L’arte di consolidare

Workout Magazine - Studio Chiesa communication

L’arte di consolidare

Heritage al femminile: Workout magazine incontra Sonja Blanc di Sireg S.p.A.

A sfogliare le pagine del sito dedicate alle referenze ti coglie una sorta di «vertigine della lista»: una cinquantina di metropolitane in ordine sparso tra Milano e Quito toccando (tra le tante città) Parigi, Varsavia, Tel Aviv, Doha e Il Cairo, decine di gallerie autostradali, tunnel (sì, anche quello della Manica) e ponti (compreso il nuovo viadotto di Genova progettato di Renzo Piano), linee tramviarie, porti, edifici storici dalla cattedrale di Assisi squassata dal terremoto del 1997 alla Torre di Pisa, dal padiglione del Louvre dedicato all’arte islamica al Giant Swing di Bangkok. Ma anche un tratto di scogliera pugliese e un relitto famoso, quello della Costa Concordia, schiantatasi nel 2012 sulle coste dell’Isola del Giglio (questo ve lo spiegherò alla fine).
Il comune denominatore? L’intervento di Sireg, gioiellino brianzolo da 80 dipendenti e tonnellate di innovazione, specializzato nella geotecnica e nell’ingegneria civile e saldamente insediato ad Arcore dall’anno della sua fondazione, il 1936.

Il cantiere del Louvre, nel quale i lavori di rinforzo del terreno si sono avvalsi delle tecnologie Sireg.

«Mio nonno Emilio – racconta Sonja Blanc, CEO dell’azienda e terza generazione al suo timone – ancora prima della Seconda guerra mondiale aveva iniziato proprio qui un’attività di rigenerazione della gomma di pneumatici dismessi per poi passare, con l’avvento della plastica, alla realizzazione dei fogli separatori in PVC per batterie stazionarie e a trazione, diventandone presto il principale produttore in Europa. Non solo, nell’immediato Dopoguerra aveva brevettato un isolante termoacustico e ignifugo, l’Athermophon, utilizzato per rivestire grandi navi come l’Andrea Doria e gli apparecchi della flotta aerea Macchi».

Lo stabilimento di rigenerazione della gomma dei copertoni avviato da Emilio Blanc negli anni Trenta.

Il passaggio alla terza «fase» dell’azienda, quella che la caratterizza ancora oggi e che è incentrata su un’ampia gamma di soluzioni per consolidare il terreno nei grandi scavi sotterranei e per rinforzare edifici antichi e non, avviene negli anni Settanta in concomitanza con la scomparsa di Emilio Blanc e l’entrata nell’impresa in modo più deciso da parte dei genitori di Sonja, Edoardo e Amelia, coppia e genitori di ferro. Avete presente gli imprenditori che lasciano decidere autonomamente i figli su cosa fare della loro vita e dell’azienda di famiglia? Beh, qui la musica è stata diversa perché la scelta non era un’opzione contemplata: fin dall’infanzia Sonja si è sentita destinata alla Sireg. «Quando ero alle elementari – ricorda – come astuccio per le matite mio papà mi aveva dato un pezzo di tubo con due tappi alle estremità insistendo sul fatto che fosse molto carino e che avrebbe potuto realizzarlo anche per le mie amiche. Figuriamoci, quella era l’epoca di Hello Kitty, tutte avevano il suo astuccio, bellissimo, rosa come una gigantesca caramella e io invece con un pezzo di tubo…».

Da sinistra, Amelia, Giuseppina (moglie di Emilio Blanc) ed Edoardo Blanc.

Sonja cresce così, con la Sireg ad attenderla appena finiti gli studi. Non senza crucci: «Ero combattuta, perché da un lato mi sembrava il percorso naturale da seguire, dall’altra però mi dispiaceva non avere nemmeno la possibilità di scegliere un’altra strada». Terminato il liceo, le piacerebbe andare in Bocconi, ma nemmeno su quello i genitori cedono perché durerebbe cinque anni, troppi per i loro piani: «Mi sono iscritta a Scienze politiche con indirizzo economico ed è andata bene lo stesso anche perché tante materie le ho seguite sugli stessi testi che si usavano in Bocconi». Si capisce però che ai tempi deve essere stato un dispiacere, traspare in filigrana da un’affermazione buttata lì: «Avrei avuto un titolo di studi diverso». L’aiuta il suo carattere resiliente che le fa vivere quella che era un’imposizione famigliare come una sfida: «Ero consapevole di avere due genitori molto capaci che erano riusciti, anche con inevitabili momenti di difficoltà, a far crescere in modo importante l’azienda. Allora mi sono detta che non mi sarei limitata a seguire le loro orme, ma che avrei lasciato la mia di impronta, che avrei portato in Sireg una ventata di novità».

