Niente succede per caso

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Niente succede per caso

È l’aforisma preferito di Serena Agostini, CEO di VIRMA, azienda brianzola specializzata in minuterie metalliche, con clienti del calibro di Siemens, Schneider, ABB, Legrand e altri di primissima grandezza. Che poi, con una parafrasi nemmeno tanto ardita, si potrebbe riscrivere così: «Non chiederti perché le cose non avvengono, chiediti come farle avvenire». La risposta di Serena, in cui si condensa la sua filosofia lavorativa, è quella innanzitutto di credere in ciò che si fa e che si vuole fare, credere che il rispetto delle persone che lavorano con te sia la chiave di volta per ottenere i migliori risultati e credere che la propria via maestra non debba essere «fare finanza, ma fare industria» come viene orgogliosamente dichiarato nel sito aziendale. E poi rimboccarsi le maniche: «abbiamo sempre raccolto tutte le sfide, i treni non devi farteli passare davanti agli occhi» dice, aggiungendo subito dopo, con la concretezza che la caratterizza: «Però devi prendere quelli che vanno alla tua velocità e che ti portano dove tu vuoi andare». Così per esempio, sui temi della sostenibilità, della transizione ecologica e delle certificazioni «abbiamo raggiunto tutto quello che la grande industria ci chiede, ma con i nostri tempi e con iniziative alla nostra portata».

Una chiarezza di visione che va a braccetto con una decisionalità che non ammette tentennamenti: «Ormai sono trent’anni che faccio questo mestiere e so che devi saper decidere. Lo dico sempre anche ai miei figli: meglio una decisione diciamo sbagliata, o meglio, imperfetta, che una decisione non presa. Perché nel primo caso puoi gestirla “in corsa”, la puoi ottimizzare, nel secondo caso hai perso un’opportunità. È un aspetto di noi che mi piace far vedere anche ai clienti: non siamo il tipo di fornitore che traccheggia, che fa mielina. Se nel corso di una negoziazione a un interlocutore posso dire di sì, lo faccio subito, se invece dico no, è un no deciso. Una modalità che, tra l’altro, rassicura sulla nostra capacità di portare a termine un incarico». Poi si apre un sorriso: «Senza contare che a volte qualcuno bluffa e quindi, magari, dopo che hai rifiutato, il lavoro ti arriva lo stesso alle tue condizioni».

La sede di Virma a Sulbiate.

Stile di famiglia: anche suo padre Eraldo era così. È lui che nel 1972 fonda l’azienda battezzandola con un nome, VIRMA, che racchiude storia passata e «programma» futuro: VIRole (la virola è l’elemento maschio di una giunzione, di un collegamento meccanico, un prodotto che sarebbe stato negli anni a venire «di punta» per loro) e MAprod (l’impresa dalle cui ceneri la nuova azienda era appena sorta). Proprio in Maprod Eraldo era stato assunto come responsabile della contabilità avendo il diploma di ragioniere. Un risultato raggiunto con enormi sacrifici visto che i genitori non sono certo ricchi, hanno un’osteria di paese a Oreno, una frazione di Vimercate, dove Eraldo fin da piccolissimo deve dare una mano, insieme al fratello, perché c’è solo la madre a mandare avanti famiglia e attività. Il marito, infatti, a soli quarant’anni è diventato completamente sordo, una condizione che ai tempi significava disabilità assoluta.
Forse oggi Virma non esisterebbe se non fosse che la maestra delle elementari di Eraldo un giorno ne manda a chiamare la madre: il bambino è dotato, sarebbe un peccato non farlo continuare a studiare. Così gli si schiudono le porte della scuola media di Vimercate, a cui seguirà l’Istituto Tecnico Commerciale «Mosè Bianchi» di Monza. Poi, nei desideri del ragazzo, ci sarebbe l’Università, Economia e Commercio, ma la necessità di cominciare a contribuire all’economia famigliare si interseca con l’offerta di assunzione da parte di un imprenditore milanese che aveva preso in simpatia gli Agostini quando questi erano sfollati durante la guerra insieme alla sua, di famiglia, e i sogni vengono riposti in un cassetto. L’azienda è la Maprod che al giovanissimo Eraldo – appena diciottenne –, oltre che un’occupazione, dà anche l’orgoglio di poter consentire ai suoi una vita migliore: chiude l’osteria, e con il suo stipendio da ragiunatt accende un mutuo per comprar loro una casa, già un chiaro segnale di quella risolutezza che poi passerà alla figlia, oltre che di quell’attenzione per gli altri che sarà la cifra distintiva di un’intera esistenza. «La sua maggiore soddisfazione era rendere la vita più facile al prossimo – ricorda Serena – ha dato tantissimo a tanti e mai l’ha fatto presente, mai se ne è vantato, nemmeno una volta. Anche con me era di una generosità assoluta».

