Heritage al femminile: Le grandi storie dell’heritage: Workout magazine incontra Eleonora Calavalle, CEO di Pennelli Cinghiale srl
No, giuro che non comincerò dal tormentone del «grande pennello» (gli eventuali Millennials in lettura dovranno arrivare almeno fino a metà articolo per scoprire di che cosa sto parlando). Voglio invece introdurvi Duty Gorn (e questo nome sì, i suddetti potrebbero conoscerlo, visto che appartiene alla loro generazione), artista poliedrico, che spesso viene definito street artist con un termine riduttivo perché, pur trovando nelle superfici urbane quel dinamismo e quella contemporaneità all’insegna della destrutturazione che sono il suo «marchio di fabbrica», nel suo percorso artistico non ha disdegnato le classiche tele e nemmeno le performance live. Personaggio a tutto tondo, debitore della Pop Art, dell’Optical e del graffito, che ha assimilato e rielaborato in modo originale, nella sua ormai vastissima produzione annovera i Brushes, pennelli che dopo l’utilizzo, ancora intinti nel colore utilizzato per dipingere, l’artista abbandona in luoghi apparentemente casuali (anche se ha dichiarato essere legati inconsciamente alla sua vita), come opere d’arte a sé stante, «segni indelebili capaci di raccontare un’esperienza».
Date le premesse, suonerà quasi predestinata la liason professionale tra lui ed Eleonora Calavalle, CEO di Cinghiale, azienda storica di Cicognara in provincia di Mantova che dei pennelli è regina fin dal 1945 quando fu fondata da Alfredo Boldrini, nonno di Eleonora. Galeotto fu (inevitabilmente) il pennello: «Io e Duty Gorn ci siamo incontrati – racconta Eleonora – nel modo più bello e poetico considerato il personaggio: con una caccia al pennello». È il 2020 e Duty Gorn è impegnato in una performance milanese: l’artista nasconde alcuni pennelli – sono quelli da lui usati, con le «colature» di colore che sono una delle sue caratteristiche stilistiche – all’interno di City Life Shopping District, il grande mall all’ombra delle Tre Torri, pubblicando sui social una serie di indizi che i suoi follower devono decodificare scatenandosi tra negozi, scale mobili e ristoranti. Eleonora ne è incuriosita, ascolta le testimonianze di chi ha partecipato («mi hanno detto che la cosa più brutta è quando arrivi al posto giusto, ma anziché il pennello ne trovi solo la traccia, segno inequivocabile che qualcuno l’ha scovato prima di te») e percepisce immediatamente le affinità elettive con questo ragazzo che nelle foto non sorride mai: «Per me lui era l’artista del pennello e il pennello è il nostro prodotto sicché lui era il nostro artista, l’artista di Pennelli Cinghiale». Lo chiama a Cicognara perché ha in mente un progetto ambizioso: un museo aziendale che chiamerà “Museo del Tempo”. La sua immaginazione l’ha già delineato: non sarà il regno della polvere e del vecchiume («di cui ho orrore»), sarà invece un luogo vivo, aperto alla collettività, dove il passato si intreccia all’oggi e nel quale la storia di un grande marchio del Made in Italy si parla con l’arte contemporanea, grande passione di Eleonora («Sono una “divora musei”– confessa sorridendo e poi aggiunge – d’altronde anche il nonno era un appassionato di pittura e, in virtù del suo business, ha conosciuto parecchi protagonisti dell’arte del Novecento»). Duty Gorn arriva, valuta lo spazio che Eleonora gli mostra e «dopo 24 ore mi ha presentato il progetto del museo intero, proprio come è oggi».
Museo introdotto da un’installazione, Upside down, che «consideriamo la nostra Cappella Sistina»: 550 pennelli intinti nei colori primari e distribuiti simmetricamente sull’immacolato soffitto dell’ingresso con precisione millimetrica. «Duty Gorn ha voluto proprio i pennelli con cui aveva realizzato tutti gli altri lavori esposti e quei pezzi a loro volta erano di scarto perché avevano imperfezioni a livello estetico. Quindi l’opera è stata un’operazione di upcycling che l’ha ulteriormente qualificata in termini di sostenibilità».
