Tre Pezzi Iconici: #MUSEO COLLEZIONE BRANCA

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Tre Pezzi Iconici: #MUSEO COLLEZIONE BRANCA

“Ma qual è l’origine del nome Fernet?” La domanda non sarà originale, ma la curiosità è genuina. Lo sguardo di Marco Ponzano brilla divertito dietro gli occhiali: “Me lo chiedono sempre. Lo scoprirete cammin facendo”. Il cammino che ci attende è quello che si snoda lungo le sale della Collezione Branca, di cui Ponzano è non solo il responsabile, ma anche forse qualcosa di più, una sorta di padre putativo: “Nel 1995 ero Responsabile della Comunicazione dell’azienda. Era da tempo che mi dicevo che avrei voluto fare qualcosa di veramente innovativo, diverso dalle réclame a mezzo stampa e dagli spot trasmessi per TV o ai comunicati radio. Non volevo farmi sfuggire le persone, volevo che ricevessero il nostro messaggio di qualità, naturalità, continuità storica. Questo museo è stato la risposta”.

All’inizio sarà solo privato: una chicca riservata a dipendenti, clienti e fornitori. Gli eventi però si rivelano talvolta più forti delle intenzioni: questo luogo così particolare colpisce l’immaginazione dei visitatori, il racconto di ciò che vi è custodito incuriosisce e la richiesta di visite è così elevata da indurre la proprietà a spalancare al mondo esterno il coperchio del suo scrigno di memoria. Verrà inaugurata ufficialmente nel 2009 per iniziativa della famiglia Branca all’interno dello storico stabilimento milanese costruito nel 1915.

La storia delle Distillerie Branca inizia nel 1845 da un alchimista, Bernardino Branca, esperto conoscitore di erbe officinali, che vuole trovare un rimedio a quelle che ai tempi erano due vere piaghe sanitarie: la malaria e il colera. Quest’ultimo morbo vide nell’Italia dell’Ottocento il succedersi di ben sei epidemie con decine di migliaia di morti, la malaria in alcune regioni del nostro Paese era (e lo è stata fino alla sua eradicazione negli anni Cinquanta) una triste e abituale compagna dell’esistenza che causava più o meno 20.000 vittime ogni anno. Nel suo laboratorio Bernardino mischia e miscela, macera e distilla e alla fine arriva a formulare un vero e proprio elisir di lunga vita, almeno a leggerne l’entusiastica descrizione apparsa una quindicina di anni dopo sul quotidiano milanese La Perseveranza che dopo averne esaltato tutta una serie di importanti effetti terapeutici concludeva scrivendo: “Facilita la digestione, impedisce l’irritazione dei nervi ed eccita l’appetito in modo meraviglioso. Esso è sorprendente nel guarire in poche ore quel malessere prodotto dal splean, patema d’animo, non che mal di stomaco e di capo causato da cattive digestioni e vecchiaja”.

Una delle prime pubblicità da affissione delle Distillerie Branca.

Quello che appare curioso ai nostri occhi è che… è vero. Naturalmente “splean” (lo spleen di baudelariana memoria) a parte, o forse no, come potrebbe confessare qualche desperate housewife!

Tralasciando le battute, il ritrovato di Bernardino Branca venne portato all’attenzione del direttore dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, Benedetto Nappi, e sperimentato sui colerosi lì ricoverati con risultati apprezzabili e attestati positivi da parte del Nappi stesso che in una lettera ringraziò Bernardino per aver trovato “la nuova teriaca”, cioè un antidoto (dal greco thériakè) alla temibile infezione. La stessa lettera in capo a pochi giorni tappezzava sotto forma di un manifesto pubblicitario tutti i muri del Lombardo-Veneto: la comunicazione è sempre stata un punto forte dell’azienda!

In realtà non dovremmo stupirci più di tanto di questi riconoscimenti: per millenni l’umanità si è curata con le erbe e quelle che entrano a far parte del Fernet-Branca, almeno quelle che si conoscono – perché la formula completa è tutt’ora segreta – hanno un effetto benefico riconosciuto sull’apparato gastroenterico e sul sistema parasimpatico che lo governa.

Ma torniamo a Bernardino e al suo lavoro di speziale: dice una leggenda che nella faticosa ricerca del suo miracoloso medicinale venne aiutato da un certo Dr. Fernet, medico svedese la cui longevità sarebbe stata utilizzata nelle prime réclame a garanzia dell’efficacia terapeutica: “Il Dottor Fernet visse 104 anni, suo padre 130 e sua madre 112”.

