Che i musei siano realtà culturali spesso percepite lontane dalla contemporaneità, anche quando conservano la contemporaneità è purtroppo un dato di fatto. Che vengano percepiti come luoghi di nicchia, per esperti e appassionati, anche. Che le collezioni, pure le più evocative, siano irrigidite in allestimenti che sottraggono loro empatia e linguaggio, pure. Ebbene, una parola che sembra sia divenuta la panacea, dopo il termine resilienza, è sicuramente “inclusione”. Pare essere il must. In una società sempre più autoreferenziale e respingente, essere inclusivi, o provarci, diviene distintivo. Ma dal dirlo, anzi dal proclamarlo, al farlo non esistono automatismi né scorciatoie.
L’inclusività non è solo quella fisica, legittima e necessaria, nel rendere gli spazi accessibili, ma vi è quella linguistica (nei nostri musei, se va bene, abbiamo l’italiano e forse l’inglese), contenutistica (fornire una varietà che consenta l’approfondimento e al contempo una differenziazione per pubblici diversi, anagraficamente e culturalmente), visiva (gli apparati didascalici sono di frequente obsoleti, poco leggibili, o peggio datati con informazioni superate).
L’inclusività diviene poi una barzelletta quando il museo stesso invece di essere aperto, rimane chiuso. E qui si dovrebbe aprire un’ulteriore parantesi sulle scelte politiche, sulla ricaduta sui cittadini, sui bilanci che spesso prevedono il solo mantenimento della struttura, nelle voci dei costi essenziali, e non la promozione, la progettazione, la valorizzazione e, appunto, l’apertura. Del resto siamo il paese al mondo con più Musei, tanto che l’ex ministro Antonio Paolucci a suo tempo coniò in maniera appropriata per l’Italia la definizione di “museo diffuso”. Siamo maledettamente ricchi nella unicità e al contempo varietà del patrimonio e ci accontentiamo di appuntarci questo blasone senza fare una reale ricognizione sulla qualità e l’efficienza del nostro straordinario apparato museale.
Una delle soluzioni la può fornire l’arte contemporanea, disciplinata dallo sguardo del curatore, che sappia indirizzare l’artista agli obiettivi di reinterpretazione e attualizzazione della collezione. Perché generalmente i nostri musei “ospitano” l’arte contemporanea ma non interagiscono con essa. Certo, non è dovuto. Forse questa necessità non è sentita perché non si intendono le carsiche potenzialità espressive dell’arte contemporanea a contatto con reperti di tempi altri e di natura diversa. Eppure l’italiano si è costituito dalla spinta del volgare che ha soppiantato, facendolo proprio e rielaborandolo, l’aulico latino. Noi parliamo il latino, inconsapevolmente, attraverso la mediazione accomodante e necessaria di una lingua più moderna che guarda al futuro, rinnovandosi, ma trattiene l’antico. L’arte contemporanea similmente può fungere da collante, da trait d’union tra ciò che c’è e un pubblico che a volte non comprende o comprende a fatica il vocabolario museale.
Dall’astrazione concettuale occorre passare alla concretezza esemplare di un progetto sperimentale che è giunto alla seconda edizione e vedrà quest’anno la terza: si tratta di “Visioni dall’infra-ordinario” al Museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro (PR). Per chi non conosce questo eccezionale Museo, vale la pena visitarlo. Per chi lo conosce, grazie all’arte contemporanea vale la pena rivisitarlo, proprio perché gli artisti sono chiamati a interagire con le collezioni, nello spazio della stalla, che diviene laica navata, a reinterpretarle e rinnovarle anche mediante l’inclusione di oggetti nelle loro opere d’arte. Gli artisti non fagocitano, anzi si mettono in ascolto e in dialogo col patrimonio materiale e immateriale. Si attua un’epifania interdisciplinare, che esplora i territori di tangenza e contiguità tra mondi apparentemente differenti: quello artistico, dell’antropologia e delle scienze. Il sapere, nella sua complessità, si ri-costruisce attraverso l’interazione di materie e sensibilità differenti. L’arte, l’antropologia e la museologia dove si collocano? Esattamente dentro a questo processo di analisi, di riflessione e di metamorfosi creativa che fa del museo un luogo narrativo, di riscrittura e di invenzione di nuovi sguardi e nuove derive. L’arte insomma agisce da catalizzatore immaginifico per il presente del museo e soprattutto per il futuro.