Di sacchi e di sogni

Workout Magazine - Studio Chiesa communication

Di sacchi e di sogni

Heritage al femminile: Workout magazine incontra Luisa Franceschetti di Saccheria F.lli Franceschetti S.p.A.

Live Your F***ing Dreams Big.
Benvenuti in Saccheria Franceschetti, dove lo stile della casa si riconosce già da questo invito che campeggia su un cuscino della sala riunioni: scanzonato, ironico e autoironico, proprio come i due amministratori, Luisa e Luigi Franceschetti, cugini primi, 6 anni di differenza, che si sono frequentati – poco – in famiglia (“In realtà non ci conoscevamo, io sono cresciuta con le sue sorelle, quando avevo 12 anni lui era un pischelletto di 6, a 18 anni lui era un dodicenne e quindi figuriamoci”), si sono persi, si sono ritrovati in età decisamente adulta e “davanti a una bottiglia di vino” hanno deciso di lanciarsi insieme in un’avventura che mai avrebbero considerato di  intraprendere. Vi ho incuriosito? E allora seguitemi in questa storia che, come tutti i racconti che riguardano la vita, quella vera, ha un sottofondo agrodolce a cominciare già proprio da quella scritta. Sì, perché una volta spento il sorriso che scaturisce dal linguaggio disinvolto, inevitabilmente sorge una riflessione che per molti può essere amara: chi di noi ha o ha avuto il coraggio di vivere i propri sogni “alla grande”, fino in fondo? O non è forse vero che il più delle volte si abdica per paura, indecisione o semplicemente perché il quieto vivere presenterà pure dei conti da pagare ma alla fine è comodo? E dopo aver ascoltato Luisa, ancora più forte è un secondo interrogativo: quanto costa rinunciare ai propri sogni se si è stati capaci di realizzarli? Ci può essere ancora serenità dopo una scelta così difficile? Come nelle riviste di enigmistica, la soluzione è in fondo all’articolo.

Cominciamo con il circoscrivere il business di questa impresa a due passi dal lago d’Iseo, nello straordinario contesto naturale della Franciacorta che più che al lavoro invita all’ozio alcolico. Saccheria, quindi sacchi (prodotti internamente o commercializzati), lo dice la parola stessa. Ma questi sono sacchi particolari, molto resistenti, capaci di portate fino a 15 quintali – sono i big bag – e con fattori di rottura pari a 5 volte questo peso, tant’è che servono settori quali l’edilizia, l’agricoltura, la gestione dei rifiuti, la chimica. Nel catalogo si accompagnano a “fratelli” di dimensioni più ridotte – gli small bag – che arrivano fino ai 25 chili di contenuto e sono più usati nel mondo del food, per esempio per i cereali. Il materiale è la rafia di polipropilene, una plastica che arriva in rotoli direttamente dalla Turchia e viene poi lavorata nei reparti dello stabilimento: tagliata in grandi teli che poi verranno assemblati in sacchi con le macchine da cucire – ce ne sono di tanti tipi diversi a seconda delle esigenze della lavorazione – che in questo luogo sono ancora regine con le proprie addette, maestre di punti e di aghi. Tutto qui? In un certo senso sì, però è nel dettaglio che, come sempre, si cela la perfezione. Fatto il sacco, bisogna anche realizzarne i manici, le “bretelle” come le chiamano, il cui taglio è effettuato da una macchina apposita. Poi se il futuro contenuto richiede delle particolari precauzioni, per esempio se si tratterà di sostanze chimiche, nel sacco viene inserito un liner in polietilene che offre una maggiore sicurezza nei confronti delle dispersioni nell’ambiente. O ancora può accadere che il cliente richieda il sacco brandizzato o personalizzato: in questo caso si può stampare o l’intero rotolo di partenza – con una macchina in continuo – oppure gli spezzoni che poi saranno le pareti del contenitore. Ci sono i sacconi tubolari che vengono realizzati da un’unica macchina, quindi in totale automazione, che taglia, cuce e stampa, i sacchi con valvola che facilita lo scarico, i contenitori destinati alle spedizioni postali che necessitano di sigilli particolari, insomma se realizzare un sacco vi sembra poco, sappiate che ci sono dei modelli che richiedono fino a 20-22 fasi di lavorazione. E in moltissime di queste la mano umana è determinante nonostante qui l’automazione sia vissuta quasi come un imperativo categorico al fine di “liberare tempo”: “Noi automatizziamo tutte le azioni che non richiedono altro se non ripetitività – dice Luisa Franceschetti – , non vorremmo più vedere da nessuna parte situazioni lavorative che per noi appartengono al passato, quando non si poteva nemmeno andare a bere un caffè alla macchinetta o magari si mangiava sulla scrivania, con le briciole che finivano sulla tastiera del pc, per non perdere tempo. Noi al contrario vogliamo che le persone si prendano anche venti minuti per fare una pausa all’aria aperta, magari sotto il gazebo (nel piccolo giardino prospiciente l’ingresso n.d.r.) facendo quattro chiacchiere. Perché è anche da quei momenti che nascono le idee”. 