Eraldo Agostini da bambino accanto alla madre.
Eraldo Agostini in fabbrica.

Ma stiamo correndo troppo. Torniamo dunque al momento in cui Eraldo lavora in Maprod. Negli anni Cinquanta l’azienda attraversa un momento difficile sicché il proprietario lo spinge a rifondarla a suo nome e in un secondo tempo gli offre la possibilità di acquistarne una quota «a rate», per così dire, prelevando ogni mese dal suo stipendio una certa somma: Eraldo così, a poco a poco, riuscirà a raggiungere il 40%. Decisione felice: sotto la sua guida l’impresa si riprende, si ingrandisce gradualmente. Alla scomparsa del suo ex datore di lavoro, il quadro societario vedrà entrare un nipote di quest’ultimo, ma già pochi anni dopo la nascita di VIRMA Eraldo avrà aggiunto una decina di punti percentuali alla sua quota arrivando al 50%. La svolta decisiva avviene nel 2007 quando il socio manifesta l’intenzione di voler uscire dall’azienda: per liquidarlo bisogna indebitarsi e non di poco. È un momento di grandissima preoccupazione: «Io già lavoravo in VIRMA – ricorda Serena – sono andata da mio padre, ci siamo guardati negli occhi e la decisione è stata presa. Di recente sono stata a casa dei miei genitori e, come mi capita spesso, sono andata nella loro camera da letto dove sono stati raccolti tutti i ricordi di mio papà. Mentre li riguardavo mi è capitato sotto mano un suo appunto, risalente proprio a quel periodo, in cui lui scrive che questa decisione è inevitabile, ma che è sicuro che “la Serena, Luca (che è mio cugino) e Roberto (mio cognato) saranno in grado di portare avanti l’azienda”. Mi sono commossa perché è l’ennesima testimonianza di quella fiducia e di quella stima che mio padre ha avuto nei miei confronti fin dal primo giorno in cui ho messo piede nell’impresa. La sensazione di sentirti, e di essere ritenuta, in grado di prendere il testimone è una sensazione impagabile, bellissima».

Serena con il cugino Luca Ferrario, Direttore Tecnico di Virma (all’estrema sinistra della foto) e il cognato Roberto Portinari, che dell’azienda è Supply Chain Manager.