Intanto però il primo ruolo è in amministrazione, affiancando la mamma. Già, perché Emilio Blanc, come tanti imprenditori di vecchio stampo, non pensa che una donna possa gestire un’azienda, a maggior ragione se questa opera in un campo così tecnico e «maschile» come la sua: «Pur stimandomi molto, questo dubbio l’ha avuto fino alla fine: negli ultimi giorni di vita aveva confidato a mia sorella che temeva che io non ce la facessi». Perciò aveva fatto entrare in società una figura tecnica che avrebbe dovuto, in una prospettiva a lungo termine, occuparsi di tutti quegli aspetti che riteneva non rientrassero nelle capacità della figlia. La scelta non si rivelerà azzeccata e nel 2009 il socio esce da Sireg. E Sonja capisce che è arrivato il suo momento: adesso o mai più. «Ho fatto una fatica pazzesca perché ho dovuto innanzitutto colmare un gap formativo – racconta – e poi ovviamente ho dovuto combattere contro tutti i pregiudizi che mi vedevano donna e “figlia di”, quindi, in parole povere, una che non capiva niente e che era lì per privilegio “dinastico”. Andavo alle riunioni e non c’era una persona che mi guardasse in faccia, si rivolgevano solo agli uomini che erano con me. Più di una volta ho dovuto puntare i piedi e ricordare che ero la titolare dell’azienda per guadagnarmi il diritto di dire la mia. Tuttalpiù arrivavano a chiedermi se fossi ingegnere e al mio diniego il loro interesse era già scemato».

Il complesso dello stabilimento Sireg in una foto aerea.

Pregiudizi che secondo Sonja esistono ancora: «Lo misuro su mio figlio che ha voluto entrare in azienda dopo un’esperienza triennale in un’altra realtà. Si è inserito nel commerciale e ha a che fare con grossi clienti: bene, nonostante sia molto giovane, nonostante sia, diciamo, l’ultimo arrivato, dopo pochi minuti riesce invariabilmente a instaurare un dialogo proficuo con loro. E questo perché è un uomo, gli interlocutori partono dal presupposto che si capiranno a prescindere, si sentono sulla stessa lunghezza d’onda».
Ma una sana rabbia no? Forse, ma lei è convinta che alla fine le competenze, la professionalità paghino. Con l’aiuto delle tante associazioni – come GammaDonna che le ha assegnato nel 2019 il Premio per l’innovazione – che oggi supportano le imprenditrici nel fare rete tra loro, le incitano a confrontarsi sulle difficoltà in cui si imbattono nel lavoro proprio perché donne e forniscono strumenti pratici per incentivare le giovani a fare impresa. In questi anni Sonja si è ricreduta su certe sue prese di posizione passate, anche un po’ polemiche, che prendevano di mira per esempio le «quote rosa»: «Tempo fa ero, se non proprio contraria, comunque scettica sul fatto che si dovesse far entrare in un cda una persona solo per via del suo sesso, ho sempre preso in considerazione solo la capacità individuale, indipendentemente dal fatto che a possederla fosse una donna o un uomo. Ma ho poi cambiato opinione perché ho toccato con mano quanto sia difficile modificare la mentalità dominante, quanti ostacoli debba, tanto per citare un esempio, superare un’imprenditrice per ottenere finanziamenti dalle banche, quanto comunque siamo ancora penalizzate in confronto agli uomini».

La consegna del premio Gammadonna 2019 a Sonja Blanc.