Due momenti nel processo di realizzazione dei big bag.

Dove la tecnologia e l’AI la fanno veramente da padrone è il magazzino: in questo ambiente, quasi asettico tanto è l’ordine e la pulizia che vi regnano, tutto viene tenuto sotto controllo da un tablet. I materiali in ingresso vengono catalogati e identificati grazie a un QR code e a un barcode e poi collocati in magazzino in una delle 1500 postazioni di pallet che lo compongono, anch’esse classificate dal software. Quando arriva un ordine, il magazziniere legge sul suo tablet di quanti “codici” si compone e dove questi si trovano. Volendo, può perfino seguire una guida vocale che lo porta alla giusta postazione. Scannerizzando poi i codici sui pallet con il dispositivo apposito si genera direttamente un documento di trasporto e in automatico viene emessa una fattura, il cui importo è modulato da un algoritmo in base alla puntualità del cliente nel ritirare l’ordine. Tutti gli scarichi di magazzino generano inoltre per i prodotti “make to stock”, che sono poi quelli che si vendono di più e si trovano sull’e-commerce, una richiesta di riordino basata sulle indicazioni del sistema MRP.
Il software tiene anche sotto controllo la gestione dello spazio del magazzino che è diviso in “baie”, ciascuna delle quali può contenere un certo numero di pallet. Così, per fare un esempio, quando in una baia da 48 pallet i pezzi presenti scendono sotto i 20, il sistema propone di spostarli in una più piccola in modo da non sprecare spazio.
Tutto questo è stato reso possibile dall’interazione dell’azienda con Google AI e il suo cloud: i Franceschetti hanno sviluppato una start up, ELI WMS, basata su Google Kubernetes Engine, che, come visto, ottimizza il magazzino e integra la logistica con il gestionale, consentendo un efficientamento dei processi con un aumento considerevole del fatturato e della marginalità. E se l’e-commerce – di proprietà e aperto con un tempismo fortunato nel 2019 appena prima della pandemia – sta crescendo moltissimo è perché, dice Luisa, “avevamo ormai un processo alle spalle. Il nostro non è uno di quegli e-shop in cui tu piazzi l’ordine, un tuo collega lo stampa, altro ancora carica l’ordine e così via. No, da noi parte l’ordine direttamente dal cliente e noi sappiamo che è avvenuto l’acquisto perché da un lato l’ordine arriva al magazziniere e, dopo che sarà stata inviata automaticamente la fattura, il CFO viene avvisato dell’accredito”.
Il colosso di Mountain View li ama: “Siamo sul sito di Google America come una delle otto piccole aziende italiane che hanno utilizzato Google Workspace in modo estensivo – continua Luisa –, siamo stati invitati al celeberrimo Net Google Next di San Francisco, insomma ci hanno portato in palmo di mano, ma in realtà noi abbiamo anticipato quello che molte altre imprese adesso fanno”.

Il magazzino, completamente automatizzato, della Saccheria.

Approfondite spiegazioni tecnologiche si mischiano alla battuta e all’aneddoto spiritoso: “la spinta al cloud, a condividere le informazioni, a spostarle dove siano sempre accessibili, ma al sicuro, nasce da Luigi e dalla sua inguaribile distrazione! Viaggiando molto era ossessionato dalla paura di trovarsi, poniamo, in Oman e di perdere il passaporto o di farselo rubare, così, più o meno trent’anni, fa aveva l’abitudine di mandare a se stesso una mail con la fotocopia del documento!”. Si ride, ovvio, piace come questa donna concreta che, insieme al cugino, è stata capace in una decina di anni di rivoltare un’azienda “molto sana da un punto di vista finanziario e organizzativo, ma un po’ imbalsamata e per di più incentrata su un prodotto old school” fino a trasformarla in una case history di innovazione, sia la prima a prendersi garbatamente in giro, dribblando ogni tentazione di autoincensazione. Ancora più apprezzabile perché non stiamo parlando dell’erede designato di una dinastia industriale, cresciuto ed educato a pane e azienda. No, Luisa aveva ben altro per la testa ed era ben decisa a perseguirlo.