Gli anni che seguono sono «ad alta intensità»: la società da Srl diventa SpA, il capitale sociale viene raddoppiato, viene comprata la sede di Sulbiate – in precedenza lo stabilimento era a Ronco Briantino e prima ancora, all’atto della fondazione, a Bresso nell’hinterland milanese – e nel 2011 viene aperto uno stabilimento in Bulgaria. Quest’ultimo capitolo della storia di VIRMA merita un approfondimento perché le delocalizzazioni sono state una piaga per il mondo del lavoro del nostro Paese. Ma anche in questo caso la sicurezza di Serena di aver fatto una scelta proficua dal punto di vista del business, ma nel contempo eticamente corretta, è granitica e i fatti le danno ragione: «Le aziende piccole come la nostra disegnano le loro strategie su sollecitazione della clientela. Devo dire che per qualche anno abbiamo cercato di resistere a questa indicazione – o forse potrei dire prescrizione – proveniente dai nostri clienti. Il fatto è che loro avevano già spostato nell’est europeo i propri hub produttivi, essenzialmente per sfruttare il vantaggio competitivo del basso costo della manodopera ottenendo al contempo dai governi locali condizioni favorevoli in cambio della crescita di un indotto. Noi invece avevamo paura, paura di andare non solo a 1500 chilometri di distanza, ma anche di trovarci poi in un Paese straniero, fuori dall’area euro. Ma è ovvio il risparmio in costi logistici della fornitura da Bulgaria su Bulgaria o Paesi limitrofi e ci siamo quindi decisi al grande passo». Prima però Serena e il padre vogliono parlarne ai dipendenti italiani: li riuniscono tutti e spiegano le motivazioni della loro decisione, sottolineando che questa non si tradurrà in un ridimensionamento della realtà di Sulbiate. Ciò che è avvenuto dopo ha superato ogni più rosea aspettativa: la realtà bulgara non solo non ha risucchiato lavoro alla «sorella italiana» ma le ha dato un nuovo impulso. Spiega Serena: «Innanzitutto la “testa”, soprattutto quella tecnica, è rimasta in Italia e quindi ogni nuovo progetto nasce e si sviluppa qui a Sulbiate: si fa un paio d’anni di rodaggio e poi eventualmente viene spostato in Bulgaria. E poi tanti prodotti non possono essere comunque prodotti là perché un grosso limite di quel Paese è di non possedere un contesto industriale, diciamo, completo, sicché per alcune finiture dei nostri pezzi non abbiamo interlocutori locali e non avrebbe alcun senso produrli in Bulgaria per poi riportarli qui per le lavorazioni finali, tanto vale realizzarli direttamente in Italia. Tuttavia il vantaggio di avere uno stabilimento in quel Paese è comunque inestimabile in termini di nuovi contatti che altrimenti non riusciremmo e non saremmo riusciti ad agganciare».

Lo stabilimento in Bulgaria.

La storia della costruzione della fabbrica di Plovdiv è una piccola epopea: Serena parte per la Bulgaria con l’obiettivo di trovare un immobile industriale, ma non c’è nulla che vada bene. Bisognerà comprare dei terreni e costruire ex novo, ma prima occorre costituire una società di diritto bulgaro e poi, trovato il terreno, affidare l’appalto a un’impresa italiana perché «se litighiamo, almeno lo faremo secondo il diritto del nostro Paese». Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e oggi i dipendenti in Bulgaria sono 5 contro i 55 di Sulbiate: “In VIRMA con poco personale abbiamo un parco macchine di più di 120 unità con cui tracciamo più di 350 milioni di pezzi l’anno. Il fatturato? Si aggira intorno ai 20 milioni di euro». La produzione è peculiare nel senso che si tratta di minuterie realizzate per la grande industria essenzialmente on demand: «Non abbiamo un catalogo. Il cliente viene da noi con un disegno e noi lo traduciamo in un pezzo, oppure ha solo un’idea o perfino solo un problema e noi, che con la nostra esperienza qualcosa da dire l’abbiamo, lo aiutiamo a sviluppare il prodotto. Comunque il rapporto è sempre 1:1 nel senso che una produzione la posso vendere solo a chi ce l’ha commissionata».