Aspettate un attimo, ecco la risposta alla domanda iniziale, ecco da dove viene il nome Fernet! “Non corriamo” ci gela bonariamente Ponzano tornando al racconto della storia dell’azienda. Dal retrobottega al primo stabilimento di Porta Nuova a Milano il passo è brevissimo: la fama del Fernet-Branca si espande rapidamente in Italia e poi nel mondo, anche al seguito degli emigranti. I figli di Bernardino, spinti dal successo crescente dell’attività paterna ora passata nelle loro mani, ampliano la gamma di prodotti a marchio Branca e diventano inoltre distributori per terzi. La fabbrica di Porta Nuova ormai è troppo piccola e si decide perciò di spostarla in quella che allora era estrema periferia, nel luogo dove ancora oggi si trova. Più che uno stabilimento nel senso che ai giorni nostri viene attribuito al termine, lo si poteva considerare una sorta di villaggio di centinaia di anime, tante erano infatti le persone che vi lavoravano: c’erano abitazioni, almeno quelle dei dipendenti la cui immediata reperibilità era considerata essenziale come per esempio il capocantina, alle spalle della fabbrica c’erano la cascina, chiamata “La cavallerizza” perché si trovavano  le scuderie per i cavalli da trasporto  e il tondino per tenerli in efficienza, gli orti, gli alberi da frutto e i campi di mais. Saranno questi orti e questi campi a garantire tante volte il cibo non solo ai dipendenti, ma anche alla popolazione locale durante la guerra. Nella fabbrica c’era la sartoria, per la realizzazione delle divise che erano di colore diverso a seconda delle mansioni (“Ma non solo! – ride Ponzano – Quante volte qui è stato messo rimedio a un bottone saltato o un improvviso strappo su abiti che nulla avevano a che fare con la vita aziendale!”) e c’era la falegnameria per la realizzazione delle botti. Negli anni Cinquanta, poi, il dopolavoro dell’azienda diventerà gettonatissimo: ci si andava a ballare, debuttarono cantanti che sarebbero diventati famosissimi come Celentano e Wilma de Angelis.

Una scrivania d’ufficio degli anni Trenta, ricostruita all’interno del Museo.

Altri decenni sono passati e oggi siamo alla quinta generazione. La produzione è concentrata in due stabilimenti: uno è quello di Milano e l’altro è a Buenos Aires in Argentina. Se vi sembra strano, pensate che laggiù il Fernet-Branca, soprattutto nella sua versione “Fernandito” (quattro parti di cola e una di fernet), è quasi una bevanda nazionale: parliamo di un consumo annuo di oltre 53 milioni di bottiglie all’anno contro i 13 milioni di tutto il resto del mondo. Fernet, ma non solo. Infatti nella sede milanese si producono anche gli altri prodotti della gamma Branca, quelli più celebri come Brancamenta, il brandy Stravecchio Branca, Borghetti, Punt e Mes, Grappa Candolini e quelli meno noti al grande pubblico, ma non per questo meno pregiati come il Vermut (così viene scritto il suo nome sull’etichetta) Carpano o la Sambuca Borghetti o ancora la vodka Sernova, italiana al 100%, alcuni dei quali hanno alle spalle storie centenarie che da sole meriterebbero un racconto.

Tutto Made in Italy quindi. Certamente – e questo è un vanto dell’impresa – tranne che per l’origine della materia nobile che entra nella composizione del Fernet-Branca e di altri distillati della “famiglia”: le spezie. Queste provengono dalle più svariate parti del mondo: Sudafrica (aloe ferox), Cina (rabarbaro), India e Sri Lanka (galanga), America meridionale (corteccia di china rossa), Africa orientale (radice di colombo), Francia (genziana), solo per citarne alcune. E sono proprio le spezie il “cuore” della Collezione in un enorme espositore ricavato da una botte originale di ben 17.000 litri di capacità: è il nostro primo pezzo iconico, una sorta di ruota – inequivocabile rimando alla Terra sovrastata dall’aquila con la bottiglia di fernet tra gli artigli che è il logo del prodotto dalla fine dell’Ottocento – i cui scomparti ospitano erbe, radici, semi, scorze, cortecce, tutto un mondo vegetale che trova la sua esaltazione nel gusto e nel profumo di quell’amaro che è tra i più imitati al mondo (di questo avremo modo di parlare più avanti). E qui entra uno degli aspetti più intriganti del Fernet-Branca: i suoi tre segreti.