A dare il via alla Saccheria è il nonno Luigi (abbiamo capito che questo nome corre di generazione in generazione nella famiglia Franceschetti): è il 1939, lui, padre – alla fine – di ben 13 figli, ha l’intuizione di raccogliere i sacchi di iuta che ai tempi venivano utilizzati in agricoltura, rammendarli dove necessario e poi rivenderli. Questa piccola attività artigianale ha successo e si ingrandisce progressivamente. “Nonno era un uomo di grandissima creatività imprenditoriale che ha trasmesso ai figli… maschi. Sì, perché l’impostazione famigliare era rigidamente maschilista, al punto che nonna, in un momento in cui si stava predisponendo un testamento, fece presente alle figlie che le si stava trattando allo stesso modo dei fratelli, quasi fosse un raro privilegio”. Le femmine quindi non studiano, mentre tra i maschi alcuni cominciano ad aiutare il padre, un paio prendono la strada del seminario mentre altri ancora cominciano a creare delle proprie realtà, come Gefran, che dal 1969 produce componenti elettroniche.

A continuare l’attività del nonno sono il padre di Luisa e quello di Luigi a cui si affianca inizialmente un terzo fratello che però si ammala giovanissimo ed è costretto a ritirarsi: compreranno dal padre l’azienda “perché i Franceschetti non regalano nulla” ride Luisa, aggiungendo però che quella che sembra una mossa taccagna in realtà è un modo un po’ ruvido, ma efficace, per far percepire il valore di ciò che ti viene dato. Nel frattempo nascono Luisa, Luigi e altri loro cugini che crescendo iniziano a ritagliarsi un proprio spazio nel mondo del lavoro o all’interno delle università. Luigi va in Gefran, Luisa studia – con poca voglia – e nel frattempo dà una mano in azienda. Intanto si guarda attorno, anche in vista di possibili future esperienze all’esterno. Purtroppo i primi approcci a quel mondo in cui dovrebbe entrare a breve si rivelano disastrosi. Dapprima si iscrive a un corso di formazione organizzato da Confindustria di Brescia con la partecipazione di padri e figli che convivono in un’azienda: “Ho respirato una tale tristezza in questi uomini cinquantenni che in azienda avevano un ruolo solo formale, non sostanziale, che mi sono detta: ma io non voglio diventare come loro! Il giorno stesso me ne sono andata”. In seconda battuta risponde a un annuncio di lavoro sul giornale, va al colloquio con la società di selezione e tutto sta procedendo bene finché all’ultimo momento non le viene chiesto se lei è una Franceschetti della Saccheria: “alla mia risposta affermativa, ho avvertito un clima di sospetto, della serie: questa è “figlia di” e quindi a rigor di logica dovrebbe essere nella “sua” azienda, non fuori a cercar lavoro… ci deve essere qualcosa che non va”. E quindi l’opportunità sfuma.
Altre invece andranno in porto, attività in campi diversi, diverse mansioni finché non subentra la crisi e Luisa decide di riavvicinarsi all’azienda di famiglia andando a gestire una nuova acquisizione di Saccheria. Ma le sta stretta, capisce il desiderio del padre di averla vicino nella gestione della quotidianità lavorativa, ma non accetta i modi di lui, troppo diversi i loro caratteri.