Lei che proprio con le giovani imprenditrici parla spesso, alla domanda di quale consiglio le piace dare, non esita un secondo: «Ci vuole determinazione, passione, resilienza e tanta forza, essere capaci di cadere e di rialzarsi. Sacrificio? Sì, ma fino a un certo punto, bisogna ricordarsi che esiste anche una vita privata che non va trascurata, innanzitutto se ci sono figli». È fiera di aver cresciuto due ragazzi praticamente da sola perché separata, destreggiandosi, come tante donne, tra il lavoro, la casa, la famiglia e confessa che la sua più grande paura era quella di crescere due persone problematiche proprio perché non era sempre presente. Ancora maggiore perciò la sua soddisfazione oggi che li vede realizzati e sereni: «Sono la dimostrazione che ce la si può fare».

La sua visione di leadership al femminile è peculiare perché quasi «organica», parte dall’idea «che noi donne siamo per nostra natura portate a pensare ad altro rispetto a noi, alla fine siamo madri dentro ed è per questo motivo che siamo più attente e sensibili a tutti i dettagli, più inclusive verso le persone, abbiamo quello che definirei un approccio “olistico” alla gestione dell’azienda». Ciò non toglie che ci sorga un pizzico di perplessità quando sul sito aziendale si vedono scorrere solo facce maschili: «È il mio staff tecnico-commerciale, sono profili che hanno nel loro CV studi da geologo o ingegnere o almeno da geometra o tecnico di laboratorio e donne che abbiano seguito questo iter formativo non ce ne sono molte. È più facile trovare candidature per l’amministrazione o la gestione delle risorse umane». Ma accoglie lo spunto con un sorriso: «Sì, forse dovrei dare nel sito più spazio alle donne presenti in azienda, l’anno scorso abbiamo illustrato il nostro calendario con le loro foto, ma non basta».

Foto di gruppo Sireg «al femminile».

Il proposito di Sonja di uscire dal solco tracciato dai genitori per plasmare l’azienda più a sua immagine e somiglianza si è nel tempo realizzato pienamente e dal 2013, anno in cui lei è rimasta sola alla barra di comando, Sireg ha conosciuto una rapida evoluzione che l’ha portata a essere uno dei principali referenti nel mondo delle infrastrutture e delle costruzioni civili, in Italia e nel mondo, conservando al contempo l’attività sui componenti delle batterie già iniziata dal nonno e quella sul trattamento delle acque che aveva mosso i suoi primi passi ancora al tempo dei genitori. «La Sireg di oggi è divisa in tre società che in passato erano le tre business unit dell’impresa. La più importante è senz’altro Sireg geotech che su 16 milioni di fatturato complessivi, ne porta 11». È la società che si occupa del consolidamento del terreno e degli edifici con interventi per i quali si avvale di prodotti straordinari, nati dalla ricerca interna all’azienda in collaborazione con alcune università di caratura internazionale come la Bicocca e il Politecnico di Milano, il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Miami, l’Università Politecnica della Catalogna, la KU di Leuven in Belgio, l’Università di Lisbona: «La nostra produzione in materiali compositi le incuriosisce anche perché al mondo saremo non più di una decina di aziende a realizzarli. Ci cercano, ci propongono delle attività di ricerca congiunte che a noi fanno molto comodo per migliorarci e quindi crescere».

Cominciamo dal Glasspree®: fibra di vetro impregnata di una resina termoindurente con la quale si producono barre (o anche reti) che possono sostituire l’acciaio nel cemento armato con una serie di vantaggi che il metallo non offre, per esempio la resistenza alla corrosione chimica (il caso più banale è all’acqua di mare), la non conduttività elettromagnetica e la durata fino a 100 anni, il doppio rispetto al classico tondino. È un prodotto che, proprio in virtù delle sue proprietà, potrà essere utilizzato sempre più largamente per costruire infrastrutture come ponti: la prima esperienza in tal senso (unica al momento in tutta Europa) ha avuto come palcoscenico Gonnesa, in provincia di Cagliari. Qui, nel 2020, il ponte che collegava la strada provinciale con la spiaggia di Fontanamare, era crollato sotto il peso di un camion. La ricostruzione si è avvalsa anche di un’armatura in Glasspree®, che è stata particolarmente apprezzata per la sua leggerezza – un quarto dell’acciaio – che ne ha facilitato la movimentazione in cantiere. «Le nostre barre hanno un altro vantaggio: non si scaldano al sole mentre, se fossero state in metallo, sarebbero diventate roventi nella piena estate sarda. Così le si è potute spostare senza particolari accorgimenti». Il tutto ha velocizzato il ripristino del ponte aprendo la strada anche a un nuovo modo di concepire l’edilizia che, come Sonja ribadisce nelle sue interviste, è figlia ancora di tecniche che risalgono al primo Dopoguerra.