Ironia della sorte: questo luogo, che non ci si aspetterebbe dietro la facciata della palazzina degli uffici, forse non esisterebbe senza il Covid, quel periodo terribile che a molti imprenditori ha inferto un colpo mortale e che invece qui ha funzionato come potente fertilizzante del recupero di una memoria d’impresa. «È stato un momento – ricorda Eleonora – in cui, non sapendo cosa fare, abbiamo deciso di mettere ordine nelle cantine dell’azienda. Lì abbiamo trovato delle vecchie «pizze», delle pellicole 36 millimetri di cui ignoravamo l’esistenza. Le abbiamo portate a restaurare alla Cineteca di Bologna e quando siamo riuscite a proiettarle ci siamo rese conto che avevamo un vero tesoro tra le mani: erano gli spot girati prima del famoso «grande pennello», trasmessi quindi tra gli anni Settanta e il 1982. A quel punto ho avuto chiaro che il museo d’impresa su cui già fantasticavo meritava una superficie ben più ampia rispetto a quella che pensavo». Questi filmati adesso «girano» su un’installazione di Duty Gorn, una macchina agganciatrice risalente agli anni tra i Cinquanta e i Sessanta che assomiglia a un proiettore: «L’artista ha immaginato che l’apparecchio sia stato testimone di quegli anni e adesso ci restituisca quello che ha visto». Si trova nella prima sala del Museo insieme a una vibratrice (anch’essa d’antan) e ad alcune casse timbrate con una serie di ideogrammi e il nome di vari porti italiani: erano i contenitori della setola proveniente dalla Cina, mescolata alla naftalina per proteggerla dalle tarme durante il lungo viaggio in nave verso il nostro Paese. Già, perché il commendator Boldrini, a riprova della sua visionarietà e intraprendenza, è stato uno dei primi imprenditori italiani a stringere rapporti con la Cina comunista – a tal punto stretti e cordiali che all’apertura dell’ambasciata cinese a Roma nel 1970 sarà tra i pochissimi industriali a essere invitato – comprando le setole, lunghe anche dieci centimetri, di una particolare razza di maiali selvatici che vivono allo stato brado nel sud-est asiatico.
Di setole e fibre Alfredo Boldrini se ne intendeva. Da quando aveva sette anni e con il padre e il fratello viaggiava verso Parma e le Apuane su un carretto a cavalli carico della merce che si realizzava a Cicognara: scope. Fatte in saggina oppure, visto che il Po è proprio dietro l’angolo, in erba palustre, costituivano la punta di diamante produttiva di un territorio che ancora oggi è un distretto industriale importante per quei manufatti oltre che per i pennelli. La meta dei Boldrini era sempre la stessa: i piazzali dei paesi, soprattutto i sagrati delle chiese dove la domenica si facevano affari d’oro sfruttando l’uscita dalla messa. Tempo per studiare non ce n’è, Alfredo finirà a stento le elementari ma «lui si è sempre considerato fortunato perché rispetto ai suoi amici sapeva leggere e far di conto». Lo anima la passione, anzi il genio, del venditore, la stessa che conserverà per tutta la vita, e perfino quando viene chiamato alla leva, che svolgerà a Cuneo, nel tempo libero vende le scope del suo paese alle madamin.