E adesso attenzione perché sta arrivando il momento più interessante di questa storia.
Immaginatevi una Luisa che ha appena deciso di chiudere l’esperienza di avvicinamento in Saccheria e si sta chiedendo cosa potrebbe fare. Certo, potrebbe cercare un posto di lavoro in un’altra azienda in un altrove geografico qualsiasi, ma ormai si conosce bene e sa di aver bisogno di continui stimoli, di traguardi sempre più sfidanti. Davvero glieli potrebbe offrire un’impresa dove inevitabilmente a un certo punto “viene a mancare il “dover dimostrare” che è un po’ parte del mio gioco”? È a quel punto che ha una sorta di illuminazione: “Sapevo di avere capacità organizzative e mi piaceva moltissimo combinare cene e feste. Così mi sono detta che avrei potuto darmi alla cucina anche se ai tempi – ancora Masterchef non esisteva – non sapevo come e se avrebbe potuto diventare per me un lavoro”. Luisa parla di questa sua idea a un’amica, vorrebbe potersi affiancare per qualche mese a un vero chef in un vero ristorante, anche senza stipendio, giusto per capire se sia davvero portata per un’attività del genere e poi anche per imparare, e l’amica, vero colpo di fortuna, conosce l’allora presidente di Jeunes Restaurateurs d’Europe, lo contatta e “il giorno dopo trovo 7 mail da 7 ristoranti diversi, mi viene ancora adesso la pelle d’oca a raccontarlo”. Dopo una serie di colloqui la scelta di Luisa cade su un ristorante stellato a Città di Castello, il cui chef patron le offre di occuparsi del pane e dei dolci facendo da “garzone” dello chef giapponese che ricopre quel ruolo. Dire che l’esordio è spinoso è dire poco: quello che dovrebbe essere il suo capo diretto non le parla perché donna, comunica con lei a laconici segni, addirittura “io capivo che cambiava la ricetta solo perché girava la pagina del ricettario”. Per di più, dopo una manciata di giorni rassegna le dimissioni e se ne va lasciando Luisa sola e nel panico. Ma la sua capacità organizzativa e l’empatia che sprigiona diventano i suoi scudi protettivi: nella brigata c’è un ragazzo deputato agli antipasti che è anche il secondo dello chef, “eravamo affini, anche lui non aveva frequentato un istituto alberghiero, ma aveva nel suo curriculum corsi professionali ed era davvero molto bravo. All’inizio non mi poteva vedere forse anche perché la prima volta che mi ero presentata in cucina masticavo un chewing gum, ma a poco a poco la sintonia è migliorata ed è diventato veramente un amico”. È da lui che Luisa impara, e velocemente, tanto che dopo un paio d’anni decide di aprire un proprio ristorante sul lago d’Iseo: A filo d’acqua, una bomboniera con 7 tavoli, rivolto a un target medio-alto, molto diverso da quello dei campeggiatori che ai tempi costituivano il turismo tipico locale. È subito un successo e alla soddisfazione di aver centrato il bersaglio Luisa aggiunge la gioia di avere finalmente la riprova di essere una vera imprenditrice, per di più con una propria identità: “Quella è stata la prima volta in cui mi sono detta: sì, sono in grado di gestire la complessità. Quando poi in un incontro mi è stato chiesto se ero la Franceschetti di A filo d’acqua, e non la Franceschetti della Saccheria, ho capito di aver finalmente acquisito una mia indipendenza!”

Purtroppo l’annus horribilis incombe: è il 2008 con la sua crisi che investe tutti i settori, ristorazione compresa, e anche A filo d’acqua comincia a soffrire. Luisa è dell’idea di lasciare l’attività, ancora una volta si affaccia nella sua vita l’incertezza sul che cosa fare del proprio futuro e ancora una volta è l’amico del ristorante di Città di Castello, che in quel momento sta lavorando in Cina, ad aiutarla: in quel Paese che sta sbocciando economicamente ci sono mille possibilità per chi si fa interprete della cucina italiana, solo che per un’assunzione occorrono basi più solide di quelle che Luisa possiede. Che fare? C’è un’unica soluzione: iscriversi a un istituto alberghiero. Più facile a dirsi che a farsi: “Quando mi sono presentata – avevo 44 anni – la prima domanda è stata: è suo figlio o sua figlia che si vuole iscrivere? Veramente sono io, ho risposto”. Luisa spiega che vorrebbe fare cinque anni in uno e sostenere l’esame finale da privatista, ma le si para davanti un muro di burocrazia condita con una buona dose di scetticismo. Risultato: dovrà frequentare e sostenere tutti gli esami compresa educazione fisica “che quasi mi viene un infarto perché non sono un tipo sportivo”. I mesi passati in classe saranno però di gran divertimento, con trenta ragazzi con cui crea un incredibile rapporto di complicità – lei è quella “brava” che passa i compiti di matematica – e gli esami conclusivi con il goffo tentativo, per la prova di storia, di copiare dai “pizzini” che si era diligentemente preparata perché “quella materia non mi è mai piaciuta”. Ma a 44 anni la vista non è più quella dell’adolescenza e per di più Luisa è maldestra, i pizzini le cadono tutti, comunque alla fine si diploma e a pieni voti.