Il cantiere del ponte Gonnesa: in primo piano le barre in Glasspree® utilizzate per la ricostruzione.

Su queste barre l’area R&D di Sireg si è spinta ulteriormente avanti, sviluppandone una nuova versione (che impiega una resina speciale brevettata da Arkema), piegabile in post-produzione grazie a una macchina realizzata in partnership con un’azienda tedesca: «Siamo gli unici al mondo ad avere questo prodotto nel proprio catalogo – sottolinea orgogliosamente Sonja – ma vogliamo migliorarlo ancora rendendone la produzione più veloce e meno costosa perché alla fine si tratta di una commodity. E poi bisognerà affrontare il tema delle normative: in Francia è già possibile usarlo, in Italia no e quindi stiamo cercando progetti pilota che dimostrino le sue eccellenti performance. Il Politecnico di Milano lo ha già testato verificando la validità delle sue prestazioni e abbiamo ottenuto per l’Università Politecnica della Catalogna un finanziamento per i test in Spagna. Mi aspetto perciò che a poco a poco la macchina delle approvazioni avanzi sulla sua strada».

Un altro brevetto, che è rivoluzionario per la realizzazione dei tunnel, è il Durglass®. Con queste barre in fibra di vetro che hanno la caratteristica di poter essere tagliate facilmente, viene armata l’area frontale di scavo dove passa la TBM, la cosiddetta «talpa». Una volta questo diaframma era costituito da strutture in calcestruzzo armato in ferro che però non potevano essere attraversate dalla TBM e venivano perciò distrutte a mano con un’operazione che richiedeva parecchio tempo e che presentava parecchi inconvenienti tecnici. Una gabbia in Durglass® consente invece un notevole risparmio in tempi e costi.
E per restare in tema di soluzioni innovative, va ricordato il tubo BioSystem che serve a iniettare nel sottosuolo sostanze utili a consolidarlo e che può essere lasciato in loco perché si trasforma in sostanze zuccherine dopo circa una decina di anni: un modo totalmente ecologico per intervenire in ambienti naturali ad alta sensibilità come aree protette e parchi.
Per quanto invece concerne il consolidamento degli edifici, che sono in genere storici e richiedono interventi poco invasivi ma durevoli, ormai da più di vent’anni Sireg fornisce laminati e barre in fibra di carbonio, vetro e aramidica, che vengono incollati o cementati a seconda dei casi , mentre per le fondazioni, quando il terreno sia sabbioso o magari molto umido, si utilizzano miscele chimico-cementizie che lo trasformano in un materiale duro come roccia e che vengono iniettate attraverso speciali tubi in plastica dotati di valvole che evitano il riflusso della miscela all’interno del tubo e che possono quindi essere riutilizzati a più riprese se necessario.

Attraversamento della zona di scavo di un tunnel da parte della TBM.