A guerra finita si guarda intorno: lui sa di una cosa sola, scope, e in quel settore si butta. Continuerà a produrle («per ben sette anni» dice Eleonora) anche dopo il 1945, anno in cui farà il passo decisivo creando il suo pennellificio. Il nome? Cinghiale, accompagnato dal disegno di un ispido ungulato. Stupisce l’assenza del nome Boldrini, ma Alfredo è un anticipatore, capisce che un marchio figurativo e una parola evocativa hanno sul consumatore un impatto ben maggiore rispetto a un cognome e poi, molti anni dopo, spiegherà alla nipote che «un marchio, questo marchio, deve vivere al di là del tempo e delle persone, deve vivere da solo, diventare un asset per l’azienda a prescindere da noi». Lo registrerà nel 1954 – anche questa una scelta innovativa per l’epoca – perché è convinto che si tratti di un modo per differenziarsi dalla concorrenza, che poi è esattamente ciò che oggi si insegna in tutte le scuole di marketing. Questo atto consentirà alla Cinghiale, nel 2021, di ottenere il titolo di «Marchio storico di interesse nazionale», un’altra tappa nel processo di riappropriazione della propria identità storica. Non sarà facile: il Ministero dello Sviluppo Economico richiede prove certe della registrazione o di un uso continuativo da almeno cinquant’anni e così Eleonora si mette alla caccia di vecchie lettere, raccomandate, documenti vari che testimonino la diffusione e l’utilizzo del marchio dell’azienda anche prima del limite temporale indicato. Ce la farà, cosa che la riempie di soddisfazione anche perché così ha facilitato l’ingresso del Museo del Tempo nel prestigioso consesso dell’Associazione Musei d’Impresa.
Fin da quando la Cinghiale, proprio agli inizi, contava sette operaie, fino ad arrivare ai tempi in cui queste avevano raggiunto il cospicuo numero di 150, Alfredo Boldrini è sempre stato attento alla vita e ai bisogni dei suoi dipendenti. «Era una persona molto buona e generosa – ricorda la figlia Catiuscia, che di Eleonora è mamma e che ha affiancato per lungo tempo il padre nella conduzione dell’azienda – Quando è mancato ho avuto tantissime testimonianze della sua disponibilità e del suo altruismo, che erano ben conosciute in paese. Perfino dai concorrenti non veniva mai una parola cattiva contro di lui, lo stimavano al punto che quando decideva qualcosa lo seguivano poi tutti perché erano consapevoli della sua perspicacia». In Cinghiale solo assunzioni in regola, il che non era affatto scontato soprattutto negli anni Cinquanta, come testimoniato dal Registro infortuni a partire dal 1959 e dal libro paga dal 1954 al 1958 ritrovati ed esposti nel Museo. «Ci pigliavano per pazzi – racconta in un filmato il ragionier Parazzi, braccio destro di Alfredo per 33 anni e una delle persone che più lo hanno conosciuto intimamente – ci dicevano che non saremmo durati sei mesi». E oltre agli stipendi la tredicesima: Marisa, una delle prime operaie oggi ottantenne, ricorda che a Natale le capitava di incontrare coetanee che lavoravano in altre fabbriche e che si stupivano che in Cinghiale non fosse stato distribuito il panettone di prammatica, «ma a noi davano la tredicesima che era meglio del panettone!». Le parole di Luisa, un’altra pensionata dell’azienda, sono intrise di affettuosa riconoscenza: «Dovevamo comprare casa, ma non avevamo i soldi dell’anticipo. Il signor Boldrini ci ha detto: “voi andate, fate, e io vi aiuto” e ci ha prestato lui quanto era necessario» e mentre parla stringe nella mano la medaglia dell’azienda di cui è orgogliosissima. E poi la musica: sia Alfredo che la moglie Valeria amano la musica classica e così a un certo punto viene deciso che in fabbrica verrà installata la filodiffusione: «Facevamo i pacchi ascoltando l’opera tutto il giorno» racconterà una delle operaie.