A questo punto si infila un’altra di quelle incredibili serie di coincidenze che hanno segnato la vita di Luisa: attraverso l’amico chef viene a sapere di una selezione per il ristorante di un hotel a cinque stelle a Taipei. Manda il curriculum e viene scelta: l’hotel è nientepopodimeno che il Mandarin Oriental. “Mi ha pigliato un colpo. Ci hanno convocati (anche l’amico ha passato la selezione n.d.r.) a Taipei per organizzare, come fosse una prova d’esame, una cena per dieci persone e io ho dovuto portare tutto dall’Italia, perfino le mozzarelle in valigia. La sera stessa avevo il contratto”.
Inizia la vita cinese di Luisa che si diverte, si sente realizzata, e forse rimarrebbe sempre là se non fosse che più o meno un anno dopo la famiglia bussa alla sua porta.

E qui bisogna aprire una finestra su quello che nel frattempo era avvenuto a Provaglio d’Iseo. Il padre di Luisa, che all’inizio non aveva proprio digerito (per restare in tema di cibo) le scelte della figlia tanto da non voler nemmeno partecipare all’inaugurazione di A filo d’acqua, si era gradatamente ammorbidito e le aveva accettate pur senza grandi entusiasmi. Ma ormai l’età avanza e bisogna pensare a una successione in Saccheria oppure a vendere, ipotesi che “per papà era impensabile, la sua mentalità non contemplava proprio che non si potesse garantire la continuità dell’azienda all’interno della famiglia”. Il fatto è che le sorelle di Luisa ormai hanno intrapreso strade professionali diverse, lo zio ha sempre avuto incarichi formali e un’età che si avvicina agli 80 anni, e il cugino Luigi nel frattempo ha fatto carriera in altre realtà imprenditoriali non legate alla famiglia. Nessuno sembra interessato a far proseguire l’impresa. Ed è in questo momento (stiamo parlando del 2013-2014) che i genitori cominciano a premere su Luisa perché torni a casa. Le promettono l’azienda, lei resiste caparbiamente: “Ogni tanto venivo in Italia a trovare i miei e ricordo una volta che abbiamo fatto un incontro in ufficio, c’eravamo io, papà, Luigi e forse suo padre, una delle mie sorelle con mio cognato che si occupava un po’ delle faccende della famiglia. Ci guardiamo in faccia, ci parliamo, ma io sentivo quell’ambiente completamente avulso, tornare sarebbe stato per me un sacrificio enorme che non avevo nessuna intenzione di fare perché finalmente mi stavo godendo il mio momento”. Nello stesso tempo però forse qualche senso di colpa comincia a roderle dentro, ha toccato con mano la fragilità del padre, non più in piena forma, con gli anni che inesorabilmente incalzano.

E arriviamo al momento fatidico, quando Luigi va a trovare la cugina a Taiwan in occasione di una fiera di cosmetica alla quale partecipa la sua fidanzata. Davanti alla bottiglia di vino citata all’inizio, Luigi propone a Luisa di valutare l’idea di entrare entrambi in Saccheria come rappresentanti delle due famiglie socie: “L’idea di non essere da sola non mi dispiaceva, certo ero a conoscenza di qualche screzio avvenuto tra i nostri padri, è inevitabile in una società 50 e 50, ma Luigi mi era piaciuto, lo stesso io a lui e quindi ci siamo detti: o la sfida la prendiamo insieme o non la prendiamo”. Nel giro di qualche mese Luisa lascerà il Mandarin Oriental e farà rotta per Provaglio d’Iseo dove il cugino la aspetta. “È stato un dolore fortissimo, una rinuncia indescrivibile” – la voce le si incrina – e anche se adesso sono molto contenta della mia scelta, soprattutto per come è andata, ancora mi commuovo”.

Allora vissero tutti felici e contenti? Beh, no. L’inizio è durissimo: l’azienda è da svecchiare, sia nei processi sia nella mentalità e non è impresa facile con i due padri ancora attivi e forse non molto propensi a farsi mettere in un angolo. “Ricordo il primo giorno in azienda, chiedo a mio padre dov’è il mio ufficio e lui mi indica una scrivania di fronte alla SUA, nel SUO ufficio, dicendomi: puoi metterti là, no? Proprio no, gli ho risposto, mi state aspettando da sei mesi e ancora mi volete far fare la segretaria? E ho occupato l’ufficio più bello”.
“Per un anno e mezzo abbiamo solo seminato – prosegue Luisa –, avevamo però il vantaggio di aver lavorato fuori, in contesti e Paesi diversi, e vedevamo perciò lucidamente cose di cui gli altri non si rendevano conto. Per esempio l’importanza della comunicazione sia all’esterno sia, e soprattutto, all’interno: se non comunichi una cosa, è come se tu non l’avessi fatta. Certo, non puoi dare a tutti la stessa informazione con il medesimo linguaggio ma bisogna che ciascuno si senta parte di un’unica realtà, anche questo è condivisione che è poi il nostro mantra lavorativo”. Dopo l’esordio, non proprio semplicissimo, e dopo tanto lavoro, i risultati hanno cominciato finalmente ad arrivare con una crescita che non ha conosciuto battute d’arresto.