Del momento in cui Serena è entrata in VIRMA abbiamo già parlato, ma prima? Com’era Serena da ragazza, quali i suoi sogni, le sue aspirazioni? Dalle sue parole si evince che in lei non c’è mai stata alcuna incertezza sul fatto che avrebbe seguito le orme paterne: «Siamo tre sorelle, tutte bravissime a scuola. Solo che io non volevo fare il liceo. Da una parente avevo sentito parlare della scuola Manzoni di Milano dove si studiava da perito aziendale corrispondente lingue estere e mi si era schiuso un mondo. Mia madre aveva provato a iscrivermi ma invano: non ero di Milano e il reddito famigliare era alto. Con mio sommo dispiacere avevo dovuto ripiegare sul Liceo scientifico di Vimercate». Ma proprio il giorno prima dell’inizio della scuola il colpo di scena: un’amica della madre le parla di una scuola privata milanese, l’Istituto Orsoline di San Carlo, dove si tiene un corso simile a quello della scuola Manzoni. Serena vi entrerà e quelli saranno «gli anni più belli della mia vita, i più spensierati» nonostante si debba alzare tutte le mattine all’alba per prendere il treno che la porterà a Milano. Non solo, quella scuola la formerà intellettualmente e la farà appassionare alla politica perché lì scopre materie che le aprono la mente come diritto ed economia: «a 17 anni ho preso la mia prima tessera politica, a 18 sono diventata segretaria locale di partito, dai 20 ai 25 anni sono stata consigliere comunale a Bernareggio e di Bernareggio sono stata anche sindaco, eletta a 25 anni». Nel frattempo però frequenta l’Università perché il suo obiettivo resta «lavorare dal papà», cosa che comincia a fare nel 1995 anche se già da un paio di anni veniva «convocata» tutte le volte che c’era qualche incombenza che richiedeva la conoscenza delle lingue.

Serena non è il tipo di donna che si accontenta del lavoro. Il suo mondo interiore è ricco e variegato, si nutre di tanti interessi, ma prima di ogni altra cosa dell’amore per la sua famiglia: «Se lei mi chiede chi è Serena Agostini, le rispondo che per prima cosa sono una mamma, poi una lavoratrice e infine mi piace la politica». In lei però il concetto di famiglia si allarga a comprendere i dipendenti dell’azienda. Senza mielose commistioni, come sottolinea, ma con gesti molto concreti come dare la possibilità di far frequentare ai loro figli un corso particolare oppure di svolgere degli stage in azienda. O anche solo condividendo le loro preoccupazioni quotidiane: «Ci sono in VIRMA persone che già vi lavoravano quando io sono entrata e con loro ho passato più tempo che con chiunque altro, almeno otto ore al giorno, ovvio che si sia instaurata una vicinanza “di sentimento”». Una familiarità rispettosa che si estrinseca in una presenza effettiva tutte le volte che si manifesta un bisogno: «Anch’io ho vissuto dei momenti di difficoltà economica e questi miei trascorsi mi fanno rispettare le necessità dei nostri dipendenti, capisco quando dovrebbero portare il figlio dal dentista, ma magari non hanno i soldi necessari e vengono a chiedermeli». Mentre parla si capisce che non le piace appuntarsi al petto medagliette, si intuisce una reticenza a raccontare questi episodi, come suo padre anche lei non ama l’ostentazione. In nessun campo. Tant’è che è quasi sottovoce che rivendica il fatto di non essere ricca di famiglia e di vivere del proprio lavoro, cosa che ricorda sempre ai suoi figli perché si «mantengano con i piedi per terra». Non si tratta di quell’understatement che a volte è peggio della boria tanto è sottolineato, Serena è stata cresciuta così, con la percezione di avere delle possibilità economiche modeste: «Non eravamo miliardari, ma certamente le nostre possibilità erano superiori a quelle che i nostri genitori ci hanno sempre fatto vivere. La nostra quotidianità era semplice, fatta di piccole cose, la nostra casa era di 100 metri quadrati. I miei genitori avrebbero potuto permettersi ben di più, ma non ne avevano bisogno, non ne abbiamo bisogno. Poi non voglio dire che abbiamo vissuti negli stenti, ma tranquillità e ricchezza sono due concetti diversi».

Scatto di famiglia: Serena con il padre Eraldo.