Generosità e comprensione nei rapporti con gli altri accompagnate da uno spirito commerciale e manageriale raro per acutezza. Sapeva per esempio come responsabilizzare i collaboratori: «Mi diceva che di fronte ai clienti dovevo comportarmi, anzi “essere” l’azionista della società per la quale lavoravo, non il rappresentante. Questo mi faceva sentire importante»: a parlare nel video è Pietro Rivoletti, agente della Cinghiale dal 1978 al 2005. E la sua dialettica era proverbiale per persuasività: «Non usciva da un incontro con un cliente senza un contratto». Viaggiare per lavoro gli piaceva e anche se era più orientato ai mercati europei («ma perché in quei Paesi riusciva a organizzare qualche “incursione” a teatro, un’altra delle sue passioni») che a quelli africani o asiatici, le foto del Qatar, del Kuwait, della Nigeria, della Costa d’Avorio esposte al Museo sottolineano la sua capacità di aprire nuovi sbocchi in luoghi «che all’epoca erano più che esotici, era come andare sulla Luna» sorride Eleonora. Infine la brillante intuizione che lo sport, primo fra tutti il calcio, potesse essere un driver di fondamentale importanza per farsi conoscere: «Il nonno non diceva mai per quale squadra teneva perché, sosteneva, con i clienti non si deve mai parlare né di calcio né di politica per non suscitare malumori. Ma lui era un grande simpatizzante dell’Inter e soprattutto molto amico di Mazzola, che portava alle fiere perché così era certo che tutti sarebbero venuti al nostro stand per farsi fare l’autografo». Senza dimenticare i cartelloni negli stadi, ben visibili nelle cronache televisive delle partite dell’epoca. Oltre al calcio anche il ciclismo – la Cinghiale sponsorizzava una squadra di ex professionisti – e l’automobilismo con i rally. Di tanti di questi momenti sportivi restano belle foto che l’estro creativo di Duty Gorn ha manipolato con tratti a marker in colori sempre primari, molto strong, dando vita ai Retouché.
E arriviamo finalmente al «grande pennello», esposto in originale (sì, è proprio quello dello spot) nella sala d’onore: un gigante di quasi due metri e mezzo di lunghezza, in cartapesta, accanto al quale il selfie pare sia d’obbligo per i visitatori. È un’icona della pubblicità, studiata nelle università e ancora oggi considerata perfetta nella sua costruzione, memorabile a tal punto che se ne sono «appropriati» nel tempo anche tanti nomi della TV nostrana, primi fra tutti i comici da Luciana Littizzetto a Checco Zalone, certi di essere capiti dal pubblico. Descriviamola (a uso e consumo, appunto, dei Millennials che potranno comunque trovarla facilmente in rete): in piazza Castello a Milano, in un traffico che più infernale non si può, un imbianchino con una enorme pennellessa sulle spalle cerca di farsi strada in bicicletta vacillando tra le auto che lo sfiorano pericolosamente. «Ma cosa fa con quell’arnese? – lo apostrofa bruscamente un vigile – Ostacola il traffico!». La risposta dell’imbianchino è all’insegna del (apparente) buon senso: «Devo dipingere una parete grande, ci vuole il pennello grande». Al che il vigile replica: «Non ci vuole un pennello grande, ma un grande pennello: Cinghiale!». I docenti di marketing spiegano che in questo siparietto di 16 secondi c’è un distillato di sapienza comunicazionale da brivido. Innanzitutto la scelta di un luogo reale, quotidiano, in cui il pubblico si potesse riconoscere e calare. E poco importa che Milano non rappresentasse tutta l’Italia, era comunque il simbolo del Paese produttivo. In secondo luogo la risposta del vigile: semplice, diretta, ma geniale nella trasposizione dell’aggettivo che crea un effetto fulminante. Infine le dimensioni inverosimili del pennello che creano immediatamente il focus: è quello il prodotto pubblicizzato, non ci possono essere dubbi. Il tutto aiutato dalla mimica irresistibile di Enzo De Toma, «l’imbianchino» che sia nella finzione che nella realtà non sapeva andare in bicicletta (è per questo motivo che quella su cui pedala ha le rotelline dei modelli per bambini). L’ideatore dello spot è Ignazio Colnaghi, uno dei grandi nomi della pubblicità televisiva – tanto per capirci Calimero con il suo lamentoso «è un’ingiustizia però» era uscito dalla sua testa e così anche «Ava, come lava» – ma il «motore» di questa iniziativa, chi ha la certezza che la pubblicità televisiva sia diventata indispensabile per vendere è sempre lui: Alfredo Boldrini.
