha fatto nascere un’azienda completamente diversa da quella che era nei suoi primi 35 anni di vita». Smarcato quindi il tema della «maledizione della terza generazione» (la prima crea, la seconda mantiene e la terza distrugge), resta ancora sospeso il tema del futuro che non sembra comunque preoccupare più di tanto: «Vedremo come evolveranno le nostre vite, la mia e quella di mio fratello. Io ho figli ancora molto giovani, mio fratello non ne ha sicché potrebbero anche cambiare gli assetti… ma è ancora presto per parlarne».

© Paolo Biava

Anche se i numeri non sono mai sufficienti a tratteggiare il profilo di un’azienda, cominceremo da quelli: un fatturato, stimato per il 2024, di 42 milioni che per l’85% è relativo all’Italia e il 15% all’estero anche se, precisa Marco, «il 70% circa del volume venduto in Italia serve per realizzare prodotti che poi andranno all’estero perché è con i Paesi oltreconfine che i nostri clienti lavorano maggiormente. Possiamo quindi dire che i nostri risultati sono più legati al mondo della manifattura straniera, soprattutto a quella tedesca, che non a quella nazionale anche se fatturiamo per lo più in Italia, siamo decisamente nella filiera dell’export». I dipendenti sono 55 e coprono tutto l’iter di prodotto, dalla ricerca e sviluppo fino alla logistica, una situazione che «ci permette di essere padroni di noi stessi» come viene sottolineato con orgoglio.

Dopo i numeri, le parole. Quella che conta di più in Bellini SpA è «innovazione». Innanzitutto applicata al prodotto: «Più che sottolineare l’innovazione incrementale, che c’è ma che dò per scontata, è meglio parlare di disruption, di innovazione radicale del settore degli oli lubrificanti partita dai nostri studi sui biolubrificanti, che hanno origine vegetale, sono formulati con materie prime rinnovabili e biodegradabili e totalmente safe sia per quanto concerne la salute dei lavoratori sia nei confronti dell’ambiente. Siamo stati i primi in Italia a produrli e oggi siamo tra i leader di mercato in Europa. È un passaggio che ha avuto un impatto importante perché ha comportato un cambio totale della filiera di approvvigionamento. Il biolubrificante infatti non deriva dal petrolio, il che spezza la dipendenza dalle aziende petrolifere che fino a non molto tempo fa dominavano il nostro settore perché avevano la materia prima “in casa” e partivano quindi con un forte vantaggio competitivo. Con i nostri prodotti abbiamo davvero cambiato il paradigma e rivoluzionato il contesto cominciando, tra l’altro, in un momento in cui di biolubrificanti non parlava proprio nessuno.  Ecco perché il percepito nei confronti della nostra azienda è quello di una realtà industriale che propone sempre nuove soluzioni, che non sta mai ferma».

Ma essere innovativi, per Bellini SpA, travalica la tecnologia per espandersi a 360 gradi, investendo l’organizzazione, i processi digitali e il personale. Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, nel momento del passaggio delle consegne da Alberto Bellini ai figli c’è stato anche un importante cambio generazionale dei dipendenti per cui oggi l’età media è 34 anni con un livello di scolarizzazione alto, parliamo di laureati e diplomati tecnici: «Il fatto di essere un’azienda in crescita, bene organizzata e con un ambiente positivo ci ha permesso di attrarre parecchi giovani il che a sua volta ci consente di essere più veloci nei cambiamenti instaurando un circolo virtuoso. Quella di assumere solo neodiplomati o neolaureati è stata ed è una scelta strategica, non cerchiamo competenze specifiche ed esperienza nel nostro settore, vogliamo persone con una solida preparazione di base e un sano patrimonio valoriale, le competenze tecniche applicative le andiamo a costruire successivamente attraverso un percorso di Academy interna all’azienda».

