In origine ci fu il Verbo. O meglio; in origine ci fu il Content. In origine ci fu il primo influencer che disse qualcosa di influenzante ad un pubblico misto-vario. Che poi lo seguì. Solo che a differenza di Adamo ed Eva o del Big Bang o di qualsiasi altra cosa si voglia credere, il primo influencer non ha un nome. E pensate bene, ancor prima di Chiara Ferragni, Paris Hilton o Clio Makeup. Ma non ci si ferma qui. Dopo un’orda di influenzatori, per citare l’Accademia della Crusca, più o meno quotati, ecco arrivare il sin-influencer. Ovvero la celebrità del peccato. SIN in inglese significa proprio peccato nel senso biblico del termine. E il gioco è facile. Parliamo di quelle figure che fanno tendenza e ispirano migliaia di follower verso azioni negative e peccaminose (per restare nella semantica della parola). E la cosa incredibile è che oltre agli account ufficiali – o presunti tali – di questi sin-influencer spopolano i fake che sfruttano la popolarità dei primi per andare a caccia di like. Ma non finisce qui. Oggi stiamo vivendo una nuova era: quella dei de-influencer. Ora, sempre perché l’etimologia ci piace, come si possa de-influenzare qualcuno è un fenomeno interessante. In realtà la tendenza è leggermente diversa e consiste, di fatto, nel farsi detrattori di un determinato prodotto o brand. Quindi non più “acquistate quel prodotto”, bensì un messaggio contrario “non acquistate quel prodotto perché”.
La tendenza è fortissima soprattutto sulle piattaforme digitali di condivisione di contenuti video. Ma il fenomeno è interessante, a livello di comunicazione stricto sensu, perché nasce proprio all’inizio del 2023 in un momento in cui la congiuntura economica, la sovra-esposizione di informazioni, l’appiattimento di messaggi valoriali di brand (oggi tutto è miracoloso, bellissimo, buonissimo allo stesso modo… dove sono finiti i valori di marca?), la necessità di avere migliaia di follower e like senza guardare alla qualità della propria community hanno fatto da cassa di risonanza. Che sia una tendenza di marketing? Che sia un influencing marketing portato all’estremo? Che sia, di fatto, ipocrisia allo stato puro: de-influencing è diventato il trend di influencing oggi? Che sia quel che sia non possiamo esimerci da fare una riflessione più ampia.
Vi starete chiedendo cosa c’entri tutto questo con la comunicazione d’impresa e industrial B2B. Ve lo spiego subito. Se caliamo il fenomeno in un contesto aziendale o d’impresa non troviamo la stessa dinamica all’interno del brand? Non possiamo trarre – con i dovuti paletti e le dovute misure – degli insegnamenti da questa tendenza per promuovere nuove strategie di comunicazione? Lo diciamo sempre: cogliere gli spunti che nascono nel nostro settore e saperli adattare e trasmettere all’interno del mondo Industrial B2B (con la cultura d’impresa a fare da timone per dettare la rotta) è la nostra sfida. Cui rispondiamo non solo con la competenza e la professionalità del team di Content Creator e Designer, ma anche con una dose di sperimentazione.
Facciamo un piccolo passo indietro: prima di de-influenzare qualcuno è necessario influenzarlo. Quello che, applicato al mondo della comunicazione, si definisce influencing marketing. E se nel B2C questa è la strategia di comunicazione che, ultimamente, viene sempre più spesso messa in atto, anche nel B2B trova un suo impiego. Certamente non nella sua modalità più pura: non pensate ad orde di influencer fotografati in data center o su un impianto di lavorazione di materiali. Impossibile che si possa riuscire a fare influencing marketing semplicemente abbinando influencer/prodotto in una foto o in una campagna advertising. La comunicazione orientata al business ha le sue regole e le sue strategie. Convincere un solo consumatore è (relativamente) semplice. Convincere un team di persone con background ed estrazioni differenti che contribuiscono ad una determinata decisione è tutta un’altra storia: il CEO, il Direttore Acquisti e il Direttore Marketing che devono selezionare un brand piuttosto che un altro baseranno la propria predisposizione e decisione su lunghe ricerche, comparazioni, confronti e – perché no? – passaparola.
Secondo una ricerca Reuters – in realtà non molto recente, ma sicuramente attuale – ben il 91% dei decision makers del mondo B2B sono influenzati dal passaparola nella scelta di acquisto. E il passaparola non è forse un avo non tecnologico dell’influencing marketing? Basti pensare al proprio percorso personale: quante scelte di acquisto abbiamo fatto perché spinti dal passaparola? E se intersechiamo questo meccanismo con il principio cardine della comunicazione contemporanea – l’approccio human to human – il gioco è fatto. E, sempre seguendo il ragionamento, se come sappiamo l’affinità con il brand aumenta del 60% la possibilità che lo stesso venga acquistato, è chiaro e strategico il ruolo che giocano il passaparola e, di conseguenza, la capacità di influenzare altri buyer.