Se De Toma era credibilissimo nella sua stralunatezza, benissimo interpretato era anche il vigile, Francesco Papi, noto modello di quei tempi, che in uno dei tanti video visibili nel Museo racconta di essere stato scelto da Colnaghi «per la sua “faccia da schiaffi”», un giudizio che non solo non l’aveva offeso (in realtà lui era quel che si definisce un «bellone»), ma, al contrario, «mi aveva entusiasmato». Un altro segno del destino che il Museo del Tempo si dovesse proprio fare lo rievoca Eleonora: «Un giorno, mentre eravamo letteralmente sepolte tra i cartoni per visionare tutto il materiale che poi avremmo dovuto selezionare, suona il postino: ci recapita una lettera scritta a mano. Il mittente? Proprio Francesco Papi che voleva tornare in contatto con noi. Allegava una foto di allora e il suo numero di cellulare: per noi è stata l’ennesima riprova del significato profondo della nostra iniziativa che in tanti invece ci sconsigliavano, ricostruire pezzo dopo pezzo il nostro passato».
Marchio registrato, pubblicità televisive, testimonial sportivi, sono tutti esempi di quanto l’innovazione, soprattutto nella comunicazione, fosse nel DNA del commendator Boldrini. Ma aggiungerei, nel campo gestionale, anche la precocissima informatizzazione – «Il primo computer è arrivato da noi nel 1980 – sottolinea Eleonora – quando li avevano solo grandissime aziende come la FIAT e la Ferrero». E Leda, impiegata storica di Cinghiale, ricorda che «da un giorno all’altro ci dissero di buttare via le penne perché da quel momento si sarebbe lavorato solo sugli elaboratori elettronici». Eleonora non è da meno, a partire innanzitutto dalla decisione di costituire un museo d’impresa, una modalità estremamente efficace per valorizzare la propria immagine ma sulla quale ha patito più di una sbeffeggiatura: «Mi dicevano “Vabbè, ma alla fine cosa hai da raccontare su un pennello?” Davvero non capivano». Sempre pronta a guardare avanti, nel 2014 svolta in modo rivoluzionario rispetto alla storia dell’azienda ed entra nel settore delle vernici («Mio nonno ha sempre sostenuto che Cinghiale non avrebbe mai prodotto pitture, ma lui era un uomo nato nel 1920, il mondo era cambiato, non bisogna fossilizzarsi, nemmeno rispetto alla propria eredità»). La sua voce è decisa e tranquilla quando afferma che «è stato un salto quantico, ma in un certo senso naturale perché per essere specialisti del pennello abbiamo sempre dovuto conoscere a fondo il mondo delle pitture. È poi, cosa che mi riempie di orgoglio, è una richiesta partita dal basso, dai clienti che ci hanno spinto a questo passo sottolineando quanto fosse forte il nostro marchio e quanto sarebbe stato importante trovarlo a scaffale su una latta di vernice». La produzione è stata affidata a terzi, «specialisti locali per una scelta di sostenibilità, il chilometro zero, che mi piace sottolineare» ed è supportata da tanta ricerca nella direzione di prodotti performanti, ma sempre più naturali nei componenti oppure con caratteristiche funzionali particolari. Qualche esempio: la pittura al bicarbonato di sodio, dall’effetto sbiancante e prodotta con il 95% di materie prime naturali eco-friendly oppure quella agli ioni d’argento con azione batteriostatica («siamo partiti dallo studio delle vernici che si usano nelle sale operatorie») oppure ancora la pittura antipolvere che contiene particelle antistatiche («così possiamo dare l’addio agli sbaffi neri sopra il calorifero»). E che la scelta sia stata vincente è testimoniato dall’ottima crescita negli anni di questo settore aziendale che anzi oggi è quello che registra percentualmente le migliori performance.