Non si pensi a un’Academy nel senso stretto del termine, un luogo fisico: «Non volevamo mettere in una stanza quattro banchi, una cattedra, una scritta roboante e poi magari organizzarci due corsi se andava bene. Noi abbiamo optato per un percorso serio e strutturato di onboarding dei neoassunti, un piano formativo personalizzato che dura dai 12 ai 24 mesi a seconda della posizione e che prevede anche momenti di verifica e una votazione finale. Qui non serve imparare a memoria una serie di nozioni, occorre prepararsi su problemi reali in cui ci si può imbattere nel lavoro quotidiano». E che questo approccio sia apprezzato all’esterno è testimoniato dal fatto che le difficoltà nelle assunzioni che tanti colleghi di Marco Bellini in Confindustria lamentano, qui non si registrano. Anzi, spesso non si deve nemmeno cercare, i curricula arrivano attraverso il passaparola.

Forse gioca positivamente anche il rapporto stretto con il mondo della scuola: «Abbiamo partecipato a tutti gli eventi del “Festival BergamoScienza” che si prefiggono la divulgazione scientifica nelle scuole primarie e secondarie di primo grado, cooperiamo con gli istituti tecnici mettendo a disposizione le nostre persone per momenti didattici – corsi e ore di formazione – e io stesso l’anno scorso ci ho insegnato. Facendo così avviciniamo i ragazzi al mondo del lavoro, quello vero, dando loro una serie di nozioni che altrimenti non avrebbero perché purtroppo il sapere fornito dalla scuola è ormai accademico, non industriale». È nata in quest’ottica l’adesione all’iniziativa “Legami CoValenti” che già da due anni connette i due gruppi merceologici Chimici e Materie Plastiche e Gomma di Confindustria Bergamo e tre istituti tecnici a indirizzo chimico della provincia. Marco la racconta con entusiasmo: «In pratica abbiamo adottato una classe organizzando 8 momenti formativi, in parte a scuola e in parte nei nostri laboratori, nei quali oltre a lezioni di approfondimento, abbiamo proposto ai ragazzi un vero problema industriale, ovviamente chimico, da risolvere nella pratica. Il lavoro svolto è stato poi presentato alle altre classi coinvolte nel progetto e alle aziende che vi avevano partecipato in un evento che ha dimostrato l’interesse e anche l’orgoglio dei ragazzi quando si mettono in gioco in contesti in qualche modo esterni alla scuola».

Il legame forte che Bellini SpA ha con il territorio si è estrinsecato negli anni in tante iniziative che si riflettono anche sul luogo di lavoro. Una delle più importanti ha portato l’azienda a diventare partner della Rete Europea ENWPH con l’assegnazione dell’attestato Workplace Health Promotion, il che significa che, al pari delle altre imprese che hanno aderito a questo network, anche Bellini SpA si attiva quotidianamente nel campo della promozione della salute, in pratica con l’attenzione nei confronti non solo della prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, ma anche degli stili di vita sensibilizzando i dipendenti a quelli più salubri e attuando delle buone pratiche che dal lavoro si possono trasferire anche nella vita domestica: «per esempio riguardo alla sana alimentazione offriamo sempre frutta fresca ai nostri dipendenti e nel contempo scoraggiamo il consumo degli junk snack, alzandone il prezzo nei distributori automatici e incentivando invece, sempre tramite la leva economica, le merendine più “sane”. Il tutto affiancato da corsi tenuti nel corso dell’anno da un nutrizionista che spiega come ci si mantiene in salute a tavola. Sul tema dell’attività fisica organizziamo corsi di ginnastica posturale con un fisioterapista: bastano pochi semplici esercizi da praticare anche nella propria postazione più volte al giorno per evitare un bel po’ di malanni al collo e alla schiena così come è basilare imparare come eseguire determinati movimenti per non avere poi problemi all’apparato scheletrico. Ci occupiamo anche di educazione alla sicurezza stradale con corsi tenuti dalla Polizia Stradale e, non ultimo di gestione, a livello psicologico, della vita lavorativa e privata, nel rapporto con i figli per esempio, o nella relazione tra colleghi».