La politica continua ad appassionarla, «lo faccio per me, se ho del tempo libero, piuttosto che andare al cinema o alla spa, vado a una riunione politica». È una boutade naturalmente, di cui lei per prima sorride. In realtà impegnarsi politicamente significa nel suo vissuto attivarsi concretamente per il territorio anche se l’arricchimento personale è un dato di fatto: «ho potuto conoscere tantissime persone interessanti con le quali scambiare idee, opinioni, in un rapporto che diventa strumento di crescita». Serena coltiva la sua rete relazionale anche attraverso l’uso dei social, che le è abituale, sia pure con discernimento. Per la politica c’è Facebook: «naturalmente devi seguire persone di cui stimi il pensiero e visto che sono convinta che c’è sempre molto da imparare e tanto su cui confrontarsi, questo strumento ti aiuta». Poi c’è Instagram che a Serena serve per condividere l’altra sua passione, la fotografia: «Definisco i miei scatti “romantici” perché catturo con lo smartphone dei dettagli, degli istanti che mi hanno trasmesso un’emozione. Uso le impostazioni e i filtri per fare degli esperimenti, i risultati che ottengo sono tutt’altro che perfetti, ma dai commenti che ricevo vedo che piacciono». Infine c’è Linkedin, «che mi costa fatica perché non sopporto, nemmeno in un post, di sollevare una criticità senza provare a suggerire una soluzione, senza metterci qualcosa di mio». Serena ci ricorre per lavoro, ma non tanto per comunicare i propri prodotti che, come già detto, non entrano in un catalogo. Più che altro si tratta di un mezzo per trasmettere all’esterno l’immagine dell’azienda: «Sono convinta che dalla voce di un imprenditore, da come ragiona su temi concreti e dalla sensibilità che esprime passi anche il suo modo di fare impresa». Diventa una manifestazione della propria identità, dei propri valori. Senza contare che l’utilizzo assiduo di un social da parte di un’azienda porta utenti al proprio sito web creando opportunità di lavoro.

Domanda inevitabile: tre social gestiti in prima persona con costanza significheranno un grande dispendio di tempo, no? Per Serena non è così, afferma di scrivere di getto, e questo perché è spontanea, istintiva, «forse troppo» sospira. La stessa spontaneità, il naturale rifiuto a frapporre troppi filtri al suo pensiero, li si ritrova nelle sue opinioni sui temi che oggi rivestono la maggiore rilevanza sociale. Per esempio quella della parità di genere. Serena afferma di non essersi nemmeno mai posta il problema di essere donna in un mondo imprenditoriale che nel suo business è declinato più al maschile. Idem nell’agone politico, anzi: «quando ero una giovane sindaca mi rendevo conto che il fatto di essere donna veniva considerato un valore aggiunto, ma io non l’ho mai vissuto come tale. Casomai ci giocavo un po’ perché mi consentiva di “pungere” di più senza “pagare dazio”». Nello stesso tempo non sottovaluta i problemi o le difficoltà che altre donne, in altri contesti, sperimentano sulla propria pelle. Proprio per questo afferma di essersi ricreduta sull’utilità delle quote rosa: «Prima non mi piacevano, ma poi ho capito che l’obbligo, per esempio, di avere almeno il 30% di presenze femminili nei consigli di amministrazione ha accelerato l’accettazione sociale e lavorativa delle donne perché ha provato che siamo in grado di ricoprire efficacemente qualsiasi ruolo. E poi perché se avessimo atteso che su una lista con 70 uomini e 30 donne venissero spontaneamente elette queste ultime, beh avremmo dovuto aspettare a lungo…». Però per quanto la riguarda, il suo desiderio è quello di emergere per capacità e non perché donna: «Anche nel partito mi rifiuto di far parte in quota rosa di una commissione. Se si pensa che io possa essere una risorsa, indipendentemente dal mio sesso, bene, se no ne rimango volentieri fuori. Né mi piacciono quelle situazioni in cui la presenza femminile è sbandierata perché poi, stringi stringi, di sostanza spesso c’è davvero poco». Lei vorrebbe che le donne venissero giudicate e scelte in qualunque campo in quanto persone e auspica che a poco a poco siano loro stesse a sottrarsi alla logica perversa del pink washing. Date queste premesse non suona così strano che dichiari di non essere in grado di giudicare se una leadership aziendale al femminile sia il meglio che ci sia e nemmeno quanto del suo stile di management dipenda dal suo essere donna.