Dicevamo che Sireg Geotech è la punta di diamante della triade societaria che costituisce oggi l’azienda. La seconda realtà è Sireg Hydros, che opera nel settore del trattamento acqua: «Hanno cominciato i miei genitori nel 1988 realizzando dei piccoli depuratori a uso domestico. Ci credevano: avevano investito molto in pubblicità, anche istituito un numero verde, ma era un business a loro sconosciuto pur essendo una fantastica intuizione e proprio per il loro approccio un po’ ingenuo non ha avuto un ritorno economico proporzionato agli sforzi, anche economici, fatti». Tuttavia Sonja, al suo ingresso in azienda, decide di non dismetterlo, anzi, di alzare il tiro: «Per gestire gli utenti privati devi avere una rete di distribuzione pazzesca e un’assistenza post vendita molto efficiente e comunque, una volta venduto il depuratore il cliente in genere ti abbandona. Realizzare invece impianti di tipo industriale non comporta la gestione di una complessa rete di distribuzione e assistenza come nel caso del “domestico” btoc; inoltre se ne può gestire direttamente la vendita e il monitoraggio continuo. È a quel tipo di clientela che abbiamo deciso di rivolgerci, navi da crociera per esempio o villaggi turistici o ancora quelle grandi realtà che utilizzano acqua nel loro processo produttivo e devono poi «ripulirla» completamente prima di reimmetterla nell’ambiente o riutilizzarla. È il caso della più grande miniera di rame in Europa, situata in Romania, di cui stiamo acquisendo la commessa per un gigantesco depuratore: devo dire che le restrizioni sempre più stringenti sul fronte ambientale ci aiutano parecchio». Senza contare che questo ramo di attività contribuisce a restituire di Sireg un’immagine virtuosa, di azienda dove la sostenibilità è «di casa» si potrebbe dire e alla quale Sonja tiene particolarmente perché fa parte della sua traiettoria lavorativa: «Già le nostre barre in vetroresina così durevoli nel tempo aiuteranno a spezzare il circolo vizioso demolizione-ricostruzione che davvero è poco congruente con temi oggi caldi come il risparmio delle risorse. E su quest’ultimo fronte, in particolar modo sul consumo energetico, abbiamo risposto installando un impianto fotovoltaico totalmente a nostre spese perché nel momento in cui l’abbiamo deciso, ancora non era previsto alcun incentivo statale: a brevissimo copriremo il 35% del nostro consumo». La postilla è velenosa q.b.: «In realtà potrebbe già essere così, ma purtroppo, per via della burocrazia, l’allacciamento alla rete resta ancora una strada da percorrere fino in fondo. In prospettiva però per le nostre attività utilizzeremo sempre più energia green».

Impianto di dissalazione Sireg installato in un resort.

La terza anima di Sireg è la Polyvinyl, produttore dei componenti in PVC per batterie di cui abbiamo già parlato: «Quando sono entrata in azienda, mia madre l’aveva definita un’attività morente. In realtà è durata fino a oggi, anzi, incrociando le dita, in questo momento ci è arrivata una richiesta da parte di un grosso produttore statunitense di batterie, stiamo facendo una prova che spero proprio abbia un esito positivo perché farebbe resuscitare quel settore. E comunque finché funziona io vado avanti».

Sonja è così, cocciuta, entusiasta, anzi «gasata» come si definisce, con una carica di energia che sa trasmettere agli altri. Anticonformista e «apripista» anche quando si tratta dei competitor: «A me piacerebbe, e anche molto, che ci fosse un’autentica collaborazione tra noi, non per fare “cartello” ma perché penso che sia stupido investire tutti parallelamente per trovare le stesse soluzioni. A mio parere sarebbe invece meglio ripartire i piani di ricerca e di sviluppo tra i player proprio per il bene del mercato». Ma aggiunge anche che in Italia è impresa difficile per non dire impossibile: «C’è una mentalità ristretta, che andrebbe però cambiata perché sono proprio le politiche “piccoline”, protezionistiche del proprio orto a frenare lo sviluppo», mentre le capita più di frequente di confrontarsi e cooperare con concorrenti stranieri, anche importanti. E ribadisce che la tendenza a monetizzare sull’immediato e a guardare solo al proprio interesse è un atteggiamento che non le appartiene: «Sireg non è una Onlus e quindi è ovvio che anche noi vogliamo e abbiamo bisogno di guadagnare. Ma c’è modo e modo. Addirittura, dato che a volte i prodotti vengono pagati a peso, c’è chi cerca di vendere solo quelli più pesanti anche se sono meno performanti o magari non necessari e questo mi dà fastidio anche in quanto cittadina italiana ed europea perché è uno spreco di soldi pubblici, le opere alla fine costano inutilmente di più. A me piace invece realizzare qualcosa che abbia un ritorno positivo per la collettività, un prodotto che velocizzi le costruzioni o che sia più sicuro o più sostenibile. Ci credo davvero anche se a volte mi sento tanto un Don Chisciotte in lotta con i mulini a vento».