La “ruota” delle spezie, cuore della Collezione.

Innanzitutto quello degli ingredienti cioè le 27 spezie utilizzate. Poi il segreto delle dosi: la pesatura delle spezie viene eseguita dal direttore dello stabilimento ad eccezione di alcune…  di pertinenza del Presidente che effettua personalmente questa operazione. Infine il segreto della modalità di lavorazione degli ingredienti la cui conoscenza da parte degli addetti è vincolata da un severissimo contratto di riservatezza. Una discrezione che in ogni caso nessuno si sognerebbe mai di infrangere, per l’orgoglio tutto alchimistico di far parte di una schiera di eletti: Ponzano ci racconta, ridendo, di aver a volte messo alla prova questo riserbo facendosi prontamente mandare “a stendere” con una secca risposta: “non ti riguarda”.

Tutt’attorno alla grande ruota delle spezie gli strumenti che appartengono all’azienda di ieri emanano un fascino antico: mortai, stadere, caldaie in rame e alambicchi si contendono lo spazio con più domestici attrezzi per il trasporto delle bottiglie. C’è il distillatore da laboratorio, nostro secondo pezzo iconico, utilizzato da Bernardino Branca ed è impossibile non notare, in un angolo, un gigantesco estrattore in rame (il terzo pezzo iconico), simile a un calderone dell’altezza di un uomo, dove veniva versata l’aloe da sciogliere prima dei successivi utilizzi. Ponzano ci spiega che per mescolare il contenuto l’addetto si serviva di uno strumento in ferro che, a operazione conclusa, veniva estratto lucido e pulito, quindi, in dialetto milanese, … “fer net”. Attimo di silenzio. Ma allora… Ponzano sembra benevolmente farsi beffe della nostra perplessità. Quindi è questa l’origine del nome? “In realtà si parla anche di un certo abate francese, padre Fernet…”.

Distillatore da laboratorio in uso nell’Ottocento.
L’estrattore in rame, usato per sciogliere l’aloe.

Prima di riuscire ad approfondire queste rivelazioni, siamo già passati alla parte del museo dedicata alla comunicazione, che è cospicua, variegata e avvincente tanto da farci dimenticare le nostre curiosità etimologiche. La Fratelli Branca è stata tra le prime aziende italiane a investire nella pubblicità in tutte le sue forme traendo ispirazione da quanto era in uso soprattutto in Francia. Già alla fine dell’Ottocento il suo nome circolava su calendari, manifesti, placche in metallo destinate all’affissione nei punti vendita, e poi, via via che i decenni passavano, anche su tipici oggetti da bar come carte da gioco, scacchiere, sottobicchieri, posaceneri, colpendo l’immaginario collettivo, oggi si direbbe, con messaggi e immagini che rispecchiavano non solo il gusto estetico delle varie epoche, ma anche l’evoluzione della società, con l’aggiunta di una strizzatina d’occhio a quello che evidentemente era il cliente tipo: l’uomo di mondo sensibile alle beltà dell’altro sesso, lo stesso gentiluomo che in un manifesto degli anni Venti, in giacca e cappello a cilindro, sigaretta tra le labbra e aria compiaciuta, legge il giornale su una comoda chaise-longue con a fianco la bottiglia del Fernet-Branca.

Manifesto pubblicitario degli anni Venti.

Quasi sempre le protagoniste sono giovani e attraenti e non di rado esibiscono generosamente le loro forme o perché poco coperte (come nel caso di un calendario del 1904 dove due sirene, che si palleggiano divertite il globo terracqueo del logo Branca, salvaguardano il pudore con strategici spruzzi di schiuma) oppure perché esaltate da un abbigliamento che fa vedere poco ma immaginare molto. È questo il caso di un calendario del 1887 ambientato su un transatlantico, in cui una ragazza strizzata in un abito che ne esalta il petto generoso e il vitino da vespa accetta dal comandante un bicchierino di Fernet. In questa immagine però un osservatore attento e curioso coglie altri dettagli che raccontano il momento storico: le prime traversate oceaniche, ai tempi più per necessità che per svago, con destinazione le Americhe. Le scritte sulle casse di Fernet-Branca che sul ponte fungono sia da sedile che da tavolino evocano i luoghi delle grandi emigrazioni italiane, Brasile, New York, Sidney, Buenos Aires, ma indicano anche l’effervescenza delle esportazioni del prodotto sottolineandone il successo mondiale.

