Sulla copertina un agricoltore alla guida di un trattore nuovo fiammante in uno stentato paesaggio dominato da fichi d’india che però sono in piena fioritura, quasi una promessa di vita, e un titolo che è un urlo: SOSTITUIRE AI CARRI ARMATI I TRATTORI E IL DESERTO FIORIRÀ. Nessun punto esclamativo, la forza della frase è tutta nelle parole. E all’interno? L’intervista al sig. Desforges, di professione agricoltore, che a Le Puizet (a 35 km da Orleans), coltiva 75 ettari a barbabietole, leguminose ed erba medica nonché frumento e orzo facendosi aiutare da SAME CENTAURO DT delle cui prestazioni è talmente soddisfatto che intende comperarne un altro; un reportage da Addis Abeba dove il sig. Battista Montanari possiede 6.000 ettari di agrumeti, bananeti, campi di cotone, papaie e meloni, che vedono all’opera “decine e decine tra ARIETE, CENTAURO, 360 C, infaticabili sempre sotto il sol… leone, anche lui in una terra di leoni”; alcune pagine tecniche dove campeggia la foto sorridente di “Falletti Luigina, un’autentica figlia dei campi fotografata nella campagna vercellese” sopra un SAME LEONE; il resoconto della Giornata dell’Agricoltura tenutasi al castello di Malpaga: “nel regno dei cavalli ferrati del Colleoni i rombanti cavalli della nuova agricoltura”. Abbiamo appena sfogliato il numero V di luglio-agosto 1967 della rivista 4RM Quattro ruote motrici – Giornale illustrato di attualità agricola, house organ della SAME, dal 1942 leader nella produzione di trattori. I numeri della rivista, che uscirà fino al 2007, si possono consultare nell’Archivio Storico SDF che raccoglie la documentazione storica dell’azienda i cui prodotti recano marchi prestigiosi: SAME, Lamborghini Trattori, Hürlimann, Grégoire, Vitibot e DEUTZ-FAHR. L’archivio è sconfinato, parliamo di 260.000 disegni tecnici e 40.000 documenti, una ricchissima collezione che comprende materiale sia tecnico (disegni, brevetti, libretti di istruzione e manutenzione, manuali d’officina, cataloghi ricambi) sia pubblicitario (dépliant, pubblicità a stampa, calendari, house organ, filmati) sia amministrativo (scritture sociali, bilanci, registri di omologazione), arricchita ancora oggi dagli uffici interni dell’azienda e da privati. Ne è derivato uno strumento straordinario non solo per conoscere la storia della meccanizzazione agricola in Italia, ma anche per comprendere l’evoluzione di un mondo contadino fatto di uomini prima ancora che di macchine.
Ed è solo uno dei 2.770 complessi archivistici del nostro Paese, registrati dal SAN, il Sistema Archivistico Nazionale, che con il suo portale consente di accedere a un vasto patrimonio documentale che disegna il quadro dell’imprenditoria italiana dalle origini ai giorni nostri. Al suo interno si viene indirizzati, tra gli altri, a una vera chicca: il fondo Datini, da cui emerge un’immagine quanto mai vivace della vita economica e sociale di fine Trecento. Si tratta di un’ampia raccolta di libri contabili, atti, lettere d’affari e non, appartenuti a Francesco di Marco Datini (1335-1410), mercante in quel di Prato, orfano ancora bambino di entrambi i genitori, portati via dalla peste nera che nel Trecento flagellò l’Italia (la peste del Decameron del Boccaccio, per intenderci), prima giovanissimo apprendista dell’arte della mercatura a Firenze e poi emigrante ad Avignone, sede a quei tempi della Corte Papale e centro commerciale tra i più fiorenti d’Europa. Da qui comincerà la sua ascesa, scandita dalla creazione di numerose aziende in Italia e all’estero, dall’offerta da parte del Comune di Prato di incarichi politici prestigiosi (che non accetterà preferendo all’incerto mondo della politica quello degli affari), dai rapporti di amicizia con i grandi della Terra (saranno suoi ospiti Francesco Gonzaga Signore di Mantova, Leonardo Dandolo ambasciatore della Repubblica di Venezia, Luigi II d’Angiò re di Napoli e Sicilia), e premiata dall’accumulo di una ingente ricchezza che alla sua morte senza eredi verrà lasciata ai poveri di Firenze. Le carte, oggi digitalizzate, aprono squarci su un mondo cosmopolita (più di quanto ci aspetteremmo nel XIV secolo), operoso e abile nell’amministrazione dei beni e nella gestione degli affari. Qualche esempio: nel Quaderno di balle C, compilato tra il 1396 e il 1397 dalla compagnia Datini di Maiorca sono raccolte quietanze redatte da persone di tutte le nazionalità che, ognuno di suo pugno e nella propria lingua, attestano di aver ricevuto del denaro dalla compagnia stessa. Uno di essi è il giudeo Magaluf che il 30 ottobre 1397 dichiara di aver ricevuto 100 lire, un impiegato della compagnia si preoccupa di farne la traduzione “Questo huol dire che Maghalufo Albol à ‘uto questo dì 30 d’ottobre lire ciento contanti”. Non è difficile immaginarsi gli uffici della compagnia, affollati di mori e toscani, catalani e greci in una cacofonia di idiomi diversi che però poi devono essere compresi da tutti, specialmente da messer Datini, di qui lo scrupolo dell’impiegato. Incuriosiscono i Quaderni di casa dove vengono riportate scrupolosamente tutte le spese sostenute per il mantenimento della famiglia del mercante, dalla lavatura dei panni ai costi delle stoviglie alle spese mediche, inteneriscono le lettere tra Francesco e la moglie Margherita e intrigano i carteggi commerciali. Una delle lettere testimonia l’avanzata di Tamerlano nel 1401: la notizia arriva alla compagnia Datini di Barcellona da Filippo Arrighi, residente a Montpellier, che a sua volta l’aveva ricevuta da alcuni mercanti di Rodi a cui l’aveva riferita, testimone oculare, Gherardo di Doni (“del tutto Domasco è spianato e ‘l chastello dirochato e lla sinagogha de’ giudei fatta rovinare con tutti giudei grandi, picholi, maschi e ffemine dentrovi e ttuti mortivi”). Una vera iattura per le carovane che transitavano dalla Siria per portare le mercanzie dall’Oriente all’Europa, una preoccupazione in più per Datini che nel frattempo riceve le variazioni dei prezzi delle spezie nel Maghreb e le ultime informazioni sul mercato della lana a Southampton: nella sua vita un intreccio di missive, circa 150.000, che arrivano da 267 località differenti.