Il termine «persona» ricorre spesso nei discorsi di Serena: per lei non esistono categorie, classificazioni, ma solo individui che come tali vanno rispettati. Ricorda una visita del cardinal Martini a Bernareggio durante il suo mandato da sindaca: grande fibrillazione da parte di tutti e anche un certo grado di emozione. Ma in Serena no: «mi dicevo che era prima di tutto una persona, proprio come me e come tutti gli altri. Io non voglio sentirmi né superiore né inferiore a nessuno. Questa è la vera libertà ed è l’insegnamento che cerco di trasmettere ai miei figli, oltre che il pensiero che mi guida ancora oggi chiunque abbia davanti, cliente, fornitore o dipendente che sia». Anche «rispetto» è una parola tipicamente «agostiniana» – per suo padre prima ancora che per lei, – e così «riconoscenza». A questo proposito Serena racconta due momenti della storia di VIRMA. Il primo: è il 2022, 50° anniversario della fondazione dell’azienda, e si stanno preparando i festeggiamenti. Nel corso della giornata ci sarà anche un momento più ufficiale, contrassegnato da un discorso che farà Serena per risparmiare al padre ormai anziano la fatica fisica e lo stress emotivo. Però Serena ci tiene che le parole che pronuncerà siano condivise da Eraldo e quindi gli chiede cosa vorrebbe venisse detto. La risposta, semplice ma significativa, è: «Devi dire grazie a tutti».
Secondo episodio, molti anni prima dell’evento appena raccontato. Nel 2008 VIRMA attraversa, come tante altre imprese italiane, una crisi importante con un calo di fatturato che Serena definisce «drammatico». Sarebbe logico il ricorso alla cassa integrazione, ma Eraldo si rifiuta e alla figlia spiega: «Ho ricevuto tanto da questa azienda e dai miei dipendenti. È arrivato il momento in cui io restituisca quello che ho ricevuto». Serena prosegue: «Non abbiamo mai fatto un giorno in cassa integrazione se non due mesi durante il Covid, quando davvero la situazione era complicatissima e si rischiava di mettere in forse la sopravvivenza di VIRMA. In quel caso alla fine dell’anno abbiamo dato una compensazione economica per il sacrificio che avevamo chiesto».

Eraldo Agostini firma la lettera nella quale annuncia un ristoro economico per tutti i dipendenti di Virma dopo il periodo di cassa integrazione dovuta al Covid.

Nonostante Serena sia ancora ben lontana dal momento in cui lascerà l’azienda, il passaggio generazionale è un aspetto che sta già affrontando: «Quando sono entrata in VIRMA, mio padre aveva la mia età. Il fatto di aver gestito il passaggio da lui a me gradualmente, senza la pressione di dover prendere le redini di una macchina complessa da un momento con l’altro ci ha consentito di “navigare” in questi anni con tranquillità. Al momento, oltre a mio cugino e a mio cognato, ci sono altri due membri della famiglia in azienda: mio nipote, che è ragioniere ed è in amministrazione, e il maggiore dei miei figli che ho messo a occuparsi degli acquisti, un settore sempre delicato in cui è meglio se a gestirlo è un appartenente della famiglia proprietaria». Se state pensando a un trattamento di favore siete sulla strada sbagliata, Serena è quasi burbera quando sottolinea che «il privilegio famigliare si ferma alla porta d’ingresso, poi i due se la dovranno giocare come tutti gli altri. Le posizioni che ricoprono sono basic, il contratto che hanno avuto è a tempo determinato. Così sia loro che noi potremo capire se si tratta della scelta giusta». E conclude: «Non è detto che un membro della famiglia sia in grado o abbia voglia di fare l’imprenditore. Le scelte vanno intraprese nell’interesse di un bene che va salvaguardato nel tempo perché da esso dipendono sessanta famiglie. Non basta un cognome per rappresentare il domani di un’azienda». Ruvida concretezza, squarciata all’improvviso da una nota sentimentale: «Una cosa è certa: sia i miei figli sia i miei nipoti identificano VIRMA con la figura del nonno e vi riconoscono tutti i valori che lui ha trasmesso durante la sua vita». Se poi questo basterà a farne i futuri manager sarà la serena obiettività di Serena (e scusate il gioco di parole) a valutarlo.

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