A nuove vernici nuovo pennello. Cinghiale ha sempre creato per i suoi prodotti miscele di filamenti ad hoc per ogni tipologia di utilizzo, ma nel 2013 ha brevettato il sogno di tutti gli imbianchini, il boartex®, fibra sintetica costituita da un mix di filamenti di forma diversa: tonda piena, conica, a fiore ricoperti da particelle estruse per trattenere meglio la vernice. Il risultato è un pennello dalle prestazioni impeccabili su tutte le superfici sia con le pitture all’acqua che con quelle a solvente, mentre in genere le prime prediligono i filamenti sintetici e le seconde le setole naturali. Anche per quanto concerne l’innovazione tecnologica Cinghiale ha fatto decisi passi in avanti: tre anni fa è stato installato un impianto robotizzato a tecnologia 4.0, a ciclo completo (cioè con una produzione del pennello dall’inizio alla fine) e a controllo integrato (ogni fase della realizzazione viene controllata da una telecamera per cui se il pennello non corrisponde agli standard, viene automaticamente scartato) che produce 11.000 pennellesse in otto ore sotto la gestione di un solo operatore, una mole di lavoro che prima occupava sei operaie per quattro giorni. Le macchine dunque sostituiranno alla lunga le maestranze? L’ingresso dell’automazione nelle fabbriche da sempre alimenta timori che non sono così fuori luogo, ma Eleonora sembra tenerci, e anche molto, alle sue collaboratrici, e d’altro canto la macchina di cui parlavamo è la risposta più efficiente a grandi commesse provenienti da player internazionali del calibro di Leroy Merlin, Brico Center, Brico Io, Bennet (solo per citarne alcuni) mentre per produzioni meno consistenti si continua a ricorrere alle macchine più tradizionali e più piccole sulle quali le mani delle operaie si muovono agilmente.
27 dipendenti, all’80% donne, con un turnover bassissimo: questo il panorama di Cinghiale. Collaboratrici di cui Eleonora e prima ancora Catiuscia conoscono vita, morte e miracoli: «Le incontro quasi tutti i giorni – dice Catiuscia – so se hanno problemi a casa o se sono preoccupate per qualcosa». Proprio per venire incontro al loro desiderio di recuperare una fetta della giornata da dedicare alla famiglia o semplicemente a se stesse, è stato cambiato l’orario di lavoro che oggi va dalle 8 della mattina alle 16, una decisione che purtroppo, si rammarica Eleonora, non è stata adottata da nessun’altra azienda in zona con motivazioni a volte risibili: «La verità? Gli uomini, che siano imprenditori o dipendenti, non capiscono il vantaggio di avere del tempo a disposizione, peggio, non lo sanno proprio utilizzare, preferiscono restare in ufficio fino a tardi perché le loro relazioni sociali si fermano lì». Eleonora è irruente e concreta quando parla e ascoltandola si capisce perché Forbes nel 2022 l’abbia inserita tra le 100 donne di successo d’Italia: «A me piacciono le sfide tant’è che dico spesso di non essere qui per celebrare o conservare quello che hanno fatto mia mamma o ancora prima mio nonno. No, io voglio fare meglio di loro e il mio più grande desiderio è di lasciare il testimone a qualcuno che sappia sfidarmi e fare a sua volta meglio di me. È questa la molla che mi fa alzare tutte le mattine per venire qui».