Calendario pubblicitario del 1887.

E che dire del calendario dell’anno precedente (1886) in cui una bersagliera, anche lei dal fiero décolléte, offre il Fernet-Branca a un nativo africano con tanto di barbuto musulmano sullo sfondo? Era appena iniziato il fenomeno del colonialismo italiano con l’acquisto dei porti di Assab e Massaua e tutto, in quel bozzetto, rimanda alla visione che la gente “comune” aveva di quei luoghi lontani e delle genti che li abitavano.

Molti dei manifesti dei primi del Novecento hanno firme illustri: Dudovich (che già parla a un pubblico diverso, quello delle famiglie, con la bella governante che, di ritorno dagli acquisti quotidiani, reca nel cestino la bottiglia di Fernet), Jean d’Ylen, Leopoldo Metlicovitz (autore del celeberrimo logo aziendale), Maga (che firma uno dei manifesti più divertenti, un coccodrillo reduce da un cospicuo pasto che con aria di giubilo innalza al cielo la bottiglia di Fernet-Branca, certezza di una buona digestione). A raccogliere la loro eredità sarà, dagli anni Quaranta, Armando Testa, le cui pubblicità per il marchio Carpano colpiscono per intelligente ironia e raffinatezza grafica. Sarà sempre lui a creare nel 1960 l’ancora modernissimo logo del Punt e mes: un’emisfera sovrastata da una sfera intera dello stesso diametro (un punto e mezzo, appunto, e mi si perdoni il bisticcio di parole), entrambe del medesimo rosso aranciato dello storico aperitivo. Proprio l’origine del nome di questo prodotto è al centro di un simpatico aneddoto. Siamo nel 1870, nella bottega torinese, in piazza Castello, della Carpano, affollata come al solito di professionisti e personaggi “in vista” della città. Uno dei clienti, di mestiere agente di borsa, sta discutendo animatamente di titoli e nella foga ordina il consueto vermouth che questa volta però vuole corretto con un po’ di china e soprappensiero lo fa con il linguaggio del suo lavoro: un punt e mes, in torinese, un punto (di amaro) e mezzo (di dolce). Non solo la frase diventerà popolare tra gli habitué della bottega, ma sarà presto seguita da un gesto leggendario: il pollice alzato seguito da una linea orizzontale tracciata nell’aria. Era nato uno dei prodotti più longevi e famosi della Casa.

Uno dei più divertenti manifesti pubblicitari del Fernet-Branca, a firma MAGA.

La stessa creatività si ritrova anche negli spot televisivi che oggi vengono citati nelle tesi degli studenti universitari che studiano comunicazione e che affollano il Museo perché, dice Ponzano “non si inventa nulla, basta guardare al passato”. Negli anni Sessanta ci saranno le figurine in plastilina dell’artista giapponese Fusako Yusaki, che metamorfosano e trasmutano da una forma all’altra grazie alla tecnica della claymation, negli anni Ottanta avremo la solennità maestosa del volo d’aquila sopra monti e vallate, per arrivare al blocco di ghiaccio scolpito a colpi di martello fino a trasformarlo in un bicchiere per il Brancamenta (Brrr… Brancamenta). Lo stesso bicchiere che si ritrova nel museo: nella realtà è in vetro, per ricreare l’effetto del ghiaccio che si frantumava erano stati applicati dei pezzetti di vetro con un semplice biadesivo in modo che bastasse il tocco con lo scalpello per farli “saltare”.