Ecco quindi che un uso creativo del passaparola non è da sottovalutare. Ce lo insegna, ad esempio, una bellissima campagna di Salesforce; il CRM più conosciuto al mondo. Salesforce – colosso del B2B – ha creato un progetto ad hoc -Trailblazers– in cui trasforma in influencer del proprio marchio alcuni clienti/imprenditori particolarmente innovativi e in cui le persone si possono identificare per raccontare come, anche con il supporto del gestionale, siano riusciti ad intraprendere una strada imprenditoriale orientata al miglioramento per sé e per gli altri. In Italia, interessante è il coinvolgimento di Brunello Cucinelli, noto imprenditore del cashmere molto conosciuto e apprezzato per le sue idee e il suo modo di fare business. Nella campagna Trailblazers, Cucinelli si trasforma chiaramente da cliente ad influencer e con il suo modo autentico e unico di raccontare l’azienda, la cultura d’impesa e la sua esperienza influenza altri imprenditori a compiere la sua stessa scelta ad importare Salesforce nei processi aziendali. Semplicemente parlandone.
Finora abbiamo guardato il lato della medaglia che brilla: quando le cose vanno bene. Ma il passaparola del B2B può essere anche al contrario in una chiave negativa: “non scegliere quel partner perché io ho avuto moltissimi problemi”. E in un mondo, quello del B2B, in cui le relazioni, la fiducia e la community degli imprenditori sono relativamente chiuse, la forza di questo tipo di de-influencing è potenzialmente distruttiva.
Diverso se ci approcciamo al B2C in cui il fenomeno sta spopolando soprattutto sui Social Media. Diciamo subito che la tendenza a sparare a zero sugli influencer è ciclica; ogni tanto ritorna. Quello che fa la differenza, oggi, è il contesto economico e sociale che stiamo attraversando: gli influencer si sono moltiplicati come il prezzemolo e, con loro, anche i trucchetti per vendere un prodotto piuttosto che un altro. Ecco quindi sbarcare sui Social Media un’orda di micro-influencer – che in numero è davvero grande – che uniti dall’hashtag #deinfluencing non solo smaschera le marachelle dei cugini più noti, ma spinge proprio il pubblico a non acquistare quei prodotti favorendone altri; magari non di marca. Che sia una moda passeggera destinata a scomparire? Secondo noi è semplicemente una moda ciclica che cambia veste di volta in volta per ritornare, ciclicamente appunto, alla ribalta. E’ anche vero che, se ci pensiamo bene, oggi #deinfluencing è diventato un hashtag da influencer… che fosse questo l’obiettivo reale? Non ci compete in questa sede; ma il dubbio ci sorge.
De-influencer: siete sicuri che siano solo oltre i cancelli?
Ritornando al nostro mondo del B2B c’è un’altra riflessione da fare: siamo sicuri che il de-influencing sia solo un fenomeno al di fuori delle mura aziendali? Certamente il tema si colloca sulla linea sottile che divide la sociologia del lavoro e delle organizzazioni dalla comunicazione. Ma è di interesse perché ci porta a parlare dei brand ambassador ovvero gli ambasciatori del brand. Chi sono queste figure? Semplicemente persone che hanno sposato i valori di marca e contribuiscono a veicolarli. E qualsiasi brand, indipendentemente dal modello di business, ha nella sua community aziendale i primi brand ambassador da convincere e coinvolgere. Collaboratori positivamente attivi sulla cultura d’impresa aziendale sono influencer in grado di supportare e sostenere la marca in modo importante. Ma è anche vero il contrario: se la community aziendale non è allineata ai valori che l’azienda vuole trasmettere… beh; il gioco si fa davvero difficile. Pensate a una figura commerciale che non crede in un prodotto e che deve convincere un altro buyer ad acquistarlo… non è forse un de-influencer? O pensate, ancora, a un collaboratore che parla male del proprio brand all’esterno dell’azienda; non è quest’ultimo un de-influencer? E le conseguenze di queste azioni possono essere estremamente negative. Perché ricordiamocelo sempre, scolpito nella pietra: quando si parla di B2B è molto più facile de-influenzare un business che influenzarlo. E’ molto più facile far passare un percepito negativo, che di eccellenza. Difficilmente il primo approccio del business è quello di guardare al che cosa funziona: il manager è sempre alla ricerca del punto di rottura. E, se a questa tendenza si aggiunge un passaparola negativo… la montagna da scalare diventa un Everest!
Concludendo possiamo dire che, come in ogni tendenza di comunicazione, il confine non è mai netto e che tutto si può leggere e interpretare indipendentemente dal fatto che il brand sia orientato al consumatore o ad un altro business. E contestualmente, come diciamo sempre, è importante ricordare di sperimentare: perché è solo da strategie a volte innovative, a volte creative, ma sempre nuove che si può supportare il proprio racconto di marca verso vette sempre più alte.
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