E dire che i pennelli non sono la sua unica passione: Eleonora infatti si divide tra Cinghiale e un’altra impresa, Officina Parfum, nella quale si dedica alla produzione di fragranze, un’attività che le piace tanto quanto la prima al punto da volerne celebrare il connubio per mezzo di un’opera d’arte dal nome quanto mai evocativo: Pennello olfattivo. Conservata sotto una campana di vetro nel Museo, è la reinterpretazione in ceramica bianca del più celebre prodotto dell’azienda, il pennello serie 537, ed è stata realizzata da POL Polloniato, ultima generazione di una famiglia di ceramisti attiva a Nove, nel Vicentino, dai primi dell’Ottocento. Dal pennello si sprigiona un singolarissimo profumo, studiato dal noto master perfumer Luca Maffei, nel quale gli aromi che si ritrovano abitualmente nelle vernici si fondono con pepe rosa, cumino, iris, ginepro in una combinazione odorosa seducente e originale. E questo è solo un esempio di come Eleonora continui a reinventarsi e a reinventare il proprio modo di operare: «Mi piace cercare sempre qualcosa di nuovo. Uno dei progetti più entusiasmanti, nel solco dell’economia circolare, è quello che ci ha viste lavorare con Seletti (marchio al confine tra l’arte contemporanea e il design industriale, la cui sede si trova proprio di fianco a quella di Cinghiale n.d.r.). Continuavo a chiedermi come mai nessuno pensasse di riutilizzare le latte di vernici, una volta svuotate del contenuto, visto che per forma e dimensioni sarebbero dei fantastici contenitori o piani di appoggio e sono arrivata alla conclusione che il motivo era… la bruttezza. Ma allora, mi sono detta, se noi le realizzassimo più gradevoli, potremmo dar loro una seconda vita. Così ho cominciato pensare a un partner in grado di impreziosirle, passavo in rassegna i nomi della moda, quelli dell’arte e a un certo punto sono stata folgorata da un’intuizione, la soluzione ce l’avevo proprio a portata di mano! Ho chiamato Stefano Seletti che si è entusiasmato dell’idea e così è nata una collezione coloratissima ed eclettica di latte che all’interno sono rivestite da un sacchetto impermeabile che, una volta finita la vernice, si rimuove facilmente. E voilà, la latta è pronta per essere riciclata a piacere».
Anche sul packaging Eleonora ha introdotto delle novità facendo disegnare le scatole di imballaggio da Duty Gorn per avere un fil rouge stilistico che si snodi dal Museo del Tempo al punto vendita: «Viene da mio nonno, anche in questo caso in anticipo assoluto rispetto ai tempi, l’idea che se si vuole che un prodotto sia migliore rispetto alla concorrenza non solo occorre che sia più bello esteticamente ma che lo sia anche il contenitore». E proprio per omaggiare le intuizioni del «commendator Alfredo» Eleonora ha voluto realizzare in edizione limitata un pennello vintage, elegantissimo nel suo manico in legno laccato e nella sua confezione sui toni del nocciola, indicato non da un numero come di solito avviene, ma da quell’appellativo.
Di fronte alla grande installazione Pennelli nel tempo di Duty Gorn che raccoglie i modelli più famosi dell’azienda in una sorta di cronologia dalla fondazione ai giorni nostri, viene spontaneo chiedersi, appunto, quale futuro prefiguri Eleonora per Cinghiale. Risposta serena: «Ovvio che mi piacerebbe che l’azienda rimanesse all’interno della mia famiglia, dove è nata quasi ottant’anni fa, ma non lo vedo e non lo vedrò mai come un obbligo. Non so come sarà il mondo né cosa potrò fare domani, resto aperta a qualsiasi opzione. Non ho figli, ho dei nipoti ma so che non è più tempo di imporre a qualcuno di entrare a guidare un’impresa solo perché questa è stata per tanti anni in mano a una dinastia. Una sola cosa so per certa: non vorrei mai ad affiancarmi una persona che non abbia prima fatto esperienza altrove perché è solo quando sei fuori dalla tua comfort zone lavorativa, quando entri in una realtà in cui non sei nessuno, che ti confronti veramente con i parametri altrui e che impari quel rispetto per il prossimo che poi porterai con te dovunque andrai».
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