L’impianto fotovoltaico di Sireg che a breve coprirà il 35% del fabbisogno energetico dell’azienda.

Ma anche i committenti non sono esenti da colpe. A partire dal preferire sempre le realtà più economiche con il risultato non infrequente di dover tornare in un secondo tempo sui propri passi: «Così magari vengono da noi chiedendoci però di adottare la stessa politica di prezzi dell’altra impresa. In questo caso trovano un no deciso, soprattutto ora in cui il lavoro è tanto. Ma purtroppo ci sono stati anche periodi meno floridi in cui ho dovuto abbassare la testa e cedere». Un’altra critica di Sonja è la difficoltà di discutere i dettagli del lavoro con il cliente: «Mio padre mi raccontava di quanti prodotti sono nati dall’interazione con l’ufficio tecnico dei clienti. Oggi non è più così. Chi decide tutto sono il progettista e il committente pubblico ma magari dieci anni prima che venga realizzata l’opera. E poi non si può più cambiare nulla perché nessuno se ne assume la responsabilità.  A me è capitato di dover rimettere in produzione prodotti che avevo dismesso vent’anni fa e non c’è stato nulla da fare perché l’alternativa sarebbe stata quella di lasciare la commessa a un competitor. Però mi ha fatto rabbia perché erano soluzioni vecchie, superate».
Senza contare che anche la burocrazia, tanta, densa di regole «tutte da interpretare» ci mette lo zampino. Sonja conosce bene i mercati francese e svizzero, suoi clienti da sempre, e sostiene che la situazione in quei Paesi è migliore, c’è apertura mentale, c’è più velocità.

Come accade in certi film, siamo ai titoli di coda ma c’è ancora qualcosa da raccontare: il ruolo di Sireg in una delle imprese ingegneristiche più sfidanti dell’ultimo decennio, il recupero del relitto della Costa Concordia. Come è noto, dopo il naufragio la nave si era adagiata su un fianco sicché per poterla trainare fino al porto di Genova dove sarebbe stata smantellata era necessario raddrizzarla e farla nuovamente galleggiare. Operazione tutt’altro che facile che ha comportato varie fasi: Sireg ha fornito i suoi tubi valvolati ad alta pressione per iniettare delle resine poliuretaniche all’interno di sacche di galleggiamento. E se vi sembra poco considerate il contesto dell’operazione: un team di 500 persone di 26 nazionalità diverse, 30 mesi di attività su una nave grande il doppio del Titanic, un costo di circa 1,2 miliardi di dollari. Un onore essere stati scelti.

Workout Magazine – Studio Chiesa communication

Post correlati

Heritage

Se il packaging è virtuoso

Heritage al femminile: Workout magazine incontra Paola Cerri di Sacchital Group

Forse, anzi probabilmente, non lo sapete, ma ogni volta che scartate una caramella o aprite il flacone di un detergente rendete implicitamente omaggio al genio di un tipico self-made man americano del XIX secolo: Benjamin Babbit.

leggi tutto →
Heritage

La plastica etica

Heritage al femminile: Workout magazine incontra Michela Conterno di LATI S.p.A.

Lo so, più di uno di voi avrà alzato il sopracciglio su questo titolo perché la plastica è, non a torto, la grande imputata del nostro secolo.

leggi tutto →
Heritage

Il «Cuor Business»: la sostenibilità secondo Carolina

Heritage al femminile: Workout magazine incontra Carolina de Miranda di ORI Martin S.p.A.

Facile che il nome xkcd non vi dica nulla. Non è un acronimo né un simbolo chimico e nemmeno l’appellativo di qualche remoto corpo celeste: è invece il titolo di un webcomic creato da un tipo simpaticamente bizzarro, Randall Munroe, che si presenta così nel suo sito (ammetterete che sia abbastanza inquietante): «Mi sono laureato in fisica alla CNU (Christopher Newport University n.d.r.).

leggi tutto →

Hai già letto la nostra newsletter?

Ogni mese proponiamo contenuti sempre aggiornati su branding, digital marketing, sostenibilità e cultura di impresa. Workout Magazine è molto più di una newsletter: è uno strumento per allenare la mente, arricchire il pensiero e dare forma a nuovi talenti.

"*" indica i campi obbligatori

Nome