Molto più vicino ai tempi nostri è l’Archivio della Fondazione Dalmine composto da 65.000 fascicoli, 30.000 fotografie, 5.00 disegni architettonici, 2.000 volumi, 950 audiovisivi a partire dal 1906, data di fondazione dell’azienda, una testimonianza fondamentale della storia della produzione e dell’organizzazione del lavoro dell’azienda, ma anche del suo legame con il territorio. Qui si trovano anche i documenti relativi alla progettazione e poi alla nascita, tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento, di una vera e propria company town attorno alla fabbrica, costituita da edifici residenziali, di rappresentanza, sportivi e religiosi destinati ai dipendenti e ai loro famigliari. La preoccupazione per l’azienda in quegli anni è di “dare la possibilità di risiedere in loco”: si vuole attrarre manodopera e poi tenerla legata attraverso un sistema di affitti annuali che vengono rinnovati solo se il dipendente continua a essere tale oppure se il posto di lavoro passa dal padre al figlio. Tuttavia quel villaggio non è funzionale solo agli interessi del padrone: c’è una farmacia, un ambulatorio, la chiesa, la scuola elementare (sorgerà ben tre anni prima dell’analoga, comunale, in Dalmine), la Scuola Apprendisti per la formazione (peccato solo quell’odor di disciplina militare che aleggia tra alzabandiera, ginnastica e adunate), una mensa e una Cooperativa di Consumo dove vengono venduti i prodotti agricoli provenienti dalle cascine di proprietà dell’azienda, e poi ancora le colonie marine e montane destinate ai figli dei lavoratori. “Costruzione del consenso” verrà poi definita questa forma di welfare aziendale che però recava benefici, e non pochi, in un momento storico in cui il benessere degli operai non era esattamente al culmine delle preoccupazioni di tutti gli imprenditori. Una sezione dell’archivio, Faccia a faccia, ha a tratti qualcosa di commuovente: qui si trovano le foto personali donate dai dipendenti, ognuna corredata da una didascalia che spiega dove e quando è stata scattata. C’è Maria Corti, nel 1944 giovane impiegata all’ufficio paghe dello stabilimento di Dalmine, perfettamente a suo agio davanti all’obiettivo mentre è al telefono e alla macchina da scrivere nella sua impeccabile divisa nera con colletto candido, Angelo Facoetti, operaio negli anni Sessanta che nelle foto passa dal lavoro quotidiano al reparto attrezzeria alla squadra aziendale di calcio, Achille Bernardi, dirigente al settore vendite fino agli anni Cinquanta, immortalato in cima all’Adamello con alcuni colleghi.
Storie di donne e uomini che aiutano a far capire come le imprese abbiano cambiato il volto del territorio in cui si trovano e viceversa, una corrispondenza biunivoca che è parte importante dell’identità di un’azienda e che viene integrata da quelle che a una prima occhiata potrebbero sembrare fonti più “aride”, le scritture sociali, le carte amministrative e contabili, i documenti tecnici e progettuali. Da lì si evince la storia dell’azienda stessa, il suo concreto modo di operare, la mentalità imprenditrice del suo management.
Ecco perché per un’impresa è importante non solo costituire un fondo archivistico che ne tuteli il passato, ma anche organizzarlo in modo razionale e se possibile digitalizzarlo: questi due passi sono essenziali per la sua valorizzazione, per amplificarne l’accessibilità. Un esempio da proporre a tutti è l’Archivio Storico Bracco che in occasione del 95° anniversario della Fondazione dell’impresa è stato messo online: centinaia di video, foto, documenti inediti che ripercorrono la storia di uno dei più importanti marchi italiani dal dopoguerra a oggi. E il motivo lo spiega bene Diana Bracco: “Non mi stancherò mai di ripeterlo, non si può costruire il futuro senza conoscere il passato. Le nuove generazioni devono avere memoria di cosa è successo prima di loro, per tendere a un miglioramento continuo”. Un invito alla divulgazione della memoria che le aziende dovrebbero accettare con entusiasmo.