Utilizzare i dati come strumento di analisi per incrementare il proprio ROI (Return on Investment; ovvero rendimento aziendale su quanto investito) non è, di certo, un’idea nuova. Anzi. Al contrario. Direi che è proprio l’idea che ha dato vita ai vari sistemi ERP (Enterprise Resource Planning), CRM (Customer Relationship Management) e quant’altro.
Perché, allora, ne parliamo? Semplicemente perché da qualche anno è cambiata, radicalmente, la prospettiva di visione del dato: oggi non si raccolgono più dati sulle aziende stricto sensu, ma sulle persone che ruotano attorno alle aziende stesse o animano un brand. Ed ecco quindi che il passaggio da fatturato a buyer persona è fatto: oggi è fondamentale, per un brand, conoscere e tracciare il proprio utente per capirne preferenze, aspettative, desideri, gusti… ed essere, così, più tempestivo rispetto ai competitor nel fornire risposte adeguate.
Sfatiamo subito un mito: raccogliere dati non significa fare data-driven marketing. Né altro. Significa fare una raccolta – più o meno dettagliata – di informazioni. Queste poi vanno organizzate, analizzate, gestite e incanalate in un processo di comunicazione che sia quanto più efficace possibile. Il data-driven marketing è proprio questo: una metodologia che parte dall’analisti delle digital footprint lasciate dagli utenti per capirne meglio i comportamenti e generare strategie di marketing e di comunicazione mirate. Da una recente ricerca commissionata da Google emerge che:
“solo il 2% dei brand analizzati adotta strategie di data-driven marketing avanzate, ottenendo risultati estremamente vantaggiosi: un incremento dei ricavi del 20% e un risparmio sui costi del 30%”.
Questo perché attraverso l’utilizzo dei dati, le imprese hanno la possibilità di:
Prendiamo spunto dal padre di questa affermazione, Ludwig Mies van der Rohe, per ricordare che va bene raccogliere dati, ma meglio focalizzarsi su quelli che si potranno effettivamente utilizzare o che sono più significativi per il nostro brand.
Cominciamo con una distinzione di base: hard data e soft data.
I primi includono tutti i dati che tendono ad essere immutati nel tempo: dati personali, mail, numero di telefono. I secondi includono quei dati che vengono ottenuti tramite indagini qualitative oppure quei dati che tendono a variare e a non rimanere gli stessi nel tempo. Ad esempio; indirizzo IP, feedback e valutazioni, form compilati…
Non che gli uni siano migliori degli altri. Semplicemente sono in grado di offrire uno spaccato diverso. E’ chiaro che da un mix tool ne deriva una visione più completa. Ma se non è possibile, conviene focalizzarsi su quelli di maggior interesse per il proprio brand.
Come abbiamo detto, i dati permettono di prendere decisioni in modo più efficace e in tempi più rapidi. Ma non solo:
Ovviamente ogni pro ha anche un suo contro… molti addetti ai lavori considerano questo approccio complicato da attivare. Ed effettivamente ci sono alcuni punti che vanno affrontati con attenzione. Alcuni li abbiamo già visti e riguardano, fondamentalmente, i dati: raccogliere dati utilizzabili (i dati che si possiedono sono ben diversi da quelli che servono che, a loro volta, sono ben diversi da quelli cui si può accedere e che sono realmente usabili), organizzarli, gestirli, interpretarli (il team di lavoro deve essere eterogeneo e ben strutturato) sono gli aspetti più strategici e nel contempo complessi per la comunicazione contemporanea.
In conclusione possiamo dire che sicuramente c’è ancora molta strada da fare e, per di più, in salita. Ma dopo ogni salita c’è una discesa… per cui all’impegno iniziale corrisponde, poi, un più veloce ed efficace raggiungimento di obiettivi di comunicazione.
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