A quest’ultimo riguardo Bellini SpA è stata la prima azienda del territorio ad aderire al “Manifesto della Comunicazione non ostile”: si tratta di dieci regole che nella declinazione applicata alle aziende favorisce un dialogo corretto e trasparente tra l’azienda e gli stakeholder. Il Manifesto vuole così sensibilizzare al fatto che «le parole hanno conseguenze» – quindi per esempio sapere che quando si parla in ambito lavorativo è come se fosse l’azienda stessa a farlo – piuttosto che si è quello che si comunica, vale a dire che si deve promuovere fiducia e trasparenza ed essere leali e intellettualmente onesti con i concorrenti o ancora che «prima di parlare bisogna ascoltare» a prescindere dalla gerarchia, rispondendo alle domande, accogliendo le critiche e usandole per migliorare: «serve anche a evitare di offendere involontariamente i colleghi, a pesare sempre quello che si dice».  Anche questa attenzione al modo di comunicare favorisce il clima positivo che qui si respira, insieme ad altre azioni «come la flessibilità di ingresso soprattutto a chi ha figli piccoli o anziani di cui deve occuparsi perché il ritardo non deve diventare motivo di ansia e malessere».

L’inclusione è un’altra delle parole che connota Bellini SpA e che appena prima del Covid ha portato a un’iniziativa unica nel suo genere: «Volevo mettere a disposizione della comunità il valore aggiunto che abbiamo, cioè le nostre persone. Solo che non mi bastava promuovere il volontariato che pure è bellissimo e che abbiamo più volte messo in pratica – il lavoratore mette magari un’ora del suo tempo lavorativo, pagata da noi, a disposizione di un’associazione o di un ente oppure un’ora la mette il lavoratore e un’altra ora la paghiamo noi e così diventano due ore di volontariato attivo. Io volevo un’azione più forte». È nato così un progetto sull’autismo insieme alla Casa di comunità dell’ASST di Bergamo Papa Giovanni: «Ci siamo detti che le persone affette da questa forma di disabilità, per poter progredire nel loro percorso di educazione sociale hanno bisogno di vivere anche all’esterno, non solo dentro la comunità. Ma d’altro canto necessitano anche di un luogo sicuro dove poter sperimentare la socialità. Questo luogo avrebbe potuto essere l’azienda. Così per un anno e mezzo, perché purtroppo poi è scoppiata la pandemia, ogni mercoledì sono venuti qui a lavorare, ovviamente accompagnati e supervisionati dai loro educatori, impegnandosi in attività semplici ma necessarie all’azienda. Così avevano modo di sperimentare dinamiche tipiche di un vero luogo di lavoro interagendo con persone non disabili». Un’esperienza che, a detta dei medici che tracciavano i risultati, ha apportato a tutti i soggetti notevoli benefici perché è stata strumento di una forte integrazione oltre a essere andata a vantaggio anche degli interni coinvolti: «nonostante le difficolta che talvolta si sono verificate, tutti ne sono emersi arricchiti dal punto di vista personale, c’è stato un grande coinvolgimento emotivo soprattutto perché confrontarsi con la disabilità ti porta a riflettere sulle priorità della vita, sui valori a cui puntare e sulla giusta importanza da attribuire ai propri problemi». Ecco perché Marco vuole ripeterla presto.

L’ultima curiosità è sulla presenza femminile in questo settore che, come altri B2B industrial, è incentrato su prodotti «duri e puri». Bellini SpA non si discosta molto dalle altre realtà del mondo industriale: la percentuale delle assunte cambia a seconda del settore, «negli uffici rappresentano il 50%, in laboratorio ci sono tre donne e quattro uomini e, tra l’altro, sono loro ad avere il ruolo gerarchico più alto e le maggiori responsabilità, mentre siamo un po’ carenti nell’area tecnico-commerciale e in quella produttiva. Ma purtroppo in questo caso ci si scontra con la cultura italiana di gestione della famiglia che ancora è quasi sempre in capo alla donna. Non si può dare la colpa alle aziende se le caratteristiche dell’attività commerciale comportano un orario di lavoro poco consono per una donna che si deve occupare anche della casa e dei figli e che quindi non può uscire al mattino alle 5:00 e rientrare dopo le 19:00 piuttosto che fare il turno di notte se lavora in produzione. Le aziende però devono fare la loro parte per scardinare questo concetto di famiglia che lede la parità di genere». Marco Bellini è ottimista: il cambiamento è già partito e forse nel giro di una generazione sarà completo. Tutte noi ci auguriamo che abbia ragione.

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Anna Brasca

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