Se la parola innovazione è quella che più caratterizza la realtà di Saccheria, se ne deve, a mio parere, sottolineare un’altra: creatività. Qui si guarda al futuro con occhi aperti e vivaci, pronti a declinarlo in modi quasi disruptive rispetto al DNA aziendale, fuori dagli schemi che la tradizione e il passato potrebbero imporre. Un esempio? Sackmonarchy, la linea di fashion bag lanciata quest’anno su un e-commerce dedicato. Una collezione di originalissime borse a mano da donna, di zainetti da lavoro dove riporre notebook e tablet, di multibag in grado di trasformarsi rapidamente da zaini a 24 ore con tracolla annessa e infine di travelbag che contengono in ordine perfetto il cambio per un weekend o una trasferta di lavoro. Non è tanto il design, peraltro azzeccato e originale, a fare la differenza, quanto il discorso che sta dietro. Tutta la produzione, infatti, nasce dagli scarti di lavorazione dei big bag e proprio per questo motivo è composta di pezzi unici o quasi, dall’impronta sartoriale e con una cura maniacale per i dettagli. Un ulteriore valore aggiunto è, ancora una volta, il “fattore umano”: a tagliare e cucire la rafia sono ragazze a cui l’azienda ha fatto frequentare corsi specifici legati al mondo della moda perché si costruissero un’expertise. I modelli piacciono, sul sito sono tanti i sold out ed è già stata avviata una partnership prestigiosa, quella con Millemiglia: per gli equipaggi della corsa sono state infatti create 900 borse, una diversa dall’altra e numerate, capienti, resistenti e impermeabili, che hanno dato un tocco green all’iniziativa. E d’altronde la moda sempre più dovrà essere sostenibile e fare i conti con la circolarità delle risorse.

Luisa Franceschetti con alcune fashion bag della linea Sackmonarchy.

Per Saccheria il 2022 è stato l’anno della decisione di quotarsi in Borsa. Un passo importante dettato da più di una ragione, come ci spiega Luigi Franceschetti (nel frattempo è entrato nella stanza, accolto da un: “Vieni vieni, sto parlando bene di te”): “Innanzitutto abbiamo voluto fare con Saccheria quello che mio padre e mio zio avevano fatto con Gefran, l’altra impresa di famiglia di cui sono membro del consiglio di amministrazione: la loro era stata una sorta di scommessa sul fatto che potesse diventare qualcosa di più grande, cosa che effettivamente è stato. Poi l’essere quotati in Borsa crea una separazione totale tra investitori e gestori e diventa quindi una fenomenale soluzione nel caso in cui in una famiglia ci sia qualcuno che è interessato solo a investire e altri che invece vogliono essere parte del management. In terzo luogo in una società quotata le normali interferenze che possono esserci tra proprietà e manager tendono a scomparire per gli ovvi obblighi di riservatezza nei confronti del mercato. Una scelta del genere infine ti porta a essere un po’ più ambizioso, è uno stimolo, una sorta di calcio nel didietro. Senza dimenticare che ti conferisce una straordinaria visibilità e molta più attrattività nei confronti dei talenti che si vogliono assumere”

Luisa e Luigi Franceschetti nel magazzino della Saccheria.

Si capisce che tra i due cugini c’è una solida intesa: “Ha senz’altro aiutato il fatto che praticamente non ci conoscessimo, non avevamo perciò pregiudizi l’uno nei confronti dell’altro, ci siamo scoperti cammin facendo. E poi siamo un maschio e una femmina, non ci piacciono le stesse cose, ma sappiamo che ci piacciono molto le cose che sappiamo fare, non proviamo invidie di nessun genere e invece siamo generosi sia verso noi stessi che verso gli altri. Tutto questo, unito alla nostra intelligenza emotiva, è forse il segreto della robustezza del nostro connubio”.

È ora di tornare alla domanda iniziale: quanto costa rinunciare ai propri sogni? Tantissimo, ma Luisa non ha rimpianti, è una donna serena e appagata. Credo che adesso ne sia certa: ne valeva la pena.

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