Forse non ci si pensa, ma è sempre comunicazione aziendale, e ai massimi livelli, la Torre Branca, che dall’alto dei suoi 108 abbondanti metri di altezza domina il Parco Sempione e l’intera città di Milano. Contrariamente a quello che si crede, non venne commissionata dalle Distillerie Branca e nemmeno si chiamava così all’inizio. Il suo nome era invece Torre Littoria, con un’aggettivazione che la inquadra facilmente dal punto di vista temporale. La sua progettazione venne infatti affidata a Giò Ponti su precisa volontà di Mussolini, nel 1932, in vista dell’inaugurazione della V Triennale che si sarebbe tenuta di lì a un anno. L’intenzione era quella di innalzare un faro che con la sua “lanterna” avrebbe indicato la posizione del Palazzo dell’Arte, sede dell’esposizione. Dopo pochi mesi dall’inizio dei lavori era già finita, inaugurata nel giugno 1933, esile ed elegante struttura interamente in tubi Dalmine (dono della Dalmine stessa) con alla sommità un piccolo bar che poteva ospitare una ventina di persone. Diventata in seguito la Torre del Parco Sempione, negli anni Cinquanta-Sessanta venne utilizzata dalla RAI, ma già alla fine anni Sessanta versava in condizioni critiche che culminarono con la dichiarazione di inagibilità nel 1972, triste epilogo per questa nostrana tour eiffel la cui altezza era stata fissata dal duce in persona perché non superasse la Madonnina del Duomo! Ma la riscossa era dietro l’angolo. Nel 1985 la F.lli Branca Distillerie sigla con il Comune di Milano, di cui è proprietà, la concessione per il restauro e l’utilizzo in esclusiva e nel 2002 la riapre al pubblico in omaggio alla città. L’apprezzamento dei milanesi, e non solo, da allora non è mai scemato: nei weekend il numero delle visite sfiora il migliaio, con cinque persone alla volta che guadagnano con l’ascensore la sommità con il locale panoramico da cui si gode un’impagabile vista a 360 gradi per sei straordinari minuti, che è il tempo consentito per la sosta. Il bar in cima non c’è più, ma alla base è stato realizzato uno dei luoghi più famosi della movida della città, il JustMi.  

Dal linguaggio del design e dell’architettura a quello dell’arte. Nel 2015, in occasione del suo 170° compleanno, la Branca ha incaricato gli street artist italiani, gli Orticanoodles (il nome rimanda al quartiere milanese, l’Ortica, da dove è partita la loro avventura artistica), di decorare con un murale la ciminiera dello stabilimento, la prima street art verticale: un intrico, alto 55 metri, di foglie, bottiglie e immagini iconiche che rimandano al marchio, realizzato con una tecnica antica, quello dello spolvero, a sottolineare l’importanza della Storia per la Casa (non a caso. “Novare Serbando”, innovare conservando, è il suo motto). E con una particolarità: alla base della struttura sono dipinte le radici della ciminiera e i dipendenti sono stati coinvolti firmandole, quasi a sancire un legame di affetto e di intenzioni che dal passato si proietta nel futuro. Dall’altra parte dell’oceano, in Argentina, invece l’azienda è promotrice di un concorso annuale destinato ai giovani artisti argentini che si cimentano con l’ideazione di un manifesto pubblicitario del Fernet-Branca, chiaro rimando alle réclame delle origini.

Un’opera di street art sulla ciminiera delle Distilleria: è stata realizzata in occasione del 170° compleanno dell’azienda.

Il percorso si chiude con una serie di vetrine che espongono sia i prodotti delle Distillerie lungo l’arco della loro storia sia, ed è questo il momento forse più divertente, i fake. Il fatto è che il Fernet-Branca è imitatissimo, non tanto negli ingredienti che, come abbiamo visto, sono in parte segreti – e onestamente basta un sorso per smascherare la “patacca” – quanto nella forma delle bottiglie e nelle etichette con il chiaro intento di indurre il consumatore a un acquisto che si rivelerà poi erroneo. A volte la grossolanità nell’imitazione è tale da strappare un sorriso e anche qualche risata. E anche in questo caso Ponzano ha pronto un aneddoto: un giorno arriva da parte di Lamberto Gancia una bottiglia del fernet prodotto dalla sua azienda (peraltro prodotto serissimo e anch’esso storico) accompagnata da un biglietto: “Metti anche il mio fernet nei “tarocchi”.

A dire la verità un po’ ce lo aspettavamo, ma quando ci viene concesso di dare un’occhiata alle cantine, l’emozione è comunque grande. Scendiamo nel sancta sanctorum della fabbrica dove il Fernet-Branca matura per un anno e lo Stravecchio invecchia per tre. Quasi 400 gigantesche botti in legno di rovere perfettamente allineate a perdita d’occhio, in un’atmosfera solenne, carica di un silenzio da cattedrale che serve, ci immaginiamo, a non disturbare i lunghi sonni dei distillati.

Prima di uscire un flash: allora, quale delle tre possibili origini del nome Fernet è quella vera? Ponzano ride agitando la mano in segno di saluto “Ma quella che volete, quella che più vi piace”.

Tutte le foto sono su gentile concessione delle Distillerie Fratelli Branca.

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